Quali adempimenti sono tenuti ad osservare i creditori, muniti di ipoteca iscritta sui beni confiscati, all’esito dei procedimenti di prevenzione?

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I creditori muniti di ipoteca iscritta sui beni confiscati all’esito dei procedimenti di prevenzione, per i quali non si applica la disciplina del d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, devono presentare la domanda di ammissione del loro credito, al giudice dell’esecuzione presso il tribunale che ha disposto la confisca, nel termine di decadenza previsto dall’art. 1, comma 199, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, anche nel caso in cui non abbiano ricevuto le comunicazioni di cui all’art. 1, comma 206, della legge da ultimo citata.

L’applicazione di detto termine è comunque subordinata all’effettiva conoscenza, da parte del creditore, del procedimento di prevenzione in cui è stata disposta la confisca o del provvedimento definitivo di confisca.

È, in ogni caso, fatta salva la possibilità del creditore di essere restituito nel termine stabilito a pena di decadenza, se prova di non averlo potuto osservare per causa a lui non imputabile.

(Ricorso dichiarato inammissibile)

(Normativa di riferimento: L., 24 dicembre 2012,, n. 228, art. 1, c. 199)

Il fatto e i motivi addotti nel ricorso per Cassazione

In data 15 marzo 2001, la B. N. del L. s.p.a. (di seguito indicata come “BNL”) concedeva alla I. C. s.r.l. un mutuo dell’importo di C 516.456,90, la cui restituzione era stata garantita dalla mutuataria mediante iscrizione, eseguita il 19 marzo 2001, di ipoteca su di un complesso immobiliare di cui era proprietaria. Con atto di compravendita del 18 dicembre 2003, la I. C. s.r.l. aveva venduto ad A. D. la proprietà di parte di tale complesso immobiliare ed il compratore si è accollato una quota residua di mutuo, pari ad C 75.000,00, con conseguente frazionamento dell’ipoteca e, in ragione del mancato pagamento di complessivi C 67.319,05 da parte di D., BNL, dopo avere notificato atto di precetto il 26 maggio 2011, intimando al debitore il pagamento di tale somma di denaro, ha iniziato contro lo stesso una procedura di espropriazione forzata, mediante trascrizione di atto di pignoramento sull’immobile ipotecato, eseguita il 4 ottobre 2011.
Il precedente 15 ottobre 2008 su tale immobile era stato, peraltro, trascritto, nei confronti del D. e di J. J. S., coniuge del primo in regime di comunione dei beni, il provvedimento di sequestro di prevenzione emesso in data 4 maggio 2001 dal Tribunale di Palermo e la proprietà di tale immobile era stato soggetto, successivamente, oggetto di confisca di prevenzione, disposta con decreto n. 109 del 2010 emesso dal Tribunale di Palermo, divenuto definitivo il 10 gennaio 2012; al riguardo, non risulta che la proprietà dell’immobile sia stata trasferita ovvero aggiudicata a terzi dall’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata (di seguito indicata come “Agenzia”).
Con ricorso depositato il 28 gennaio 2014, BNL chiedeva al Tribunale di Palermo, in funzione di giudice dell’esecuzione, di ammettere il proprio credito nei confronti di D. al passivo della procedura di liquidazione di tale immobile fermo restando che, nel procedimento originato da tale domanda, l’Agenzia non si era costituita.
Con ordinanza emessa il 10 dicembre 2014 e depositata il 28 ottobre 2015, il Tribunale di Palermo, in funzione di giudice dell’esecuzione, dichiarava inammissibile la domanda, rilevando che: a) la confisca di prevenzione dell’immobile sul quale era stata iscritta ipoteca a garanzia della restituzione del mutuo era divenuta irrevocabile prima dell’entrata in vigore della legge n. 228 del 2012; b) con riferimento a tale ipotesi, l’art. 1, comma 199, della stessa legge prevede espressamente che le domande di ammissione del credito al passivo del procedimento di liquidazione del bene confiscato vadano proposte, a pena di decadenza, entro 180 giorni dall’entrata in vigore della stessa legge, avvenuta il 1 gennaio 2013, onde la domanda di ammissione del credito avrebbe dovuto essere presentata entro il 30 giugno 2013; c) invece, il ricorso contenente tale domanda era stato depositato il 28 gennaio 2014, sicché la banca ricorrente era decaduta dal diritto di ammissione del credito.
Avverso il suddetto provvedimento, proponeva ricorso per cassazione la B. P. I. s.c.p.a., quale mandataria di BNL, chiedendone l’annullamento attraverso la formulazione delle seguenti doglianze: a) vizio di violazione di legge ex art. 606, comma 1, lettera b), cod. proc. pen., con riferimento all’art. 1, comma 206, legge 24 dicembre 2012, n. 228, nella parte in cui dispone che l’Agenzia, «entro dieci giorni dall’entrata in vigore della presente legge, ovvero dal momento in cui la confisca diviene definitiva, comunica ai creditori di cui al comma 198, a mezzo posta elettronica certificata, ove possibile e, in ogni caso, mediante apposito avviso inserito nel proprio sito internet: a) che possono, a pena di decadenza, proporre domanda di ammissione del credito ai sensi dei commi 199 e 205; b) la data di scadenza del termine entro cui devono essere presentate le domande di cui alla lettera a); c) ogni utile informazione per agevolare la presentazione della domanda» giacchè, secondo la ricorrente, con la richiamata legge n. 228 del 2012 (art. 1, commi da 194 a 206), è stata espressamente disciplinata la tutela dei terzi in riferimento ai beni confiscati a definizione di procedimenti di prevenzione patrimoniali per i quali (come quello nei confronti di D.) non trovava applicazione la disciplina dettata dal d.lgs. n. 159 del 2011 (“Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione”); sulla base di tale disciplina, i creditori del prevenuto, a favore del quale sia stata iscritta ipoteca sul bene confiscato prima della trascrizione del sequestro di prevenzione, possono presentare domanda di accertamento del proprio credito nell’ambito della procedura di liquidazione entro 180 giorni dall’entrata in vigore di tale legge (art. 1, comma 199) se la confisca è divenuta definitiva prima di tale giorno; peraltro, il successivo comma 206 dello stesso art. 1 fa espressamente obbligo all’Agenzia di dare ai creditori del prevenuto le comunicazioni sopra indicate e, tale essendo il quadro normativo, la ricorrente lamentava che l’interpretazione data dal Tribunale al precetto contenuto nell’art. 1, comma 199, non tenesse conto delle disposizioni recate dal successivo comma 206 e della necessità di operare in via interpretativa un coordinamento con queste ultime.
In particolare, nel caso concreto, nessuna comunicazione era stata inviata dall’Agenzia a BNL in adempimento dell’obbligo prescritto da tale ultima disposizione e nulla era stato pubblicato sul sito internet della stessa Agenzia: tale omissione non poteva non riverberare i propri effetti sulla stessa decorrenza del termine decadenziale in esame posto che la creditrice non era stata posta in condizione di poter esercitare l’unico mezzo di tutela previsto dall’ordinamento per il soddisfacimento delle proprie legittime ragioni; b) inosservanza di norme processuali previste a pena di nullità ex art. 606, comma 1, lettera c), cod. proc. pen., in relazione agli artt. 178 dello stesso codice, 4 della decisione quadro 2005/212/GAI del Consiglio in data 24 febbraio 2005 e 1, comma 206, della legge n. 228 del 2012 atteso che, richiamandosi il contenuto della predetta decisione quadro, relativa alla confisca di beni, strumenti e proventi di reato, con particolare riferimento all’art. 3, commi 2, lettera c), e 3, concernenti i presupposti sostanziali per l’adozione di un provvedimento di confisca, la ricorrente valorizzava il contenuto precettivo del successivo art. 4, a tenore del quale «ciascuno Stato membro adotta le misure necessarie ad assicurare che le persone cui si applicano le disposizioni di cui agli artt. 2 e 3 dispongano di effettivi mezzi giuridici a tutela dei propri diritti», nonché le disposizioni oggetto della proposta di direttiva n. 2012/0036/COD, relativa al congelamento e alla confisca dei proventi di reato nell’Unione Europea presentata il 12 marzo 2012 dalla Commissione Europea al Parlamento UE e, in particolare, si citavano l’art. 8, comma 1, il quale prevede che ciascuno Stato membro adotti «le misure necessarie a garantire che, al fine di salvaguardare i propri diritti, le persone colpite dai provvedimenti disciplinati nella presente direttiva godano del diritto a un ricorso effettivo e che gli indagati godano del diritto a un giudice imparziale», e il comma 6, a tenore del quale, quando la confisca colpisca beni di un terzo «questi o il suo difensore sono informati del procedimento che può portare ad un provvedimento di confisca di tali beni e possono partecipare al procedimento nella misura necessaria a preservare efficacemente i diritti dell’interessato. Tale persona gode quanto meno del diritto di essere ascoltata, del diritto di porre domande e del diritto di fornire prove prima che sia adottato un provvedimento definitivo di confisca»; si richiamava, altresì, la giurisprudenza della Corte EDU, con particolare riferimento alla decisione del 26/06/2001, C.M. c. Francia, in causa 28078/95; in tale quadro, la ricorrente sosteneva che la garanzia del proprio diritto alla partecipazione al procedimento di prevenzione, nel rispetto della disciplina comunitaria e della CEDU, potesse essere assicurata esclusivamente dal rigoroso rispetto della procedura prevista dal citato art. 1, comma 206, della legge n. 228 del 2012, nella specie non avvenuto.

Le argomentazioni prospettate dalla Procura generale

Il Procuratore generale, con requisitoria scritta in data 23 gennaio 2018, chiedeva che venisse dichiarata l’inammissibilità del ricorso in ragione della sua manifesta infondatezza, a tal fine richiamando espressamente il principio di diritto affermato in subiecta materia da Sez. 1, n. 20479 del 12/02/2016, omissis, Rv. 266891, ribadito da Sez. 1, n. 36626 del 12/04/2016, omissis, Rv. 267609.

