Praticante si presenta come legale incaricato, è esercizio abusivo

Redazione 10/04/18
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La Corte di Cassazione, quinta sezione penale, con sentenza n. 7630 del 17 febbraio 2017, ha confermato la condanna per esercizio abusivo della professione di avvocato, a carico di un praticante che, falsificando delle quietanze di pagamento apparentemente emesse dalla Compagnia Assicuratrice, le aveva fatte sottoscrivere ai clienti, presentandosi nei loro confronti come il legale incaricato della trattazione della pratica con la predetta Assicurazione.

Il collaboratore non abilitato, in particolare, si era opposto alla propria condanna in secondo grado ex art. 348 c.p., adducendo di non aver mai compiuto attività tipica della professione forense – non potendo dirsi tale, a suo parere, l’aver fatto sottoscrivere quietanze di pagamento –  ma di essersi limitato a seguire la vicenda che opponeva i clienti in questione alla Compagnia Assicuratrice, per conto dell’avvocato titolare dello studio, suo dominus.

Firmare quietanze di pagamento? Atto tipico della professione forense

Una censura tuttavia respinta dalla Corte di Cassazione, che conferma quanto dedotto dai Giudici d’Appello, ossia che l’attività che lo stesso imputato ammette di aver svolto (nell’ambito di una controversia civilistica a seguito di decesso, tenere i contatti con la Compagnia Assicuratrice e far firmare quietanze ad esito di trattative stragiudiziali) deve ritenersi tipica della professione legale.

Esercizio abusivo, anche con atti non esclusivi della professione

Sul punto la Cassazione ribadisce un orientamento confermato dalle Sezioni Unite, secondo cui integra il reato di esercizio abusivo di una professione, il compimento senza titolo di atti che, pur non attribuiti singolarmente in via esclusiva ad una determinata professione, siano univocamente individuati come di competenza specifica di essa, allorché lo stesso compimento venga realizzato con modalità tali – per continuitià, onerosità ed organizzazione – da creare le oggettive apparenze di un’attività professionale svolta da un soggetto regolarmente abilitato.

La Suprema Corte conferma pertanto, a carico del praticante, il reato ex art. 348 c.p. (esercizio abusivo), mentre annulla la sentenza impugnata limitatamente al capo d’imputazione originariamente contestato ex art. 485 c.p. (falsità in scrittura privata) non essendo più previsto come reato ma come illecito civile.

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Redazione

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