Quale sorte per le spese di mediazione nel giudizio: breve riflessione sull’art. 13 del d.lgs. 28/2010

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1. Contenuto e ambito di applicazione della norma.

L’art. 13 del D.Lgs. 28/2010, rubricato “Spese processuali”, dispone, al comma 1, che quando la decisione del giudizio corrisponda interamente al contenuto della proposta del mediatore, il giudice debba escludere, per la parte vittoriosa che l’abbia rifiutata, la ripetizione delle spese sostenute successivamente alla sua formulazione, al pari dell’indennità corrisposta al mediatore e del compenso spettante all’eventuale esperto nominato ai sensi dell’art. 8, comma 4 dello stesso D.Lgs. 28/2010, condannando contestualmente la stessa parte al rimborso, in favore dell’altra, delle spese da essa sostenute nello stesso periodo e al versamento al Fondo Unico Giustizia di una somma pari al contributo unificato dovuto per il giudizio; quando la corrispondenza sia soltanto parziale, continua il comma 2, il giudice può invece solo escludere la ripetizione, sempre per la parte vincitrice, dell’indennità del mediatore e del compenso dell’eventuale esperto, e solamente qualora ricorrano gravi ed eccezionali motivi.

Ai fini dell’applicazione della norma non assume rilievo la natura obbligatoria o facoltativa della mediazione, anzitutto perché a monte il comma 1 dell’art. 11 del D.Lgs. 28/2010 non declina l’ammissibilità della proposta del mediatore in funzione della natura della procedura, e questo correttamente perché con essa si vuol tratteggiare alle parti gli estremi di un possibile accordo, il quale non può che prescindervi, e poi perché un processo evitabile, che è quello che mira a contrastare la norma, lo è in quanto tale e non in funzione dell’obbligatorietà o meno della mediazione.

Mutuando le parole contenute nella Relazione illustrativa del D.Lgs. 28/2010 riguardo all’art. 13: “La disciplina delle spese processuali viene dunque intesa come risposta dell’ordinamento alla strumentalizzazione tanto della mediazione che del servizio-giustizia”1.

 

2. Significato di “indennità corrisposta al mediatore”.

Il primo importante nodo da sciogliere riguarda il significato da attribuire all’espressione “indennità corrisposta al mediatore”, onde accertare se essa rappresenti o non l’esplicazione di una volontà legislativa effettivamente diretta a circoscrivere a tale voce di spesa (e al compenso dell’eventuale esperto) la ripetibilità degli oneri di mediazione.

Per rispondervi dobbiamo partire dalla definizione di “indennità” data all’art. art. 1, lett. h) del D.M. 180/2010, secondo cui essa rappresenta “l’importo posto a carico degli utenti per la fruizione del servizio di mediazione fornito dagli organismi.”. Proseguono poi i commi 1 e 10 dell’art. 16 che “L’indennità comprende le spese di avvio del procedimento e le spese di mediazione.” e che “Le spese di mediazione comprendono anche l’onorario del mediatore […]”.

Appare perciò evidente che il termine “indennità” possa essere utilizzato solo con riferimento all’organismo di mediazione e non al mediatore; quest’ultimo, infatti, percepisce un onorario, che costituisce una frazione delle spese di mediazione, le quali a propri volta unitamente a quelle di avvio della procedura vanno a formare, giusto appunto, l’indennità dell’organismo2.

Parlare di “indennità del mediatore” è dunque una marcata imprecisione terminologica.

Resta allora da stabilire se con tale espressione il Legislatore delegato abbia voluto riferirsi all’onorario del mediatore o all’indennità dell’organismo di mediazione.

Partendo dal dato letterale, vediamo come la norma si esprima in termini di corresponsione di un qualcosa (l’indennità) dalle parti al mediatore; sennonché, al contrario del pagamento del compenso dell’eventuale esperto, che è a loro diretto carico, l’art. 14 del D.M. 180/2010 espressamente esclude che il mediatore possa percepire direttamente dalle parti il compenso per l’attività svolta, la cui corresponsione compete solo all’organismo di mediazione.