Le questioni prospettate nell’ordinanza di rimessione

Premesso che il procedimento veniva assegnato alla Prima Sezione penale, per l’udienza del 18 luglio 2017, in prossimità della quale la ricorrente aveva depositato memoria, con cui afferma che, alla luce del precetto recato dall’art. 1, comma 194, della legge n. 228, l’unica forma di tutela del terzo in buona fede titolare di diritti sul bene confiscato è assicurata dalla conoscenza del termine per potere esercitare il proprio diritto all’ammissione al passivo della procedura di liquidazione del bene confiscato e che, nella specie, tale conoscenza era mancata per non avere l’Agenzia effettuato la comunicazione e la pubblicazione sul proprio sito internet previste dal successivo comma 206; con la conseguenza che tali mancati adempimenti giustificherebbero il deposito tardivo della domanda di ammissione del credito di BNL, l’ordinanza di rimessione muoveva dal presupposto – non smentito dagli atti – dell’inadempimento da parte dell’Agenzia dell’obbligo informativo posto a suo carico dal citato comma 206 dell’art. 1 della legge n. 228 del 2012, considerato che nessun avviso la banca mandante della ricorrente ebbe dalla stessa Agenzia quanto al termine di proposizione di domanda di ammissione del proprio credito al passivo della procedura di liquidazione dell’immobile confiscato, originariamente garantito da ipoteca – estinta ex lege per effetto del provvedimento ablatorio – verso la persona cui il bene venne confiscato; né tale avviso risulta pubblicato sul sito internet dell’Agenzia.
Era altrettanto incontroverso il fatto che la presentazione della domanda giudiziale in esame fosse intervenuta soltanto successivamente alla scadenza del termine, previsto a pena di decadenza, di cui all’art. 1, comma 199, della stessa legge n. 228: un ritardo che, secondo la tesi della ricorrente, troverebbe giustificazione proprio in considerazione dell’inadempimento dell’Agenzia all’obbligazione a contenuto informativo di cui al predetto comma 206.
Movendo da tale approccio ricostruttivo, il Collegio rimettente prendeva consapevolmente le distanze dall’impostazione ermeneutica che ispira il precedente costituito da Sez. 1, n. 20479 del 12/02/2016, omissis, Rv. 266891, secondo cui «in tema di confisca di prevenzione, il titolare di crediti ipotecari, che intenda far valere il proprio diritto dinanzi al giudice dell’esecuzione, deve presentare domanda di ammissione allo stato passivo entro il termine, previsto a pena di decadenza, di 180 giorni, che decorre dall’entrata in vigore della legge n. 228 del 2012, oppure, per i beni confiscati in data successiva alla data anzidetta, dal momento in cui il provvedimento di confisca è divenuto definitivo» e, le ragioni della divergenza interpretativa dell’ordinanza di rimessione si coglievano nel rilevo che il citato arresto giurisprudenziale, «nell’interpretare la disciplina della decadenza dal diritto all’accertamento del credito recata dal comma 199 (espressamente richiamata dal successivo comma 205), evitabile solo mediante presentazione di domanda avanti il tribunale che ha emesso l’ordinanza di confisca, in funzione di giudice dell’esecuzione, avesse omesso di prendere in considerazione le disposizioni contenute nel successivo comma 206 e la relativa incidenza su quelle contenute nei commi 199 e 205.
In buona sostanza, osservava il giudice remittente, quella decisione si era limitata solo a prendere atto del contenuto testuale (in sé inequivoco) della disposizione recata dal comma 199 (e di quella contenuta nel comma 205), opportunamente collegata con quella contenuta nel successivo comma 201; omettendo però di dare un qualche senso al contenuto della disciplina legale degli avvisi di cui al successivo comma 206» sebbene, , alla disciplina del comma 206 la decisione del 2016 aveva bensì fatto riferimento, ma quale mero dato fattuale, esclusivamente funzionale all’affermazione che la domanda di accertamento del credito da parte della banca sarebbe stata comunque tardiva, perché presentata dopo che erano decorsi centottanta giorni dalla data di pubblicazione dell’avviso sul sito internet dell’Agenzia, sia pure effettuata oltre il prescritto termine di 10 giorni, e non nella sua interazione dinamica, a livello precettivo, con i commi precedenti evocati dall’ordinanza di rimessione.
Secondo il diverso percorso argomentativo seguito dall’ordinanza di rimessione, dunque dalla previsione che l’Agenzia è, per legge, obbligata a dare avviso ai creditori ipotecari di beni confiscati, con l’indicazione che essi «possono, a pena di decadenza, proporre domanda di ammissione del credito ai sensi dei commi 199 e 205», deve discendere la conseguenza che da tale adempimento da parte dell’Agenzia stessa non possa in alcun modo prescindersi, pena l’elisione del diritto del creditore all’accertamento giudiziale del proprio credito (secondo le prescrizioni contenute nell’art. 52 del d.lgs. n. 159 del 2011), da soddisfarsi, dopo il ricavato dalla vendita del bene confiscato, nella misura specificamente indicata dal comma 203 dello stesso art. 1 e, in siffatta prospettiva, il Collegio rimettente non disconosceva la diversa modulazione procedimentale che la disciplina legale recata dalla legge n. 228 del 2012 – relativa all’accertamento dei crediti nei confronti di soggetti interessati dalla misura della confisca disposta nei procedimenti di prevenzione ai quali non si applichi, ratione temporis, la disciplina di cui al d.lgs. n. 159 del 2011 – presenta rispetto a quella apportata dal “codice antimafia”.
La prima, in particolare, non contempla gli adempimenti prescritti dagli artt. 57 e 58 del d.lgs. n. 159 del 2011, che, a loro volta, si ispirano al paradigma costituito dalla disciplina dell’accertamento dei crediti nel fallimento (secondo le scansioni esemplificate dall’ordinanza di rimessione).
Il modello procedimentale introdotto dalla legge di stabilità 2013 è, invece, declinato secondo le scansioni di un procedimento semplificato, le cui tappe sono costituite dalla già richiamata comunicazione ai creditori da parte dell’Agenzia della facoltà di presentare – a pena di decadenza sancita dal comma 199 o, secondo le diverse ipotesi, dal comnna 205 – domanda di ammissione al passivo dei propri crediti con specifica indicazione della scadenza del relativo termine; dalla presentazione delle domande di ammissione al passivo al tribunale che abbia adottato la misura di prevenzione, in funzione di giudice dell’esecuzione; dalla decisione sulle domande e impugnazione della decisione secondo la procedura delineata dall’art. 666, commi 2, 3, 4, 5, 6, 8 e 9, cod. proc. pen.
Ciò che, peraltro, secondo la Sezione rimettente, accomuna i due procedimenti è l’esistenza di un atto di impulso di matrice sostanzialmente unitaria, rappresentato dalla comunicazione ai creditori titolari di diritti reali di garanzia sui beni confiscati delle modalità per l’esercizio dei propri diritti, secondo le prescrizioni imposte dall’art. 58, comma 2, d.lgs. n. 159 del 2011, e del relativo termine (art. 1, c,mi 199 e 205, I. 228 del 2012; art. 57, comma 2, d.lgs. n. 159 del 2011), «che, in entrambi i casi, è dalla legge qualificato come di decadenza e che decorre dal giorno della comunicazione dell’avviso (art. 1, comma 206, lettera b, cit.; art.58, comma 5, d.lgs. n. 159), onde partecipare alla distribuzione del ricavato dalla liquidazione del bene; in tal guisa ricevendo compensazione, quanto mai parziale, per la perdita della garanzia reale».
La ratio unitaria, che ispira la previsione di tali obblighi di comunicazione pur nell’ambito di discipline legali differenziate, scaturisce, sempre ad avviso del giudice remittente, dall’esigenza di assicurare all’interessato la conoscibilità del momento di iniziale decorrenza del termine stesso onde poter utilizzare, nella sua interezza, il tempo assegnatogli, sull’evidente scorta delle numerose pronunzie della Corte costituzionale secondo le quali, ove un termine sia prescritto per l’esercizio di un’azione a tutela di diritti soggettivi, la cui omissione si risolva in pregiudizio della situazione tutelata, deve essere assicurata all’interessato la conoscibilità del momento di iniziale decorrenza del termine stesso, onde poter utilizzare, nella sua interezza, il tempo assegnatogli, pena la violazione dell’art. 24 Cost. e, a tale proposito, l’ordinanza di rimessione richiama espressamente le sentenze della Corte costituzionale n. 159 del 1971, n. 255 del 1974, n. 15 del 1977, n. 156 del 1986, nonché le numerose decisioni con le quali la Corte costituzionale ebbe ad intervenire sulla disciplina legale, relativa ai termini processuali per l’esercizio di diritti prevista dalla legge fallimentare ante riforma recata dal d.lgs. n. 5 del 2006, come le sentenze n. 255 del 1974, n. 151 del 1980, n. 152 del 1980, n. 155 del 1980, n. 55 del 1986, n. 102 del 1986, n. 120 del 1986, n, 156 del 1986, n. 881 del 1988, n. 538 del 1990.
Oltre a ciò, si faceva altresì presente come la disciplina del codice antimafia contemplasse espressamente un meccanismo di recupero delle domande di accertamento del credito presentate tardivamente, ai sensi dell’art. 58, comma 5, d.lgs. n. 159 del 2011, che ne consente l’ammissione «solo ove il creditore provi, a pena di inammissibilità della richiesta, di non aver potuto presentare la domanda tempestivamente per causa a lui non imputabile»; ipotesi che sarebbe destinata a ricomprendere l’ipotesi di mancata comunicazione ai creditori prevista dall’art. 57, co,ma 2, d.lgs. n. 159: segnalando che si tratta di una soluzione normativa che ricalca quella introdotta dall’art. 101, ultimo comma, I. fall., in tema di domande di ammissione di crediti alla procedura fallimentare c.d. “supertardive”, volta ad ammettere la possibilità di presentazione delle domande tardive anche oltre il termine, prescritto a pena di decadenza, indicato dal primo comma dello stesso art. 101, «se l’istante prova che il ritardo è dipeso da causa a lui non imputabile».
In conseguenza di ciò, si richiamava, quindi, l’orientamento della giurisprudenza di legittimità formatasi sull’interpretazione di tale norma della legge fallimentare, fermo nell’affermare il principio secondo cui «ai fini dell’ammissibilità della domanda tardiva di ammissione del credito ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 101 legge fall. (cd. supertardiva), il mancato avviso al creditore da parte del curatore del fallimento, previsto dall’art. 92 legge fall., integra la causa non imputabile del ritardo da parte del creditore; peraltro, il curatore ha facoltà di provare, ai fini dell’inammissibilità della domanda, che il creditore abbia avuto notizia del fallimento, indipendentemente dalla ricezione dell’avviso predetto» (cfr. Sez. 1 civ., n. 4310 del 19/03/2012, omissis, Rv. 622027; Sez. 6 civ., ord. n. 21316 del 20/10/2015, omissis, Rv. 637221).
Per converso, la mancata previsione, da parte della legge n. 228 del 2012, di una disciplina specifica in ordine all’ammissibilità di eventuali domande tardive, con particolare riferimento all’ipotesi dell’inadempimento da parte dell’Agenzia dell’obbligo di matrice legale di effettuare la comunicazione ex art. 1, comma 206 cit., finiva per determinare, ad opinione della Corte, ove si intenda aderire all’impostazione ermeneutica fatta propria da Sez. 1, n. 20479 del 2016, citata, un irreversibile effetto decadenziale per i terzi creditori dal diritto di presentare domanda per l’accertamento giudiziale dei propri crediti; effetto correlato immediatamente ed esclusivamente all’inutile decorso del termine di centottanta giorni decorrente dal 10 gennaio 2013 ovvero dalla successiva data di acquisita definitività del provvedimento di confisca, non soggetto alla disciplina introdotta dal d.lgs. n. 159 del 2011 ed insensibile, quindi, all’eventuale inadempimento dell’Agenzia al predetto obbligo di comunicazione sancito dall’art. 1, comma 206, della legge n. 228 e, in tale prospettiva, una soluzione interpretativa, diretta a colmare quella che è definita una vera e propria lacuna normativa, temperando il rigore applicativo scaturente dall’affermata impermeabilità del termine de quo e del suo decorso all’inadempimento dei descritti obblighi comunicativi di matrice legale, veniva individuata dall’ordinanza di rimessione nell’applicabilità, in sede di analogia in bonam partem, della disciplina generale contenuta nel codice di procedura penale, e, in particolare, del rimedio della restituzione nel termine processuale previsto dall’art. 175 cod. proc. pen. (peraltro, nel caso in esame non richiesta dalla ricorrente), facendo leva sul rilievo testuale che le decisioni sulle domande di ammissione di crediti seguono la procedura indicata dall’art. 666, commi 2, 3, 4, 5, 6, 8 e 9, cod. proc. pen. (art. 1, comma 200, della legge n. 228).
La configurabilità di un potenziale contrasto interpretativo in relazione all’art. 1 della legge n. 228 del 2012 e, segnatamente, sul rapporto tra i commi 199 e 206 di esso, induceva, pertanto, la Prima Sezione a rimettere la trattazione del ricorso alle Sezioni Unite, in applicazione dell’art. 618, comma 1, cod. proc. pen., con riferimento alla questione di diritto, rilevante ai fini della decisione sul ricorso in esame, così sintetizzata: “Se il termine di centottanta giorni dall’entrata in vigore, il 1° gennaio 2013, della legge n. 228 del 2012, previsto dall’art. 1, comma 199, della stessa legge a pena di decadenza dal diritto di proporre domanda di ammissione del credito, da parte dei titolari di cui al precedente comma 198 (creditori titolari di ipoteca iscritta sui beni confiscati in esito a procedimento di prevenzione, ai quali non è applicabile la disciplina contenuta nel libro I del d.lgs. n. 159 del 2011), operi, o meno, anche nel caso di omessa comunicazione agli stessi creditori, a cura dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata, delle informazioni indicate nel comma 206, lettere a), b) e c), dello stesso art. 1, entro dieci giorni dal 10 gennaio 2013, ovvero dal momento successivo in cui la confisca (non soggetta alla disciplina contenuta nel libro I del d.lgs. n. 159 del 2011) è divenuta definitiva“.

