La Corte di Cassazione, con sentenza n. 25026 del 25 giugno 2024, ha chiarito che la parola “pezzente”, pronunciata in uno specifico contesto processuale, non integra il reato di diffamazione perché non lede la reputazione del destinatario.
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Indice
1. I fatti
La decisione della Corte di Cassazione scaturisce dal ricorso presentato dall’imputato avverso la sentenza del Tribunale di Gela, che ne ha confermato l’affermazione di responsabilità statuita in primo grado dal giudice di pace, in ordine al reato di diffamazione, per aver proferito nel corso di un’udienza di processo civile, in presenza di più persone, in danno della parte civile, la parola “pezzente“.
Il ricorso era affidato ad un solo motivo fondato su vizi di cui all’art. 606, comma 1, lett. b) ed e) cod. proc. pen., perché la parola “pezzente” non avrebbe valenza diffamatoria e il fatto non integrerebbe il reato contestato, anche alla luce dei precedenti giurisprudenziali che avrebbero escluso la sua sussistenza in presenza di espressioni di contenuto più triviale. Inoltre, non sarebbe dimostrata la prova del dolo generico del reato di diffamazione perché l’intento dell’imputato sarebbe stato solo quello di esprimere una critica consentita e contestualizzata.
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Formulario Annotato del Processo Penale
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2. Parola “pezzente” in contesto processuale: l’analisi della Cassazione
La Corte di Cassazione, nell’accogliere il ricorso, premette che, in materia di diffamazione, si può “conoscere e valutare l’offensività della espressione che si assume lesiva della altrui reputazione, perché è compito del giudice di legittimità procedere in primo luogo a considerare la sussistenza o meno della materialità della condotta contestata e, quindi, della portata offensiva delle frasi ritenute diffamatorie, dovendo, in caso di esclusione di questa, pronunciare sentenza di assoluzione dell’imputato“.
Ebbene, la Suprema Corte ritiene che, nel caso di specie, non sussistano gli elementi essenziali del reato di diffamazione, sulla base di un consolidato principio secondo il quale è richiesto che “la condotta astrattamente conforme al tipo possieda attitudine offensiva, nel senso che, in relazione alle concrete circostanze del fatto, risulti suscettibile di diffusione e di pregiudizio della stima e del rispetto di cui ogni consociato è meritevole nel contesto di riferimento“.
Infatti, la parola “pezzente” è stata pronunciata dall’imputato isolatamente, in modo improvviso e occasionale, al di fuori di un più ampio ed articolato contesto dialogico. La parola è stata, poi, udita dai due patrocinatori della persona offesa che l’hanno riferito a quest’ultima, la quale ha formalizzato la querela.
3. La decisione della Cassazione
Alla luce di quanto finora esposto, la Corte di Cassazione osserva che la sentenza impugnata si è limitata a chiosare che il termine usato possiederebbe indiscussa pregnanza offensiva, senza, però, valutare se tale offensività fosse presente nel caso di specie.
La Suprema Corte sottolinea che “se per un verso non è dato comprendere il senso compiuto dell’esclamazione nel contesto, peraltro intimamente e necessariamente conflittuale, dell’interlocuzione tra le parti del processo civile in corso, che già di per sé innesta un ragionevole dubbio sulla configurabilità di un inequivoco attacco ad hominem, non è possibile cogliere, per altro verso, l’effetto lesivo che si proietterebbe sulla vita di relazione della persona offesa e sul riconoscimento alla sua dignità nella realtà socio culturale circostante“.
Insomma, ad avviso della Corte, la parola pronunciata nel corso del processo, non inciderebbe in maniera significativa sulla reputazione del destinatario.
Per questi motivi, la Corte di Cassazione ha annullato la sentenza impugnata perché il fatto non sussiste.
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