Va dunque da sé che al termine “indennità” non possa essere attribuito il significato di “onorario”, poiché altrimenti, regolando l’art. 13 in commento le spese sostenute in mediazione direttamente dalle parti, si vedrebbe implicitamente derogato il suddetto divieto.

Milita nello stesso senso la Relazione illustrativa al D.Lgs. 28/2010, che nel presentare l’art. 13 equipara le spese sostenute dalle parti in mediazione alle spese processuali, senza alcuna menzione dell’onorario del mediatore e del compenso dell’eventuale esperto. Si osserva allora che se le prime rappresentano la sommatoria delle spese di avvio del procedimento e di quelle di mediazione propriamente dette (in cui è ricompreso l’onorario del mediatore), che congiuntamente formano l’indennità dell’organismo di mediazione, e del compenso dell’eventuale esperto, in quanto anch’esso sostenuto dalle parti nel corso della procedura, la sola distinzione ammissibile appare perciò quella tra indennità e compenso, in quanto voci autonome di spesa che insieme costituiscono quegli oneri di mediazione che la norma, e la sottostante volontà legislativa, ha inteso equiparare alle spese processuali sul piano della ripetibilità. E una tale distinzione è appunto quella operata all’art. 13: quindi, il significato implicito della locuzione in esame non può che essere quello di indennità spettante all’organismo di mediazione e non di onorario di competenza del mediatore.

Oltretutto, anticipando la riflessione che a breve seguirà, ragionando in tali termini si vedrebbe anche salvaguardato il principio della soccombenza nella regolamentazione delle spese.

 

3. Possibile limite alla ripetibilità delle spese di mediazione.

Dobbiamo ora domandarci se si possano ravvisare dei limiti altrettanto impliciti alla ripetibilità delle spese della mediazione (che ricordiamo constare dell’indennità dell’organismo e del compenso dell’eventuale esperto).

E’ vero, si osserva, che nella Relazione illustrativa al D.Lgs. 28/2010 esse risultano equiparate a quelle processuali, senza distinguere tra mediazione obbligatoria e facoltativa, ma una soluzione univoca per entrambi i casi non convince del tutto.

Partiamo col dire che l’art. 91 c.p.c., e più in generale il principio secondo cui la parte soccombente in giudizio debba rifondere a quella vittoriosa la spese da quest’ultima sostenute per tutelare i propri interessi, trae origine e fondamento dall’esigenza di evitare una diminuzione patrimoniale alla parte che abbia dovuto svolgere un’attività processuale per ottenere il riconoscimento di un proprio diritto3. E’ evidente infatti che se le spese per la tutela dei propri diritti rimanessero definitivamente a carico della parte che le abbia sostenute, si verrebbe violato un principio cardine del processo e cioè che la necessità di agire o di difendersi non debba andare a danno della parte che abbia ragione4.

Esiste quindi un nesso di dipendenza tra le spese e la loro la ripetibilità processuale, che consiste nell’essere doverose, cioè necessarie per ottenere la tutela richiesta.

In caso di giurisdizione condizionata, problemi non si pongono. Qualora infatti il tentativo di conciliazione – che sia preliminare o incidentale – costituisca condizione di procedibilità della domanda giudiziale, quindi sia obbligatorio, le parti si porranno dinanzi alle relative spese in termini di doverosità dell’esborso, perché la mancanza di tale adempimento precluderebbe loro l’erogazione della tutela richiesta. Da qui il diritto di ottenerne senz’altro la rifusione.

Allorquando le parti si dirigano però spontaneamente in mediazione, le spese della procedura non si atteggiano in termini di dovere, inteso sempre come condizione cui è subordinata l’erogazione della tutela giudiziaria, bensì di scelta discrezionale, libera e volontaria, tramite cui esse perseguono l’obiettivo di addivenire a una risoluzione extragiudiziale e amichevole di una controversia. Trattandosi dunque di un passaggio non vincolato, né normativamente imposto, sarebbe forse più corretto, oltreché coerente con la ratio del principio suddetto, escluderne la ripetibilità in giudizio: le parti, in tal caso, si sono infatti consapevolmente assunte l’alea, anche dal punto di vista degli oneri di procedura, di un esito negativo del tentativo di conciliazione; esse quindi hanno voluto, e non dovuto, partecipare alla procedura e sostenerne i relativi costi.