Le argomentazioni prospettate dalla Procura generale a seguito dell’ordinanza di remissione

Con nuova requisitoria scritta del 6 febbraio 2018, il Procuratore generale, mutando le conclusioni precedentemente rassegnate, chiedeva che venisse affermato il seguente principio di diritto: “Il termine di centottanta giorni dall’entrata in vigore della legge n. 228 del 2012, previsto dall’art. 1, comma 199, a pena di decadenza dal diritto di proporre domanda di ammissione al credito da parte dei titolari di cui al precedente comma 198 opera bensì anche nel caso di omessa comunicazione agli stessi creditori, a cura dell’Agenzia nazionale, delle informazioni indicate nel comma 206 del medesimo art. 1; in tal caso, tuttavia, il terzo titolare del diritto di credito, è restituito nel termine ai sensi del combinato disposto degli artt. 666 e 175 cod. proc. pen., per proporre domanda di ammissione al credito, allorquando provi di non aver potuto presentare tempestivamente la domanda per causa a lui imputabile, prima fra tutte l’impossibilità a conoscere della procedura di prevenzione e quindi della misura reale esistente sui beni medesimi”, con conseguente annullamento del provvedimento impugnato, con rinvio al Tribunale di Palermo, quale giudice dell’esecuzione, per un nuovo esame alla luce del principio di diritto sopra enunciato.

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Le valutazioni giuridiche formulate dalle Sezioni Unite

