Processo civile: verso una riduzione progressiva e costante delle garanzie

Redazione 19/07/12
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Il Professor Giovanni Verde, Ordinario di Diritto processuale civile presso l’Università di Napoli, esprime le proprie riserve sull’introduzione del nuovo istituto del «filtro» in appello disposta dal D.L. 83/2012 (cd. decreto crescita e sviluppo) nel contesto di una serie di misure incidenti sull’amministrazione della giustizia al dichiarato scopo di rendere maggiormente efficiente il sistema giudiziario.

Si ricorda, in proposito, come detto provvedimento abbia inserito nel corpo del codice di rito gli artt. 348bis e ss. che consentono di dichiarare inammissibile l’appello quando abbia una probabilità non ragionevole di essere accolto. Ai sensi delle nuove disposizioni è stato infatti congegnato un filtro di inammissibilità incentrato su una prognosi di non ragionevole fondatezza del gravame formulata dal medesimo giudice dell’appello in via preliminare alla trattazione dello stesso, di modo che, quando questi accerti che l’appello non ha una ragionevole probabilità di essere accolto, l’impugnazione è dichiarata inammissibile con ordinanza succintamente motivata.

Si tratta, sostanzialmente, di un sistema di scrematura degli atti di gravame, fondato sulla probabilità di accoglimento del mezzo, finalizzato a selezionare quelli meritevoli di essere trattati approfonditamente, cui destinare in via esclusiva le risorse destinate dall’ordinamento alla correzione delle decisioni di primo grado.

Ciò che appare innanzitutto discutibile al Professore è la tecnica di utilizzare quale condizione di ammissibilità dell’impugnazione valutazioni che attendono al merito.

In via più generale, si osserva come le nuove regole finiscano, di fatto, per rendere il secondo grado del giudizio di merito meramente opzionale. Tale approccio interpretativo, connesso al timore di un utilizzo spregiudicato della formula legislativa della «ragionevole probabilità» al fine di ridurre il carico dei ruoli, non appare eccessivo, chiamandosi a conferma dello stesso la previsione in base alla quale l’ordinanza che dichiara inammissibile l’appello, la quale contiene anche la decisione sulle spese a norma dell’art. 91 c.p.c., non è impugnabile, per cui non è dato alcun rimedio al riguardo, né è prevista alcuna sanzione per la sua eventuale ingiustizia.

Il ricorso per cassazione, infatti, dopo la dichiarata inammissibilità dell’appello, può essere proposto contro la sentenza di primo grado, così che la parte soccombente neppure può dolersi della ingiusta o eccessiva condanna alle spese. Peraltro, posto che il ricorso deve ripetere i motivi per i quali fu proposto l’appello, con esclusione del vizio per difetto di motivazione, ormai soppresso, è evidente che le parti devono organizzarsi in maniera da formulare l’appello in maniera che sia eventualmente traducibile in un ricorso per cassazione.

Queste le considerazioni che hanno indotto il Professor Verde a ritenere che, a seguito degli interventi operati dal Governo con riguardo al giudizio impugnatorio, la garanzia del doppio grado diventa del tutto aleatoria, non essendoci alcun controllo avverso la decisione del secondo giudice che apoditticamente affermi che le questioni poste a base della decisione impugnata non hanno ragionevole probabilità di essere accolte. Alla obiezione, che pure potrebbe essere mossa, in base alla quale la Costituzione non garantisce il doppio grado del giudizio di merito e che, pertanto, i soggetti possono e devono accontentarsi di ciò che il legislatore ordinario loro concede, il Professore oppone il rilievo per cui le decisioni devono in ogni caso godere di un ragionevole consenso sociale. Se la nostra tradizione ha imposto un doppio grado di merito, ciò dipende dal fatto che nel contesto sociale un unico giudice non gode di sufficiente fiducia da parte dei litiganti, così che la soppressione, seppur mascherata, di una garanzia, può provocare crisi di rigetto, anche perché non si giustifica il diverso trattamento che oggi la legge riconosce ai processi dinanzi ai giudici amministrativi o contabili.

Un ulteriore motivo di perplessità in merito alla riforma attiene alla dubbia capacità dei giudici di appello di attendere, come richiesto dalla legge, ad uno scrutinio scrupoloso e fortemente meditato degli atti introduttivi del processo di appello. Le perplessità sollevate dal Professore conseguono alla valutazione per cui già ad oggi, quando si tratta di delibare la richiesta di sospensione dell’efficacia esecutiva della sentenza, i giudici preferiscono far leva sul danno, così sfuggendo ad una valutazione preventiva circa la fondatezza del ricorso. Con la nuova norma, invece, gli stessi giudici sono chiamati a mutare atteggiamento e tendenzialmente concedere la sospensione se l’appello ha superato il filtro di ammissibilità.

Da ultimo, si osserva come il legislatore si sia preoccupato esclusivamente di regolare i rapporti tra ordinanza di inammissibilità e ricorso per cassazione. Posto che questa ordinanza costituisce un nuovo modo di definizione del procedimento di appello, sarebbe stato necessario, secondo l’autorevole giudizio del Professor Verde, regolarne anche i rapporti con la revocazione e con l’opposizione di terzo. Ma anche questo rilievo viene ascritto ad un procedere per tentativi di riforma parziali e non sufficientemente meditati.

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