Si potrebbe obiettare che un ragionamento siffatto contrasterebbe con l’eccezione al principio della soccombenza contenuta all’art. 13 ivi commentato, che ricordiamo prescindere dalla natura obbligatoria o facoltativa della mediazione; potrebbe infatti apparire dissonante la coesistenza di una deroga al principio valida anche per le spese della mediazione facoltativa e la contestuale esclusione della loro ripetibilità al di fuori del suo ambito di applicazione.

La norma, si può rispondere, persegue lo scopo di prevenire inutili carichi giudiziari e per un tale fine deve necessariamente prescindere, per le ragioni in precedenza già dette, dalla natura obbligatoria o facoltativa della mediazione, ma ciò da solo non può fungere da discrimine per affermare o negare la ripetibilità delle spese della mediazione facoltativa. E’ corretta, si osserva, l’impostazione secondo cui in caso di rifiuto della proposta del mediatore coincidente con la decisione del giudizio, l’irripetibilità sia estesa anche alle spese della mediazione facoltativa, ma perché l’art. 13 ha una funzione afflittiva nei confronti della parte che ancorché vittoriosa nel giudizio, abbia tenuto in mediazione una condotta tale da aver procurato l’esigenza di un processo evitabile, non avendo accolto una proposta di conciliazione che le avrebbe procurato il medesimo risultato giuridico e che in quanto scopo della procedura qualunque sia la sua natura, rappresenta un concetto neutro che egualmente ne prescinde. Al di fuori dell’ambito di applicazione della norma, cioè nei casi di un processo giusto, in cui cioè la parte vittoriosa abbia ottenuto una tutela diversa e maggiore rispetto a quella che le sarebbe stata concessa accettando la proposta del mediatore, ci si dovrebbe invece attendere un’operatività piena del binomio doverosità-ripetibilità delle spese, perché allora sì che tornerebbe a influire la natura obbligatoria o facoltativa della mediazione sulla regolazione delle relative spese, nel primo caso doverose e quindi ripetibili, nel secondo caso liberamente sostenute dalle parti e dunque irripetibili.

Né potrebbe far propendere per la tesi contraria la responsabilità solidale delle parti nel pagamento delle spese di mediazione prevista all’art. 16, comma 11 del D.M. 180/2010: la solidarietà opera e resta relegata sul solo piano contrattuale che s’instaura tra le parti e l’organismo di mediazione, mentre è e resta dirimente per la regolazione delle spese la sola circostanza che la procedura discenda o non da una loro libera scelta.

Prescindendo dalla tesi ivi proposta, si osserva in chiusura che la condanna alla rifusione degli oneri di mediazione in favore della parte vittoriosa in giudizio, in quanto applicazione di un principio cardine del nostro sistema giuridico-costituzionale, in tanto deve comunque trovare applicazione ogniqualvolta le parti vi partecipino, indipendentemente dall’essere stata o non formulata dal mediatore una proposta di conciliazione.

E’ da ultimo interessante notare che quanto qui detto permetta anche di confermare l’interpretazione dell’espressione “indennità corrisposta al mediatore” che si è proposta.

 

4. Il problema del rifiuto bilaterale della proposta del mediatore.

La formulazione del comma 1 dell’art. 13 pone tuttavia anche un altro dilemma interpretativo.

Si è detto che l’esclusione della ripetizione delle spese, la condanna alla rifusione in favore della controparte di quelle da essa sostenute e l’irrogazione della multa, discendono automaticamente a carico della parte vittoriosa in giudizio che abbia rifiutato la proposta del mediatore risultata coincidente con il contenuto della decisione di merito del processo.