Le Sezioni unite, prima di tutto, delimitavano la questione sottoposto al loro vaglio giurisdizionale nei seguenti termini: “Se i creditori muniti di ipoteca iscritta sui beni confiscati all’esito dei procedimenti di prevenzione, per i quali non si applica la disciplina del d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, devono presentare la domanda di ammissione del loro credito, al giudice dell’esecuzione presso il tribunale che ha disposto la confisca, nel termine di decadenza previsto dall’art. 1, comma 199, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, anche nel caso in cui non abbiano ricevuto le comunicazioni di cui all’art. 1, comma 206, della legge da ultimo citata”.
Posto ciò, si evidenziava in via preliminare come, al fine di affrontare la questione posta, fosse opportuno brevemente ricordare che, in generale, a seguito della confisca definitiva di prevenzione, i beni che formano oggetto della misura sono acquisiti al patrimonio dello Stato stante il fatto che la confisca determina, in primo luogo, la perdita del diritto vantato sul bene da parte del precedente titolare, sia esso identificabile con lo stesso prevenuto ovvero con un terzo formale intestatario; in secondo luogo, determina effetti sulle posizioni giuridiche dei terzi titolari di diritti di credito nei confronti del prevenuto, assistiti da garanzie reali, i quali, a causa del provvedimento di acquisizione del bene al patrimonio dello Stato, vedono indirettamente pregiudicata la tutela del credito stesso.
L’inquadramento della tutela del terzo titolare di un diritto reale di garanzia nell’ambito del sistema della confisca di prevenzione rendeva necessaria, quindi, ad avviso della Corte, una sintetica ricostruzione, in chiave diacronica, del quadro normativo e giurisprudenziale.
Prendendo le mosse dal diritto dell’Unione europea, gli ermellini osservavano come non potesse prescindersi dalla decisione quadro 2005/212/GAI del Consiglio, del 24 febbraio 2005, relativa alla confisca di beni, strumenti e proventi di reato, la quale stabilisce, all’art. 3, comma 2, lettera c), che ciascuno Stato membro «adotta le misure necessarie a consentire la confisca […] perlomeno: quando un giudice nazionale, sulla base di fatti circostanziati, è pienamente convinto che il bene in questione sia il provento di attività criminose della persona condannata, […] oppure quando si stabilisce che il valore del bene è sproporzionato al reddito legittimo della persona condannata e un giudice nazionale, sulla base di fatti circostanziati, è pienamente convinto che il bene in questione sia il provento di attività criminose della persona condannata stessa».
Il successivo comma 3 dell’art. 3 consente agli Stati membri di prevedere la «confisca totale o parziale dei beni acquisiti da persone con le quali (il prevenuto) ha le relazioni più strette e dei beni trasferiti a una persona giuridica su cui la persona in questione, che agisce da sola o in collegamento con persone con le quali essa ha relazioni più strette, esercita un controllo».
L’art. 4 della decisione quadro citata, a sua volta, precisa che «ciascuno Stato membro adotta le misure necessarie ad assicurare che le persone cui si applicano le disposizioni di cui agli articoli 2 e 3 dispongano di effettivi mezzi giuridici a tutela dei propri diritti» trattandosi di una serie di disposizioni di portata generale, che si raccordano con quelle della successiva direttiva 2014/42/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 3 aprile 2014, relativa al congelamento e alla confisca dei beni strumentali e dei proventi da reato nell’unione europea. Lo scopo di tale ultima direttiva è proprio quello di modificare e ad ampliare le disposizioni della richiamata decisione quadro 2005/212/GAI, nonché della precedente 2001/500/GAI, sostituendo parzialmente dette decisioni, nella linea della promozione del reciproco riconoscimento tra gli Stati dei provvedimenti di confisca, allo scopo di rafforzare la lotta alla criminalità del profitto e alla criminalità organizzata. In particolare, ai fini della tutela della posizione dei terzi interessati, appaiono rilevanti i considerando n. 33 e n. 38: nel primo di essi, si afferma che «La presente direttiva ha conseguenze rilevanti sui diritti delle persone, non solo degli indagati o degli imputati, ma anche di terzi che non sono coinvolti in un procedimento penale. È pertanto necessario prevedere specifiche garanzie e mezzi di ricorso al fine di salvaguardare i loro diritti fondamentali nell’attuazione della presente direttiva».
Tale enunciazione si riferiva, in particolare, come evidenziato in questa stessa pronuncia, al «diritto di essere ascoltati per i terzi che sostengono di essere proprietari del bene in questione o di godere di altri diritti patrimoniali, quale il diritto di usufrutto» rilevandosì altresì come, nel considerando n. 38, sia precisata quanto segue: la «presente direttiva rispetta i diritti fondamentali e osserva i principi riconosciuti dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (“la Carta”) e dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle liberta fondamentali (la “CEDU”), come interpretate nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. La presente direttiva dovrebbe essere attuata conformemente a tali diritti e principi».
Si evidenziava oltre tutto come il vero e proprio regime della tutela dei terzi sia fissato dagli artt. 6 e 8.
Infatti, secondo l’art. 6 (Confisca nei confronti di terzi): «1. Gli Stati membri adottano le misure necessarie per poter procedere alla confisca di proventi da reato o di altri beni di valore corrispondente a detti proventi che sono stati trasferiti, direttamente o indirettamente, da un indagato o un imputato a terzi, o che sono stati da terzi acquisiti da un indagato o imputato, almeno se tali terzi sapevano o avrebbero dovuto sapere che il trasferimento o l’acquisizione dei beni aveva lo scopo di evitarne la confisca, sulla base di fatti e circostanze concreti, ivi compreso il fatto che il trasferimento o l’acquisto sia stato effettuato a titolo gratuito o contro il pagamento di un importo significativamente inferiore al valore di mercato. 2. Il paragrafo 1 non pregiudica i diritti dei terzi in buona fede» così come, per un verso, l’art. 8, al comma 1, stabilisce l’obbligo degli Stati di adottare «le misure necessarie a garantire che, al fine di salvaguardare i propri diritti, le persone colpite dai provvedimenti godano del diritto a un ricorso effettivo e a un giudice imparziale», con evidente collegamento alle garanzie del giusto processo, per altro verso, i successivi commi da 6 a 9 prevedono, poi, che gli Stati membri adottino le misure necessarie a garantire che ciascun provvedimento di confisca sia motivato e comunicato all’interessato e che sia garantita la facoltà di impugnazione del provvedimento da parte del soggetto nei confronti del quale sia stata disposta la confisca, con le connesse prerogative difensive.
In particolare, veniva osservato come di particolare importanza fosse il comma 9, secondo il quale «i terzi possono far valere un diritto di proprietà o altri diritti patrimoniali, anche nei casi di cui all’articolo 6».
Ebbene, oltre a quanto sin qui rilevato, si faceva presente come il diritto dell’Unione Europea andasse integrato con i principi della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) e con la giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti Umani venendo in questo proposito in rilievo, in particolare, l’art. 1 Prot. 1 CEDU, che stabilisce che «ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno può essere privato della sua proprietà, se non per causa d’utilità pubblica e alle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale. Le disposizioni precedenti non precludono il diritto degli Stati di approvare le leggi reputate necessarie per regolamentare l’uso dei beni in conformità all’interesse generale, o per assicurare il pagamento delle imposte e di altri contributi o sanzioni» e rilevandosi altresì come tale previsione andasse ritenuta compatibile con la confisca penale in generale, e con la confisca “antimafia” in particolare.
Detto questo, si metteva altresì in evidenza come dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo potessero essere tratti alcuni principi di fondo vale a dire: a) la confisca come misura di prevenzione non solo non contrasta con le norme della CEDU, ma anzi è una misura indispensabile per contrastare il crimine; b) la confisca dev’essere comunque conforme alle prescrizioni dell’art. 1, primo paragrafo, Prot. 1 CEDU, con la duplice conseguenza che essa: (bl) dev’essere irrogata sulla base di una espressa previsione di legge e (b2) deve realizzare il “giusto equilibrio” tra l’interesse generale e la salvaguardia dei diritti dell’individuo. Il primo dei suddetti principi costituisce jus receptum nella giurisprudenza della Corte EDU fermo restando che, nella sentenza 22/02/1994, Raimondo c. Italia, in causa 12954/87, chiamata a pronunciarsi in merito alla compatibilità tra la confisca prevista dalla legge 31 maggio 1965, n. 575 e l’art. 1 Prot. 1 CEDU, la Corte di Strasburgo aveva espressamente affermato, al § 30, quanto segue: «In quanto destinata a bloccare tali movimenti di capitali sospetti, la confisca costituisce un’arma efficace e necessaria per combattere questo flagello. Essa appare dunque proporzionata all’obiettivo voluto, tanto più che essa non comporta alcuna restrizione aggiuntiva rispetto al sequestro».
Analogamente, nella decisione 04/09/2001, Riela c. Italia, in causa 52439/09, si evidenziava come fosse stato ivi affermato (§ 1) che, in materia di prevenzione criminale, gli Stati devono godere di grande discrezionalità, e che quelle adottate dall’Italia per combattere la mafia appaiono misure addirittura “indispensabili”, in considerazione del fatto che i profitti smisurati ricavati dalle attività illecite svolte dalla mafia le attribuiscono un potere che mette in discussione il primato del diritto statuale tenuto conto altresì del fatto che non costituisce di per sé violazione del diritto convenzionale l’inversione dell’onere della prova, in virtù della quale è il prevenuto a dovere dimostrare l’origine lecita dei beni di cui dispone (Corte EDU, 05/07/2001, Arcuri c. Italia); al riguardo la Corte europea affermava che «la presunzione d’innocenza non è assoluta»; che qualsiasi ordinamento giuridico contempla delle presunzioni di fatto o di diritto, e che queste ben possono essere utilizzate per ritenere di provenienza illecita i beni di cui il prevenuto non sa spiegare l’acquisto: fermo restando, ovviamente, il diritto incoercibile del prevenuto a fornire con ogni mezzo la prova contraria (Corte EDU, 23 dicembre 2008, Grayson e Barnham c. Regno Unito, § 40, 41 e 45).
Si sottolineava come peraltro le richiamate decisioni ribadissero, altresì, l’altro limite generale che la giurisprudenza della Corte EDU poneva e pone all’istituto della confisca, vale a dire il criterio del “giusto equilibrio” fra interesse generale alla confisca e diritti del singolo, che, nell’ipotesi di confisca ai danni di un terzo, diverso dal reo o dal prevenuto, deve ritenersi soddisfatto quando al terzo proprietario dei beni confiscati fosse data la possibilità di un ricorso giurisdizionale.
Si metteva in risalto oltre tutto come le norme sulla confisca penale e sulla tutela dei terzi fossero contenute anche in altre fonti del diritto internazionale quali in particolare: I) la Convenzione di Strasburgo dell’8 novembre 1990 sul riciclaggio, la ricerca, il sequestro e la confisca dei proventi di reato, ratificata con I. 9 agosto 1993, n. 328, il cui art. 5 impone a ciascuno degli Stati aderenti di adottare «tutte le misure legislative o di altra natura eventualmente necessarie ad assicurare che coloro che siano interessati [dalla confisca] dispongano di effettivi mezzi giuridici a tutela dei propri diritti»; II) la Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale, fatta a Palermo il 12-15 dicembre 2000, il cui art. 12, nel consentire l’adozione delle misure necessarie a consentire la confisca, anche per equivalente, dei proventi derivanti dai reati contemplati dalla Convenzione stessa, nonché di beni attrezzature e altri strumenti utilizzati o destinati ad essere utilizzati per la commissione dei predetti reati, prevede espressamente, al punto n. 8, che «l’interpretazione delle disposizioni del presente articolo non deve ledere i diritti dei terzi in buona fede».
Alla luce di tale quadro sovranazionale si osservava come il quadro di questo diritto risultasse complessivamente coerente e permette di enucleare alcuni principi, utili per orientare l’interpretazione del diritto interno, con specifico riferimento alla posizione del terzo nel senso che: A) la particolare disposizione di legge deve realizzare un bilanciamento tra l’interesse generale e la salvaguardia del diritti dell’individuo; b) il soggetto proprietario o titolare di diritti reali sul bene oggetto di confisca deve disporre di effettivi mezzi giuridici di tutela, e ciò vale anche qualora si tratti di un soggetto terzo, non direttamente coinvolto nel procedimento di confisca; c) l’effettività della tutela presuppone che il procedimento di confisca sia conosciuto dagli interessati e che siano loro garantite la facoltà di impugnazione e le connesse prerogative difensive; d) sul piano sostanziale, non può comunque ricevere pregiudizio il diritto del terzo di buona fede; e) quanto alla buona fede, l’ordinamento può legittimamente prevedere che la relativa prova incomba sul terzo.
A sua volta si denotava come il diritto interno avesse avuto un’evoluzione complessa e articolata, ispirata al riconoscimento di un crescente livello di tutela della posizione dei terzi, ivi compresi i creditori ipotecari del prevenuto posto che, nel testo originario, l’art. 2-ter, comma 5, della legge 31 maggio 1965, n. 575 si limitava a prevedere un meccanismo di tutela, tutta interna al procedimento di prevenzione – mediante il riconoscimento della facoltà di intervenire nel procedimento stesso, anche con l’assistenza di un difensore, al fine di svolgere deduzioni e chiedere l’acquisizione di ogni elemento utile ai fini della decisione sulla confisca – esclusivamente a favore dei terzi ai quali risultassero “appartenere” i beni sequestrati mentre nessuna disposizione era, all’opposto, esplicitamente dettata con riferimento alla posizione dei terzi creditori, per quanto suscettibile di subire pregiudizio dalla confisca, data la conseguente elisione della garanzia specifica del credito o il depauperamento di quella, generica, fornita dal patrimonio del proposto.
Tal che, in virtù di tale contesto normativo, si faceva presente come la mancata previsione di forme di tutela giurisdizionale in favore dei titolari di diritti di credito, sorti anteriormente al procedimento di prevenzione, cui risultava preclusa la facoltà di soddisfarsi sui beni sottoposti a confisca in caso di incapienza del restante patrimonio del debitore, fosse stata oggetto di una questione di legittimità costituzionale, sollevata con riferimento agli artt. 24, primo comma, 25, terzo comma, e 27, primo comma, Cost., che la Corte costituzionale, con la sentenza n. 190 del 1994, dichiarò inammissibile, in quanto rivolta a conseguire un intervento di tipo additivo, eccedente i limiti del sindacato di legittimità costituzionale, posto che il conseguimento dell’obiettivo non avrebbe potuto essere raggiunto tramite un’unica soluzione obbligata, ma avrebbe implicato scelte discrezionali, rimesse in via esclusiva al legislatore, attraverso una pluralità di possibili interventi variamente articolati, tanto sul piano processuale (con la previsione di meccanismi di tutela interni o esterni al procedimento di prevenzione) che su quello sostanziale (essendo ipotizzabili varie forme di inopponibilità o inefficacia della confisca rispetto ai creditori e differenti configurazioni del “fatto giuridico” da contrapporre ad essa).
Pur tuttavia, anche alla luce di tale lacunoso quadro normativo, si rilevava come la giurisprudenza di legittimità avesse tuttavia riconosciuto: a) l’opponibilità dei diritti reali di garanzia sui beni oggetto del provvedimento di confisca, a condizione che fossero stati costituiti (l’ipoteca mediante iscrizione nei registri immobiliari) prima del sequestro ex art. 2-ter I. n. 575 del 1965, e che sussistessero la buona fede e l’affidamento incolpevole del creditore ipotecario, la cui prova doveva essere fornita da quest’ultimo nel procedimento di prevenzione (Sez. 1, n. 8015 del 06/02/2007, omissis, Rv. 236364; Sez. 1, n. 2501 del 14/01/2009, omissis, Rv. 242817; Sez. 1, n. 44515 del 27/04/2012, omissis, Rv. 253827); b) che, dovendo ritenersi rientranti nella nozione di “appartenenza” utilizzata dal legislatore all’art. 2-ter I. n. 575 del 1965, già ai sensi del quinto comma di detta disposizione ai titolari di tali diritti dovesse estendersi la legittimazione a partecipare al procedimento di prevenzione volto alla confisca (Sez. 1, n. 22157 del 10/05/2005, omissis, Rv. 232102, sulla scorta dei principi affermati da Sez. U, n. 9 del 28/04/1999, omissis, Rv. 213511, e Sez. U, n. 9 del 18/05/1994, omissis, Rv. 199174).
Orbene, alla luce di tale vuoto normativo, gli ermellini evidenziavano come Il legislatore fosse intervenuto con il d.l. 4 febbraio 2010, n. 4 (Istituzione dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata), convertito, con modificazioni, dalla legge 31 marzo 2010, n. 50, in forza del quale veniva espressamente riconosciuta ai titolari di diritti reali di garanzia, unitamente ai titolari di diritti reali di godimento o di quote indivise sui beni immobili sequestrati, la facoltà di intervenire nel procedimento di prevenzione, fornendo la prova «della loro buona fede e dell’inconsapevole affidamento» nell’acquisizione dei predetti diritti; nessuna forma di tutela, attraverso una consimile facoltà di intervento nel procedimento o altro mezzo, era, invece, riconosciuta alle restanti categorie di creditori, chirografari e privilegiati, i quali, in caso di inadempimento del debitore, potevano bensì azionare il loro diritto di credito ma senza possibilità di attingere i beni ormai trasferiti allo Stato a seguito della confisca, neppure nel caso di incapienza del patrimonio residuo del proposto fermo restando che una profonda innovazione era stata apportata dal d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, che — in attuazione dei criteri direttivi dettati dalla legge di delegazione 13 agosto 2010, n. 136 — aveva disciplinato, al titolo IV, un sistema organico di tutela, accessibile dalla generalità dei creditori del proposto e fondato su un vero e proprio procedimento incidentale di verifica dei crediti in contraddittorio e sulla successiva formazione di un «piano di pagamento», in base a scansioni procedurali che si ispirano ampiamente agli omologhi istituti previsti dalla legge fallimentare.
Oltre a tale assetto normativo, i giudici di legittimità ordinaria evidenziavano che con la sentenza n. 94 del 2015, la Consulta avesse avuto modo di postulare come la disciplina volta alla tutela dei terzi creditori dettata dal d.lgs. n. 159 del 2011, pur ispirata nella sua articolazione procedimentale alla legislazione concorsuale, restasse, tuttavia, collegata a quella della confisca di prevenzione: invero, la disciplina di cui al Titolo IV rappresenta il frutto del bilanciamento legislativo tra i due interessi che in materia si contrappongono atteso che, da un lato, l’interesse dei creditori del proposto a non veder improvvisamente svanire la garanzia patrimoniale sulla cui base avevano concesso credito o effettuato prestazioni. dall’altro, l’interesse pubblico ad assicurare l’effettività della misura di prevenzione patrimoniale e il raggiungimento delle sue finalità, consistenti nel privare il destinatario dei risultati economici dell’attività illecita e dunque, in tal senso, la tutela accordata ai terzi, che vantino diritti reali di garanzia sul bene confiscato, deve assicurare il contemperamento dell’interesse del creditore con quello pubblicistico sotteso alla misura di prevenzione, che comporta la devoluzione allo Stato del bene confiscato, privo di oneri e pesi (prevista dall’art. 45, comma 1, d.lgs. cit.) stante il fatto che la sospensione delle azioni esecutive e la loro estinzione all’esito della confisca sono possibili proprio perché controbilanciate dalla tutela attribuita ai terzi nell’ambito del procedimento di prevenzione, ai sensi degli artt. 57 e 58; nel dettaglio, se la prima di tali disposizioni prevede – per quanto qui rileva – che il giudice delegato, dopo il deposito del decreto di confisca di primo grado ed una volta ricevuto dall’amministratore giudiziario l’elenco nominativo di tutti i creditori anteriori al sequestro e di coloro che vantano diritti reali di godimento o garanzia o diritti personali sui beni, deve assegnare ai creditori un termine perentorio, non superiore a sessanta giorni, per il deposito delle istanze di accertamento dei rispettivi diritti, fissando la data dell’udienza di verifica dei crediti entro i sessanta giorni successivi e quindi il meccanismo comunicativo, a tutela dei creditori, in questo caso, è fondato sull’immediata notifica del decreto agli interessati, a cura dell’amministratore giudiziario (comma 2) per la seconda, invece, i predetti creditori, ai sensi dell’art. 58, comma 5, devono depositare la domanda di ammissione, a pena di decadenza, entro il termine di cui sopra e pertanto, resta consentita, comunque, la presentazione di domande tardive entro il termine di un anno dal deposito del decreto di esecutività dello stato passivo, dimostrando, a pena di inammissibilità della richiesta, di non aver potuto presentare la domanda tempestivamente per causa non imputabile.
In questo arresto giurisprudenziale, si osservava però come la disciplina da ultimo ricordata operasse, tuttavia, solo in rapporto ai procedimenti di prevenzione instaurati dopo l’entrata in vigore del d.lgs. n. 159 del 2011 (13 ottobre 2011) stante il fatto che l’art. 117, comma 1, del citato decreto legislativo stabilisce che le disposizioni contenute nel Libro I – fra le quali sono comprese quelle degli artt. 52 e seguenti – non si applicano nei procedimenti nei quali, alla predetta data, «sia già stata formulata proposta di applicazione della misura di prevenzione», soggiungendo che «in tali casi, continuano ad applicarsi le norme previgenti», vale a dire la disciplina recata dalla legge n. 575 del 1965 fermo restando che, successivamente, il legislatore aveva ritenuto di dover dettare, con l’art. 1, commi da 194 a 206, della legge n. 228 del 2012, una specifica disciplina della materia anche per i procedimenti di prevenzione sottratti all’applicazione delle disposizioni del Libro I del d.lgs. n. 159 del 2011, in quanto già pendenti al momento dell’entrata in vigore di quest’ultimo: disciplina transitoria sulla quale verte l’odierno giudizio incardinato avanti alle Sezioni Unite.
Si precisava altresì che, come emergeva dai lavori parlamentari, che la disciplina transitoria trovasse la sua “origine” nel dibattito relativo all’approvazione del d.lgs. n. 159 del 2011, in cui si era suggerita l’introduzione di una norma transitoria per la tutela dei titolari di diritti reali di garanzia anche perchè la Commissione Giustizia, nel parere formulato il 2 agosto 2011, aveva proposto una specifica disposizione per i titolari di diritti reali di garanzia che intendono dimostrare la buona fede e l’inconsapevole affidamento (per poi ottenere la restituzione per equivalente) secondo cui: 1) per i procedimenti pendenti all’atto dell’entrata in vigore del decreto, si preveda la prosecuzione del procedimento (iniziato innanzi al tribunale quale giudice dell’esecuzione) sulla base delle disposizioni previgenti (richiamando espressamente il procedimento ex art. 666 cod. proc. pen.); 2) per i beni confiscati definitivamente all’atto dell’entrata in vigore del decreto, si prevedeva che i titolari di ipoteca fossero tenuti ad attivare il procedimento di riconoscimento della buona fede sulla base della nuova disciplina, con istanza da proporre in un termine espressamente fissato a pena di decadenza decorrente dall’entrata in vigore del decreto (ovvero dalla messa in mora da parte dell’Agenzia) ai sensi dell’art. 666 cod. proc. pen. al tribunale quale giudice dell’esecuzione; 3) in applicazione dell’articolo 9 del d.lgs. n. 231 del 2007, era prevista la comunicazione alla Banca d’Italia del decreto con cui viene respinta la domanda di riconoscimento della buona fede mentre all’opposto nessuna indicazione interpretativa di rilievo era emersa, invece, dal dibattito parlamentare direttamente inerente alla disciplina in questione.
Invece, venendo all’analisi del contenuto della normativa transitoria poi effettivamente varata, i giudici di Piazza Cavour osservavano come dovesse premettersi che detta normativa riguarda un corpus tendenzialmente organico, ispirato al criterio secondo cui «nel conflitto tra l’interesse del creditore a soddisfarsi sull’immobile ipotecato e quello dello Stato a confiscare i beni, che siano frutto o provento di attività mafiosa, deve prevalere il secondo, onde è inopponibile allo Stato l’ipoteca iscritta su di un bene immobile confiscato, ai sensi della legge 31 maggio 1965, n. 575, prima che ne sia stata pronunciata l’aggiudicazione nel procedimento di espropriazione forzata, in virtù della norma di diritto transitorio prevista dall’art. 1, comma 194, della legge 24 dicembre 2012, n. 228» (così si esprime Sez. U civ., n. 10532 del 07/05/2013, omissis, Rv. 626570, che ricostruisce il sistema; nello stesso senso, ex multis, Sez. 1., n. 44267 del 24/09/2014, omissis, Rv. 260543), in particolare, osserva la Corte, la disciplina della legge n. 228 del 2012, con riferimento alle procedure di confisca soggette alla legge n. 575 del 1965, distingue fra due ipotesi fondamentali, a seconda che il provvedimento di confisca sia stato emesso prima o dopo il 1° gennaio 2013, data di entrata in vigore della legge fermo restando che, nei procedimenti di prevenzione nei quali, alla predetta data, sia già stata disposta la confisca, la legge formula un’ulteriore distinzione fra i casi in cui il bene confiscato sia stato assoggettato a procedura esecutiva, ma non sia stato ancora aggiudicato o trasferito, e quelli in cui, invece, sia già avvenuto il trasferimento o l’aggiudicazione, ancorché in via provvisoria.
La Cassazione, a questo punto della disamina, si poneva di analizzare ulteriormente detta disciplina giuridica nel senso che, se, un riferimento alla prima sottoipotesi, relativa ai beni che siano già stati confiscati, ma non ancora aggiudicati alla data del 10 gennaio 2013, l’art. 1 citato stabilisce che: 1) nessuna azione esecutiva potrà essere iniziata o proseguita, a pena di nullità, sui beni suddetti (comma 194); 2) gli oneri e i pesi iscritti o trascritti anteriormente alla confisca si estinguono di diritto (comma 197: in considerazione del contenuto precettivo di tale disposizione, Sez. U civ., n. 10532 del 2013, ha evidenziato che lo Stato, per effetto della confisca e dell’estinzione di diritto di pesi ed oneri iscritti o trascritti prima della confisca, «acquista un bene non più a titolo derivativo, ma libero dai pesi e dagli oneri, pur iscritti o trascritti anteriormente alla misura di prevenzione; 3) i soggetti legittimati all’azione sono individuati nei creditori ipotecari, pignoranti od intervenuti nell’esecuzione (comma 198), ai quali, a seguito della sentenza additiva della Corte costituzionale n. 94 del 2015, sono da aggiungere i titolari di crediti derivanti da prestazioni di lavoro in regime di subordinazione nei confronti del destinatario della misura di prevenzione: costoro possono far valere le proprie ragioni nei confronti dell’Agenzia ed essere soddisfatti, nei limiti e con le modalità di cui ai commi da 194 a 206, a determinate condizioni e secondo precise cadenze, e cioè: a) l’iscrizione dell’ipoteca, la trascrizione del pignoramento o l’intervento nel processo esecutivo devono essere avvenuti prima della trascrizione del sequestro di prevenzione; b) entro 180 giorni dall’entrata in vigore della legge (ossia entro il 30 giugno 2013), tali creditori devono, a pena di decadenza aver proposto domanda di ammissione del credito, ai sensi dell’articolo 58, comma 2, d.lgs. n. 159 del 2011 al giudice dell’esecuzione presso il tribunale che ha disposto la confisca (comma 199); c) il giudice dell’esecuzione presso il tribunale che ha disposto la confisca, accertta la sussistenza e l’ammontare del credito nonché la sussistenza delle condizioni di cui all’art. 52 d.lgs. citato, ammette il credito al pagamento, dandone immediata comunicazione all’Agenzia; si applicano le disposizioni di cui all’art. 666 commi 2, 3, 4, 5, 6, 8 e 9 cod. proc. pen. (comma 200); d) la proposizione dell’impugnazione non sospende gli effetti dell’ordinanza di accertamento; e) il decreto con cui sia stata rigettata definitivamente la richiesta proposta ai sensi del comma precedente è comunicato, ai sensi dell’articolo 9 del d.lgs. n. 231 del 2007, alla Banca d’Italia (comma 200).
Inoltre, fermo restando le disposizioni relative alla fase della liquidazione dei beni, si evidenziava altresì per un verso, come, decorsi dodici mesi dalla scadenza del termine di cui al comma 199, la formazione del piano di pagamento avvenisse a cura dell’Agenzia e che deve essere comunicato ai creditori interessati con lettera raccomandata con avviso di ricevimento o a mezzo di posta elettronica certificata (commi 201-202), nonché alla fase dell’opposizione contro il piano di pagamento avanti «al tribunale del luogo che ha disposto la confisca», nelle forme di cui all’art. 737 cod. proc. civ. (comma 203) ed alla destinazione delle somme che residuano dopo i pagamenti (comma 204), per altro verso, che, nell’altra sottoipotesi considerata, che ricomprende i casi in cui alla data del 1° gennaio 2013 siano già avvenuti il trasferimento o l’aggiudicazione nell’ambito dell’esecuzione forzata, ovvero in cui il bene da confiscare consista in una quota di proprietà indivisa già pignorata, restano fermi gli effetti dell’esecuzione o dell’aggiudicazione (comma 195).