Quid iuris, ci si domanda, nel caso di un rigetto della proposta anche presso la controparte?

Nel silenzio della norma si può provare a rispondere partendo ancora dal fine tramite essa perseguito dal Legislatore delegato: evitare la proliferazione di processi inutili. Come? Imputandone i costi a carico della parte che sebbene vittoriosa in giudizio, ne abbia comportato l’esigenza con la propria condotta.

Se è però questo lo scopo, e tale risulterebbe essere anche leggendo la Relazione illustrativa del D.Lgs. 28/2010, non si può non notare che per la sua applicazione, il rifiuto della parte poi vittoriosa in giudizio dovrebbe essere determinante, nel senso di costituire il trait d’union tra l’esito negativo del tentativo di conciliazione e la necessità del successivo processo. In altri termini, se la norma intende evitare il processo sanzionando la condotta della parte che vi abbia dato causa, è necessario che tale condotta sia stata da sé sola idonea a produrre l’effetto da essa sanzionato.

Tuttavia, a seconda di come ci si ponga rispetto all’ipotesi in esame, la necessità del processo potrebbe non vedersi derivare dal rifiuto opposto dalla parte poi vincitrice in giudizio, poiché non avendola accolta neppure la controparte, il processo non sarebbe stato comunque evitabile.

Sembrerebbe allora dirimente ai fini dell’applicazione della norma, che il rifiuto della proposta del mediatore provenga o non dalla sola parte poi vincitrice in giudizio, perché solo ragionando in questi termini sarebbe possibile imputarle la necessità del successivo processo e quindi addebitargliene legittimamente i costi nei termini già detti.

Una tale soluzione consentirebbe anche di tener fede al principio di causalità che regola il regime delle spese processuali, secondo cui le spese devono seguire la parte che con il proprio comportamento abbia determinato la necessità del processo5, che accedendo a una lettura acritica della norma non si vedrebbe rispettato: sono state le condotte di entrambe le parti a determinare infatti l’esigenza del processo e non lo si può dunque imputare in via esclusiva ad alcuna di esse; il rifiuto dell’una ha infatti comportato lo scadimento a un effetto causale relativo di quello dell’altra e viceversa, precludendo così l’imputabilità dell’evento-processo in capo solo a quella poi vittoriosa in giudizio.

In tali casi sembrerebbe forse più corretto condizionare l’applicazione della norma a una valutazione, da parte del giudice, del comportamento tenuto da tutti i partecipanti alla mediazione, riconoscendogli un potere discrezionale analogo a quello attribuitogli al successivo comma 2; peraltro, non esistendo alcuna correlazione causale tra rifiuto della proposta e processo, non sembrerebbe neanche insensato sostenere che l’applicazione dovrebbe essere pure subordinata alla ricorrenza di gravi ed eccezionali motivi, analogamente ancora a quanto previsto al comma 2.

Non si può tuttavia tacere che la questione potrebbe anche essere letta altruimenti, nel senso cioè che il rifiuto della proposta opposto dalla parte vittoriosa in giudizio sarebbe da sé solo sufficiente a determinare l’esigenza del processo in quanto automaticamente preclusivo dell’accordo, facendo da ciò discendere con altrettanta automaticità l’applicazione della norma.

A una tale obiezione si potrebbe però replicare teorizzando l’adozione di criterio cronologico, nel senso di applicare la norma automaticamente pur in presenza di un rifiuto bilaterale (o plurilaterale in caso di più di due partecipanti alla mediazione) della proposta del mediatore, quando il primo di essi pervenuto all’organismo sia quello della parte poi vittoriosa in giudizio, procedendo nel caso caso contrario con il criterio enunciato poco sopra.

Una soluzione siffatta consentirebbe infatti di attribuire comunque un effetto di causalità assoluta (anziché relativa) al rifiuto della parte vincitrice in giudizio, così da poterle imputare in via esclusiva l’esigenza del processo, tenendo però fede tanto alla ratio della norma, quanto al principio di causalità delle spese.