Infine, si faceva presente come fosse previsto che, nelle ipotesi in cui, alla data del 10 gennaio 2013, i beni ipotecati o sottoposti ad esecuzione forzata non siano ancora stati confiscati, si applicano le stesse misure previste per quelli che alla medesima data siano già stati confiscati, ma non ancora aggiudicati, con l’unica differenza che il termine di decadenza di 180 giorni, entro il quale i creditori debbono presentare la domanda di ammissione del credito, decorrerà dal momento in cui il provvedimento che dispone la confisca diviene definitivo (comma 205).
Tal che, alla luce di tale quadro normativo, i giudici di legittimità ordinaria ne facevano inferire un meccanismo di tutela imperniato su un procedimento incidentale di verifica dei crediti e sulla predisposizione di un piano di pagamento dei creditori ammessi, secondo modalità distinte e semplificate, rispetto a quelle delineate dalla normativa “a regime”, ma con alcune differenze di fondo fermo restando che la prima riguarda i destinatari della tutela atteso che, mentre per i procedimenti di prevenzione iniziati successivamente all’entrata in vigore del d.lgs. n. 159 del 2011 la legittimazione ad avvalersi della speciale procedura incidentale di verifica è estesa a tutti i creditori – siano essi chirografari, privilegiati o titolari di diritti di garanzia reale – per i procedimenti pendenti in tale momento, invece, la legittimazione è circoscritta ai soli creditori ipotecari, pignoranti o intervenuti nell’esecuzione (i secondi e i terzi, peraltro, indipendentemente dal rango del loro credito e, quindi, anche se chirografari), nonché, a seguito della sentenza n. 94 del 2015 della Corte costituzionale, ai crediti dei prestatori di lavoro subordinato, che non siano ipotecari, pignoranti o intervenuti nell’esecuzione, ma che comunque sono assistiti da privilegio generale sui beni mobili, ai sensi dell’art. 2751-bis, n. 1, cod. civ., e con diritto alla collocazione sussidiaria sul prezzo degli immobili, ai sensi dell’art. 2776 cod. civ. così come si rilevava come fosse differente il meccanismo che presiede alla presentazione delle domande di ammissione del credito.
Inoltre, una volta rilevato che l’art. 37 della legge 17 ottobre 2017, n. 161 (Interpretazione autentica dell’articolo 1, commi da 194 a 206, della legge 24 dicembre 2012, n. 228) prevede ora espressamente che le citate disposizioni della legge n. 228 del 2012 devono intendersi applicabili anche con riferimento ai beni confiscati ai sensi dell’articolo 12-sexies del d.l. 8 giugno 1992, n. 306, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1992, n. 356, e successive modificazioni, all’esito di procedimenti iscritti prima del 13.10.2011, si evidenziava pertanto come la questione, controversa sottoposta all’esame della Corte, apparisse rilevante anche con riferimento a tale tipologia di confisca anche perché, sul versante interno, la giurisprudenza costituzionale si era ampiamente occupata della legittimità delle norme in tema di misure di prevenzione, senza, peraltro, affrontare nel merito la questione della decorrenza dei termini stabiliti in materia di tutela del terzo titolare di diritti sui beni confiscati tenuto conto che, per un verso, la sentenza n. 94 del 2015 aveva dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione dell’art. 36 Cost., l’art. 1, comma 198, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, nella parte in cui — nei procedimenti di prevenzione (sequestro e successiva confisca) pendenti alla data di entrata in vigore del d.lgs. n.159 del 2011 — non include, tra i soggetti legittimati a proporre domanda di ammissione del credito, i titolari di crediti da lavoro subordinato, per altro verso, la già richiamata sentenza n. 190 del 1994, avendo affermato che la mancanza di previsioni normative sulle forme di tutela dei terzi creditori chirografari o privilegiati del prevenuto che, in quanto tali, perdono la generica garanzia patrimoniale per effetto della confisca, non potendo formare oggetto di vaglio costituzionale perché, potendo tale tutela avvenire nelle forme più disparate, si lasciava in tal guisa inferire come il giudice delle leggi dovesse stabilire per forza di cose i tempi e i modi, a pena di invadere la sfera della discrezionalità riservata al legislatore, per altro verso ancora, la giurisprudenza costituzionale si era occupata in varie occasioni dei rapporti tra la confisca penale obbligatoria e i diritti vantati da terzi sulla cosa confiscata, enunciando principi utilmente richiamabili, anche ai fini dell’impostazione del problema qui in esame, considerate le numerose affinità, per quanto qui interessa, tra l’istituto della confisca di cui all’art. 240 cod. pen., e quello della confisca quale misura di prevenzione ex art. 2-ter I. n. 575 del 1965 rilevandosi in particolare come il giudice delle leggi avesse postulato che, quando l’ordinamento prevede un’ipotesi di confisca, il terzo che si affermi titolare di diritti sulla cosa confiscata deve potere disporre di uno strumento di impugnazione avverso il provvedimento che dispone la confisca (sentenza n. 487 del 1995) così come sempre la Consulta era giunta a dedurre come fosse da stimarsi illegittima una norma che prevede la confisca di beni appartenenti a terzi estranei all’attività criminosa, sulla base di un criterio di imputazione che prescinda del tutto dall’elemento soggettivo della buona o mala fede (sentenza n. 229 del 1974), pena la creazione di un’ipotesi di responsabilità oggettiva così come la sentenza n. 1 del 1997, sulla stessa linea, aveva comunque riconosciuto l’esigenza di contemperare l’interesse del terzo con quello generale, alla cui soddisfazione è preordinata la confisca, onde consentire deroghe alle generali regole processuali, in guisa tale da stimare «non irragionevole» una deroga al generale principio secondo cui la buona fede si presume.
Quanto alla possibilità per il legislatore di fissare un termine di decadenza per l’esercizio del diritto del terzo creditore, le Sezioni unite osservavano che, nelle numerose occasioni in cui la Corte costituzionale era stata chiamata a pronunciarsi sulla conformità alla Costituzione di norme che avevano fissato termini di decadenza dall’esercizio di diritti o facoltà, essa aveva costantemente affermato come la facoltà del legislatore di fissare tali termini di decadenza incontrasse soltanto due limiti, e cioè l’insussistenza di un interesse generale e la fissazione di termini così ristretti da rendere impossibile od eccessivamente difficoltoso l’esercizio del diritto (sent. n. 297 del 2008; ordinanze n. 197 del 2006, n. 213 del 2005 e n. 185 del 2009).
Nell’ambito di tale quadro ermeneutico, i giudici di legittimità ordinaria mettevano in risalto come di particolare rilievo, ai fini dell’inquadramento del tema sottoposto alle Sezioni Unite, tra le altre numerose sentenze del Giudice delle leggi che avevano avuto per oggetto il rapporto fra conoscenza di un atto e decorrenza del termine per la sua impugnazione, andassero ricordate — oltre alla n. 170 del 1999 e alla n. 223 del 1993 — in materia fallimentare e di procedure concorsuali, vi fossero anche le seguenti: a) le sentenze n. 303 del 1985 e n. 538 del 1990, che affermano che la tutela del diritto di agire in giudizio e del diritto di difesa esige che il termine per impugnare un qualsiasi provvedimento giudiziale decorra dalla data della sua comunicazione all’interessato e non già da quella della sua pronuncia; b) la sentenza n. 881 del 1988, che precisa che «del diritto costituzionale di difesa fa parte integrante il diritto dei soggetti interessati ad impugnare determinati atti processuali di essere posti in grado di averne tempestiva conoscenza, in modo da potere utilizzare, nella loro interezza, i termini legali di decadenza di volta in volta prestabiliti dalla legge per l’esperimento del gravame»; c) la sentenza n. 42 del 1981, che, nel dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 26, in relazione all’art. 23, del r.d. 16 marzo 1942, n. 267, nella parte in cui assoggettava al reclamo al tribunale i provvedimenti decisori emessi dal giudice delegato in materia di piani di riparto dell’attivo, sottolinea come, vedendo nell’ambito di diritti soggettivi, la relativa tutela era resa impossibile, o quanto meno estremamente difficile, sia dalla eccessiva brevità del termine (appena tre giorni) per l’esperimento del reclamo, sia – ed è quel che qui più interessa – dalla sua decorrenza «dalla data del decreto», indipendentemente dalla conoscenza di esso da parte dell’interessato.
Tal che se ne faceva conseguire come, dalla giurisprudenza appena richiamata, emergesse un complesso organico di enunciati che, ponendosi in armonia con i principi di livello sovranazionale consentiva di delineare uno “statuto costituzionale” dei diritti dei terzi, valido anche per la tutela della posizione del terzo creditore nel procedimento di prevenzione, basato sulla conoscenza effettiva del procedimento di confisca, quale portato della necessità di conferire effettività al diritto di difesa e ai principi di ragionevolezza e di affidamento e, di conseguenza, si stimava come non potesse ammettersi la decorrenza del termine imposto a pena di decadenza per l’espletamento di un onere processuale per i soggetti che non siano stati in grado di avere conoscenza del “fatto” o del provvedimento a cui il momento iniziale di tale decorrenza è collegato, in modo da poter utilizzare nella sua interezza il lasso temporale previsto dalla legge per far valere il loro diritto rilevandosi altresì come detta esigenza dovesse essere assicurata dalle forme comuni di comunicazione e notificazione, o da altre forme di pubblicità, fermo restando che ciò che conta non è il dato formale dell’adempimento dei relativi obblighi, ma quello sostanziale della conoscenza, che può anche nascere aliunde.
Alla luce di siffatte premesse, la Corte affrontava la questione sollevata nell’ordinanza di rimessione nei seguenti termini.
Si evidenziavano prima di tutto la sussistenza di due diversi orientamenti nomofilattici.
Secondo una prima opzione ermeneutica, – implicitamente fatta propria dalla sentenza Sez. 1, n. 20479 del 12/02/2016, omissis., Rv. 266891 – «in tema di confisca di prevenzione, il titolare di crediti ipotecari, che intenda far valere il proprio diritto dinanzi al giudice dell’esecuzione, deve presentare domanda di ammissione allo stato passivo entro il termine, previsto a pena di decadenza, di 180 giorni, che decorre dall’entrata in vigore della legge n. 228 del 2012, oppure, per i beni confiscati in data successiva alla data anzidetta, dal momento in cui il provvedimento di confisca è divenuto definitivo» (nello stesso senso Sez. 1, n. 36626 del 12/04/2016, omissis, Rv. 267609, e Sez. 1, n. 46185 del 19/05/2016, omissis) rilevandosi al contempo come tale interpretazione muovesse dalla valorizzazione del rapporto di reciproca autonomia fra il comma 199 ed il comma 206, in un contesto in cui l’adempimento dell’obbligo informativo imposto all’Agenzia, inteso quale forma di pubblicità- notizia, è destinato a rivestire mero carattere servente, essendo semplicemente diretto ad agevolare l’attivazione dei creditori assistiti da diritto reale di garanzia e, in particolare, l’adempimento da parte di costoro dell’autonomo onere di proporre, a pena di decadenza, domanda di ammissione del credito entro il termine di 180 giorni, comunque decorrente dai momenti fissati dalla legge n. 228 del 2012; in tale prospettiva, osserva la Corte, l’eventuale violazione del predetto obbligo informativo da parte dell’Agenzia non può esercitare alcuna influenza sul contenuto e sulla struttura del primo obbligo e, in particolare, sulla decorrenza del relativo termine decadenziale posto a carico del creditore stante il fatto che, se la disposizione rivolta all’Agenzia dovrebbe essere considerata come meramente organizzativa, cosicché il termine alla stessa imposto non potrebbe che essere ordinatorio e sprovvisto di sanzione ed esisterebbe, dunque, operando in tal guisa, un solo termine perentorio: ossia quello previsto dal comma 199.
Tal che se ne faceva conseguire che se tale interpretazione, aderente al dato letterale, rispondeva alla logica, propria del sistema della disciplina transitoria, di giungere a una rapida “chiusura” delle posizioni pregresse, è altrettanto evidente, ad avviso della Corte che la stessa, ove rigidamente applicata, a prescindere da qualsiasi rilievo sulla “effettiva conoscenza”, si pone in contrasto con l’ordinamento sovranazionale e quello costituzionale perché violativo palesemente del principio secondo cui un termine decadenziale non può decorrere nell’ambito di un procedimento qualora il soggetto nei confronti del quale decorre non conosca quel procedimento e ciò anche perché, ragionamento diversamente, si verrebbe a determinare una interpretazione che creerebbe, in modo del tutto ingiustificato, una divaricazione tra la disciplina transitoria e la disciplina a regime, considerato che quest’ultima àncora la decorrenza del termine alla conoscenza del procedimento e addirittura consente la presentazione di domande tardive (art. 58, comma 5, d.lgs. n. 159 del 2011).
Allo stesso modo si stimava non parimenti condivisibile l’interpretazione, di segno diametralmente opposto, secondo cui il comma 206 rivestirebbe una essenziale funzione integrativo-specificativa rispetto all’art. 199 atteso che tale tesi, in sostanza, porterebbe ad affermare che il legislatore aveva previsto l’obbligo informativo dell’Agenzia nei confronti del creditore, non in funzione meramente agevolativa, ma quale necessario ed indispensabile antecedente sul piano non soltanto cronologico (la comunicazione deve essere effettuata entro dieci giorni dalla data del 10 gennaio 2013 o dal momento successivo in cui la confisca diviene definitiva) ma, anche e soprattutto, logico e funzionale rispetto a quello incombente sul creditore stesso, ponendosi quale vero e proprio presupposto normativo dell’operatività del termine decadenziale in esame e ciò anche perché, secondo tale impostazione, lo stesso obbligo del creditore diverrebbe attuale solo a condizione che l’Agenzia abbia adempiuto all’obbligo comunicativo ex comma 206; comunicazione che assumerebbe così una funzione di pubblicità “costitutiva”.
Orbene, tale ricostruzione ermeneutica, ad avviso delle Sezione unite, si appalesa non immune da rilievi critici per le seguenti ragioni: a) essa finisce per svuotare o, almeno, depauperare grandemente il contenuto precettivo del comma 199 dell’art. 1 della legge n. 228 del 2012 visto che ritenere che la condizione essenziale per far scattare l’operatività del termine di 180 giorni fissato per la presentazione della domanda di ammissione del credito sia costituita dal perfezionamento della comunicazione da parte dell’Agenzia significa, in concreto, far coincidere il dies a quo da cui decorre il predetto termine con il ricevimento della predetta comunicazione; con la conseguenza che la sanzione della decadenza comminata dal comma 199 (e richiamata dal comma 205) non avrebbe più alcun significato, logico e giuridico o in altri termini, se tale opzione ermeneutica fosse l’unica possibile interpretazione del sistema, la decadenza fissata dal comma 199 sarebbe destinata a operare solo nel caso in cui, ricevuta la PEC dell’Agenzia o presa conoscenza dell’avviso inserito nel sito internet dell’Agenzia entro il 30 giugno 2013 – il creditore, nonostante ciò, abbia omesso di presentare la domanda entro il termine fissato; b) non appare privo di significato il fatto che il comma 206, nella sua formulazione letterale, non contempli, di per sé, una sanzione di decadenza, ma operi un rinvio ai commi 199 e 205 e, quindi, agli obblighi e alla decadenza dagli stessi sanciti; c) non può neanche desumersi dal sistema che il legislatore abbia inteso creare, con il meccanismo di pubblicità del comma 206, una forma di conoscenza esclusiva e privilegiata del procedimento per i terzi creditori di cui al precedente comma 198, in mancanza della quale gli stessi non possano essere ritenuti informati del procedimento visto che è ben possibile che questi abbiano di fatto conosciuto il procedimento di prevenzione in altro modo – ad esempio, attraverso la trascrizione di un pignoramento successivo al sequestro di prevenzione – e, in tal caso, non vi è ragione di escludere, nei loro confronti, la decorrenza del termine di cui al comma 199.
Oltre a questi due approdi ermeneutici, ne veniva evidenziato un terzo consistente nel fatto che, ai creditori muniti di ipoteca iscritta sui beni confiscati all’esito dei procedimenti di prevenzione, per i quali non si applica la disciplina del d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, che non abbiano ricevuto le comunicazioni di cui all’art. 1, comma 206, non si applica, per la presentazione della domanda di ammissione del loro credito, il termine di decadenza previsto dall’art. 1, comma 199, ma le loro domande sono considerate tardive, in applicazione dell’art. 58, comma 5, secondo periodo, del d.lgs. n. 159 del 2011 e ciò perchè tale ultima disposizione – come visto prima – consente, a regime, a coloro che non abbiano depositato la domanda entro il termine di cui al precedente art. 57, comma 2, dello stesso d.lgs., di presentarla non oltre il termine di un anno dal deposito di decreto di esecutività dello stato passivo, qualora provino di non aver potuto presentare la domanda tempestivamente per causa a loro non imputabile.
Orbene, a fronte di tale linea interpretativa, si registravano due ordini di rilievi, vale a dire: 1) è agevole osservare che l’art. 58, comma 5, d.lgs. n. 159 del 2011 non è richiamato dalla disciplina transitoria, la quale richiama (all’art. 1, comma 199, della legge n. 228 del 2012) il solo comma 2 dello stesso art. 58, che contiene i requisiti della domanda di ammissione del credito e tale mancato richiamo non appare superabile, vista la chiara autonomia della disciplina transitoria rispetto alla disciplina a regime e vista la non irragionevolezza della diversità della prima rispetto alla seconda. In secondo luogo, deve rilevarsi, sul piano letterale, che l’art. 58, comma 5, secondo periodo, non sembra riferirsi ai casi di mancata conoscenza del procedimento; 2) nel sistema del decreto legislativo n. 159 del 2011 – come visto – il giudice delegato assegna ai creditori un termine perentorio per il deposito dell’istanza di accertamento dei rispettivi diritti, con decreto immediatamente notificato all’interessato a cura dell’amministratore giudiziario; con la conseguenza che il termine per il deposito della domanda decorre dalla ricezione di tale notificazione (artt. 57, comma 2, e 58, comma 5) fermo restando che la notificazione è condizione formale per la decorrenza del termine decadenziale con la conseguenza che il regime delle domande tardive non concerne il caso in cui la notificazione non sia stata regolarmente ricevuta, ma piuttosto la diversa situazione in cui, ricevuta la notificazione, il creditore non abbia comunque potuto presentare tempestivamente la domanda per causa a lui non imputabile.
Posto ciò, si faceva inoltre presente come l’ordinanza di rimessione ipotizzasse – quale soluzione interpretativa diretta a colmare il rigorismo applicativo scaturente dall’affermata impermeabilità del termine de quo e del suo decorso all’inadempimento dei descritti obblighi comunicativi di matrice legale – il richiamo, attraverso l’analogia in bonam partem, alla disciplina generale contenuta nel codice di procedura penale e, in particolare, al rimedio della restituzione nel termine processuale previsto dall’art. 175 cod. proc. pen. – peraltro, nel caso in esame non richiesta dalla ricorrente – facendo leva sul rilievo testuale che le decisioni sulle domande di ammissione di crediti seguono la procedura indicata dall’art. 666, commi 2, 3, 4, 5, 6, 8 e 9, cod. proc. pen. (art. 1, comma 200, della legge n. 228 del 2012) e, in tale ottica, il termine di 180 giorni, previsto dall’art. 1, comma 199, a pena di decadenza dal diritto di proporre domanda di ammissione al credito da parte dei titolari dei crediti di cui al comma 198, e decorrente ex lege dall’entrata in vigore della legge n. 228 del 2012 (ovvero dal giorno in cui la confisca è divenuta definitiva, ex art. 1, comma 205), opererebbe anche nel caso di omessa comunicazione delle informazioni indicate nel comma 206 agli stessi creditori, da parte dell’Agenzia.
Tuttavia, detta soluzione ermeneutica si appalesava parzialmente condivisibile in quanto se l’art. 175, comma 1, cod. pen. si riferisce a termini comunque già decorsi, che le parti non hanno potuto osservare, per caso fortuito o forza maggiore e presuppone, perciò, che il termine per la presentazione della domanda sia riferibile ad un momento iniziale del quale le parti siano state poste in grado di avere conoscenza (almeno formale) e si tratta, cioè, di una disposizione concepita per trovare applicazione in casi residuali, quale meccanismo di ultima garanzia dell’effettività della tutela, facendo salva la possibilità della parte di essere restituita nel termine stabilito a pena di decadenza, se prova di non averlo potuto osservare per causa a lui non imputabile, il ricorso all’istituto della rimessione in termini come rimedio generale non soddisfa, perciò, completamente l’esigenza di uniformare l’interpretazione del sistema della tutela dei terzi rispetto al principio dell’effettiva conoscenza del procedimento di prevenzione in cui è stata disposta la confisca o del provvedimento definitivo di confisca; principio che, come detto, richiede che la decorrenza del termine sia subordinata a tale effettiva conoscenza.
Pertanto, all’esito dell’esame critico delle diverse interpretazioni proposte, condotto alla luce dei principi che governano la materia, le Sezioni Unite ritenevano come fosse possibile operare una ricostruzione del rapporto fra i commi 199 e 206 dell’art. 1 della legge n. 228 del 2012 che rappresenti un equo contemperamento fra le esigenze di tutela del creditore e le esigenze di speditezza, di economia di “cassa”, di effettivo depauperamento del patrimonio del prevenuto, a cui risponde la disciplina transitoria dei commi 194 e ss. dell’art. 1 della legge n. 228 del 2012 atteso che se il centro attorno al quale ruota la questione della tutela dei terzi creditori è l’effettività della conoscenza, si reputava come dovesse affermarsi – quanto alla specifica questione sottoposta a queste Sezioni Unite – che, a vincere la presunzione semplice che deve darsi per presupposta dalla disciplina in esame, fosse sufficiente, ma necessario, che con la domanda di ammissione del credito presentata dopo la scadenza del termine del comma 199 il creditore ipotecario deduca la mancata conoscenza del procedimento di prevenzione e del provvedimento definitivo di confisca in guisa tale che spetterà al giudice del merito verificare, sulla base degli atti e delle ulteriori informazioni acquisibili, la fondatezza di tali prospettazioni non essendo per contro sufficiente la mera deduzione della mancata ricezione delle comunicazioni di cui al comma 206, perché tali comunicazioni hanno una funzione esclusivamente notiziale e agevolatrice.
Di conseguenza, la Cassazione giungeva a postulare che, qualora il creditore ipotecario assolva agli oneri di deduzione e prova appena indicati, costui è comunque tenuto a proporre la domanda di ammissione del credito entro 180 giorni dall’avvenuta conoscenza, potendosi adattare a tale ipotesi il termine fissato dal comma 199, evidentemente non più decorrente dall’entrata in vigore della legge stante il fatto che l’applicazione di tale termine è resa necessaria dalla natura del procedimento, che, per realizzare gli obiettivi di speditezza, di economia, di effettivo depauperamento del patrimonio del prevenuto che ne costituiscono la ratio, prevede (nei successivi commi 200 dello stesso art. 1) gli adempimenti necessari all’accertamento delle condizioni di ammissibilità dei crediti nonché all’individuazione dei beni e alla liquidazione degli stessi da parte dell’Agenzia, che deve essere effettuata decorsi dodici mesi dalla scadenza del termine generale di cui al comma 199 (ovvero entro il 30 giugno 2014).
Invece, nel caso in cui il terzo creditore non possa prospettare in sede di domanda di ammissione la mancata conoscenza del procedimento di prevenzione o dell’esistenza di un provvedimento definitivo di confisca, lo stesso potrà, invece, comunque accedere alla rimessione in termini, ai sensi dell’art. 175, comma 1, cod. proc. pen. se prova che, nonostante le informazioni in suo possesso, non ha potuto proporre domanda tempestiva per causa a lui non imputabile fermo restando che in detta nozione non rientra l’omessa o tardiva comunicazione di cui al comma 206 dell’art. 1 della legge n. 228 del 2012 perché l’adempimento comunicativo che la disciplina transitoria pone in capo all’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata si qualifica come mera pubblicità notizia dettata da una disposizione di carattere organizzativo volta ad agevolare l’obbligo del creditore ex art. 1, comma 199, legge n. 228 del 2017 ma in cui potrà eventualmente rientrare l’ipotesi in cui, nonostante la conoscenza del procedimento, il terzo interessato non è venuto a conoscenza dell’esito dello stesso e non ha comunque conosciuto del provvedimento definitivo di confisca per ragione non imputabile a suo difetto di diligenza.
Si sottolineava oltre a ciò come le considerazioni appena svolte, in relazione ai creditori muniti di ipoteca iscritta sui beni oggetto di procedimento di confisca di prevenzione anteriormente alla trascrizione del relativo sequestro, valessero, evidentemente, anche in relazione alle altre categorie dei creditori cui fa riferimento lo stesso comma 198 della legge n. 228 del 2012 ovvero: a) i creditori che prima della trascrizione del sequestro di prevenzione hanno trascritto un pignoramento sul bene o erano intervenuti, prima dell’entrata in vigore della legge n. 228 del 2012, nell’esecuzione iniziata con il pignoramento trascritto prima della trascrizione del sequestro sul bene; b) i titolari di crediti da lavoro subordinato, in conseguenza della richiamata sentenza della Corte costituzionale n. 94 del 2015 fermo restando che per tale ultima categoria di creditori, però, la conoscenza del procedimento e dell’eventuale confisca non può in alcun modo darsi per presunta, e non solo perché si tratta di categoria inserita per effetto di pronunzia additiva della Consulta, ma perché la loro posizione creditoria non è connotata da quel rapporto diretto con i beni oggetto del procedimento di confisca e da quella legittimazione a partecipare, già nel sistema previgente, a detto procedimento, che in qualche modo, come detto, potevano giustificare detta presunzione: l’assenza di tali caratteristiche verosimilmente rendendo, anzi, assai difficoltoso per l’Agenzia individuarli quali potenziali destinatari della comunicazione a mezzo posta elettronica certificata, di cui al comma 206 in modo tale che, ove la loro domanda risulti apparentemente tardiva, spetterà in ogni caso al giudice di merito verificare se e quando sia per loro maturata la conoscenza effettiva del procedimento o del provvedimento lesivo dei loro diritti, all’inverso presumendo, in difetto di prova sul punto, la tempestività della domanda.
In questa ottica, dunque, i giudici di Piazza Cavour giungevano a postulare come l’effettività e la funzionalità del collegamento fra le disposizioni dei commi in parola apparisseno assicurate in modo rispettoso dell’autonoma valenza di ciascun precetto, senza insoddisfacenti sbilanciamenti in un senso o nell’altro posto che, seguendo tale linea ricostruttiva, l’assolvimento dell’obbligo informativo in capo all’Agenzia non diviene affatto una condizione intrinseca di operatività del termine per la domanda di ammissione del credito, che continua, in linea di principio, a decorrere solo ed esclusivamente dal dies a quo stabilito dalla legge (ossia dal 1° gennaio 2013 ovvero dalla definitività del provvedimento di confisca) salvo che risulti che il creditore non aveva avuto conoscenza del procedimento o del provvedimento fermo restando però che tale obbligo non è privo di rilievo né assolve unicamente ad una mera funzione agevolativa o di tipo servente, in quanto il suo eventuale inadempimento può paralizzare, “dall’esterno”, la decorrenza del termine.
Il sistema, così ricostruito, ad avviso della Corte, consente di scongiurare le ricadute, altrimenti inevitabili, della meccanicistica applicazione del regime decadenziale nell’ottica della tutela dell’effettività dell’esercizio dei diritti come delineata dai principi costituzionali e sovranazionali prima richiamati il che è destinato a valere non soltanto nel senso di evitare ingiustificati pregiudizi per il creditore in buona fede, danneggiato dall’omissione informativa, ma anche al fine di prevenire altrettanto ingiustificati ed irragionevoli vantaggi che potrebbero scaturire da un automatismo applicativo di segno opposto: quello che vorrebbe il terzo creditore in incolpevole ignoranza per la sola circostanza che l’Agenzia non abbia adempiuto agli obblighi informativi imposti dal richiamato
comma 206 dell’art. 1; automatismo che, ad avviso della Corte, sebbene ridondante a favore del creditore, risulterebbe – in forza delle argomentazioni che precedono – a sua volta di discutibile ragionevolezza.
Tal che, alla luce delle considerazioni sin qui esposte, venivano postulati i seguenti principi di diritto:
“I creditori muniti di ipoteca iscritta sui beni confiscati all’esito dei procedimenti di prevenzione, per i quali non si applica la disciplina del d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, devono presentare la domanda di ammissione del loro credito, al giudice dell’esecuzione presso il tribunale che ha disposto la confisca, nel termine di decadenza previsto dall’art. 1, comma 199, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, anche nel caso in cui non abbiano ricevuto le comunicazioni di cui all’art. 1, comma 206, della legge da ultimo citata; e ciò, perché il termine di decadenza previsto dal richiamato comma 199 decorre indipendentemente dalle comunicazioni di cui al successivo comma 206. L’applicazione di detto termine è comunque subordinata all’effettiva conoscenza, da parte del creditore, del procedimento di prevenzione in cui è stata disposta la confisca o del provvedimento definitivo di confisca. È, in ogni caso, fatta salva la possibilità del creditore di essere restituito nel termine stabilito a pena di decadenza, se prova di non averlo potuto osservare per causa a lui non imputabile”.