 

5. Conclusioni.

Anche in punto di regolamento delle spese di mediazione il testo del decreto legislativo è tutt’altro che scevro da incongruenze sistematiche e imprecisioni lessicali, tali da costringere l’interprete a un impegno non trascurabile nel tentativo di darne una lettura il più possibile coerente con i principi informatori del nostro ordinamento processuale e costituzionale.

Come si è avuto modo di vedere, l’infelice espressione “indennità del mediatore” va anzitutto letta in termini sicuramente più ampi rispetto all’interpretazione se ne potrebbe dare ad una prima e superficiale lettura, dovendo infatti ricondurre al suo interno tutte le spese di mediazione, comprensive quindi di quelle di avvio del procedimento e di quelle propriamente dette (tra cui rientra l’onorario del mediatore).

Limitarne infatti la ripetibilità al solo onorario percepito dal mediatore si tradurrebbe in uno sviamento patologico rispetto all’intento del Legislatore delegato, che emerge chiaramente dalla Relazione illustrativa del decreto legislativo, e in una violazione sostanziale del principio di soccombenza. Ripetibilità che si è poi teorizzato doversi riconoscere alle sole spese sostenute per la mediazione obbligatoria, in quanto solo in tali casi gli oneri si pongono rispetto alle parti in termini di doverosità, la quale dal canto proprio è condizione per l’applicazione di detto principio.

Infine, si è visto non convincere un’applicazione automatica e acritica del comma 1 della norma commentata, che sarebbe tale accedendo a una interpretazione strettamente letterale del testo: ragioni di coerenza sistematica e costituzionale imporrebbero infatti di applicarla solo quando il comportamento tenuto dalla parte poi vittoriosa in giudizio abbia da sé solo determinato la necessità del processo e non anche quando quest’ultimo non sarebbe stato evitabile qualunque fosse stata la sua decisione in merito alla proposta del mediatore. A tal proposito si è dunque ipotizzato che l’applicazione della norma potrebbe alternativamente seguire il solo criterio discrezionale, attribuendo la decisione al giudice e solo se ricorrano gravi ed eccezionali motivi, oppure misto cronologico-valutativo, che forse è il preferibile, in virtù del quale ne verrebbe data automatica applicazione quando il primo rifiuto pervenuto all’organismo di mediazione sia quello della parte poi vittoriosa in giudizio, per quindi alla valutazione discrezionale nel caso contrario, preservando in tal modo la ratio della norma e il principio di causalità delle spese processuali.

Resta comunque il fatto che in mancanza, ancora, di una prassi applicativa dell’istituto, non si può che avanzare per ipotesi, caldeggiando, anche in questo caso, un intervento legislativo.

1Più precisamente, nella Relazione illustrativa è stato osservato che: “La parte che ha rifiutato la proposta di conciliazione può vedersi addossare le conseguenze economiche del processo, anche se vittoriosa, quando vi sia piena coincidenza tra il contenuto della proposta e il provvedimento che definisce il giudizio. E’ questa, infatti, la palmare dimostrazione che l’atteggiamento da essa tenuto nel corso della mediazione è stato ispirato a scarsa serietà e che la giurisdizione è stata impegnata per un risultato che il procedimento di mediazione avrebbe permesso di raggiungere in tempi molto più rapidi e meno dispendiosi. La disciplina delle spese processuali viene dunque intesa come risposta dell’ordinamento alla strumentalizzazione tanto della mediazione che del servizio-giustizia.”.

2Tale ricostruzione si trova anche nella Circolare interpretativa del Direttore generale della Giustizia civile del 20 dicembre 2011.

3Cassazione civ., sez. I, 25 settembre 1997 n. 9417 in Giust. civ. Mass. 1997, 1776, Rass. Forense 1998, 145.

4F.P. Luiso, Diritto processuale civile, vol. I, 44, 403, Giuffré, 2000.

5F.P. Luiso, op. cit., 44, 405.

Guidoni Emanuele

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