Conclusioni

Con la sentenza in questione, le Sezioni unite chiariscono il modo in cui si deve procedere i creditori muniti di ipoteca iscritta sui beni confiscati all’esito dei procedimenti di prevenzione, per i quali non si applica la disciplina del d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159.
Viene a questo proposito asserito che costoro sono tenuti a presentare la domanda di ammissione del loro credito, al giudice dell’esecuzione presso il tribunale che ha disposto la confisca, nel termine di decadenza previsto dall’art. 1, comma 199, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, anche nel caso in cui non abbiano ricevuto le comunicazioni di cui all’art. 1, comma 206, della legge da ultimo citata vale a dire non sia presentata la domanda di ammissione al credito entro 180 giorni dall’entrata in vigore della presente legge anche se Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalita’ organizzata, entro dieci giorni dall’entrata in vigore della presente legge, ovvero dal momento in cui la confisca diviene definitiva, non abbia comunicato ai creditori di cui al comma 198 a mezzo posta elettronica certificata, ove possibile e, in ogni caso, mediante apposito avviso inserito nel proprio sito internet: a) che possono, a pena di decadenza, proporre domanda di ammissione del credito ai sensi dei commi 199 e 205; b) la data di scadenza del termine entro cui devono essere presentate le domande di cui alla lettera a); c) ogni utile informazione per agevolare la presentazione della domanda.
Pur tuttavia, l’applicazione di detto termine non è incondizionato essendo comunque subordinata all’effettiva conoscenza, da parte del creditore, del procedimento di prevenzione in cui è stata disposta la confisca o del provvedimento definitivo di confisca tanto è vero che, in ogni caso, è fatta salva la possibilità del creditore di essere restituito nel termine stabilito a pena di decadenza, se prova di non averlo potuto osservare per causa a lui non imputabile.
La soluzione ermeneutica così formulata, dunque, garantisce i creditori, muniti di ipoteca iscritta sui beni confiscati all’esito dei procedimenti di prevenzione, per i quali non è applicabile la disciplina del d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, nei loro crediti approntando specifici meccanismi affinchè costoro siano tutelati in queste loro ragioni nel senso di vedere riconosciuti a loro favore di essere messi in condizione di essere garantiti nelle loro prerogative creditorie essendo richiesto che loro abbiano effettiva conoscenza del procedimento di prevenzione in cui è stata disposta la confisca o del provvedimento definitivo di confisca e di conseguenza permettendogli di essere rimessi in termini ove non abbiano avuto contezza di ciò.

Sentenza collegata

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Avv. Di Tullio D’Elisiis Antonio

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