Perché alla fine il legislatore italiano sarà costretto ad ammettere e regolamentare il diritto di associazione professionale tra militari (leggasi sindacato).

Scarica PDF Stampa

Prima di entrare nel vivo della questione occorre fare delle considerazioni  di fondo in materia di ordinamento interno.

La Costituzione Repubblica Italiana prevede, erga omnes, senza alcuna limitazione oggettiva e soggettiva, il diritto di associazione professionale per tutti i cittadini italiani, senza preclusione alcuna e senza alcuna riserva di legge e pertanto l’estensione di tale diritto si deve intendere valida anche per il personale delle Forze Armate.

Purtroppo il legislatore, prima nel 1978 (art. 8 c.1 della Legge 11 luglio 1978, n. 382 – Norme di principio sulla disciplina militare. (GU n.203 del 21-7-1978 ) –  e la Corte Costituzionale improvvidamente dopo, nel 1999, con la sentenza n. 499 del 13 dicembre 1999, hanno disconosciuto e superato lo stesso dettato costituzionale, ammettendo che per i cittadini in uniforme è preclusa ogni possibilità di esercizio del diritto di associazione professionale, ovverosia la possibilità di sindacalizzazione delle Forze Armate.

Occorre tener presente che nel quadro generale europeo e internazionale le cose stanno diametralmente all’opposto, infatti su 28 Stati appartenenti alla Comunità Europea ben 22 permettono la costituzione e l’adesione a sindacati e associazioni professionali tra militari, alcuni fin dal 1835, è il caso della Norvegia, nella NATO-OTAN ben 19 su 27, nell’OSCE 21 su 32 e nel Consiglio d’Europa, ovvero in quei paesi che hanno aderito alla Convenzione Europea sui Diritti dell’Uomo, 34 su 47.

Ma l’Italia, ossia lo Stato Italiano, nella persona giuridica del suo legislatore ritengo che alla fine se ne dovrà fare una ragione ed ammettere, ex lege, la possibilità per i cittadini in uniforme di costituire un loro sindacato o associazione professionale che si vuol dire, alla stessa stregua dei loro colleghi di altre nazioni, senza pretendere allargamenti sino alla possibilità di sciopero come è legittimamente permesso in Svezia, Austria e Macedonia, dove, ad esempio, in quest’ultima, vi è la possibilità per sei giorni all’anno di astenersi dall’attività permanendo però in caserma a disposizione per un pronto impiego in caso di attacco.

Da dove proviene però tale radicata convinzione che alla fine l’Italia recederà da questa atavica e ottocentesca posizione in cui si ritiene che la condizione militare debba essere necessariamente posta fuori dal contesto sociale per un mal sentito senso di efficienza, unità e coesione?

Preliminarmente in parte dal fatto inoppugnabile che ormai tutte le nazioni democratiche, anche quelle, soprattutto direi, in fase di riorganizzazione delle proprie strutture istituzionali, tra cui rientrano anche le Forze Armate nazionali, sono orientate a riconoscere e concedere tutti i diritti fondamentali e sociali previsti anche al personale militare, considerando così esso non più un corpo estraneo alla società e come tale da ritenerlo pienamente integrato nel rapporto democratico tra cittadino e Stato.

Poi dal fatto che ormai la CEDU (la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo) per i non giuristi organo che promana dal Consiglio d’Europa, che non si identifica nella Comunità Europea, come qualcuno può erroneamente pensare, dopo le due sentenze Affaire Adefromil c. France  (Requête no 32191/09)  e Affaire Matelly c. France (Requête no 10609/10), entrambe del 2 ottobre 2014, è orientata a riconosce il minimo “sindacale” alla costituzione di organismi professionali per la tutela dei diritti del personale in uniforme e di conseguenza della possibilità che una successiva decisione positiva nel riconoscere tale diritto associativo potrebbe oltre che consolidare un tale orientamento costituire la premessa per costituire una “sentenza pilota” i cui effetti vincolerebbe, si, tutti i paesi a uniformarsi, rebus sic stantibus, immediatamente, al suo contenuto.

Potrebbe essere questo il caso del ricorso proposto da circa 400 appartenenti alla Guardia di Finanza italiana lo scorso anno, identico nei presupposti e nelle richieste alle due domande presentate dal personale militare francese che ha prodotto nel 2014 le due sentenze predette.

Un ulteriore elemento che induce a rafforzarsi la convinzione di un prossimo riconoscimento anche per i militari italiani del diritto ad associarsi professionalmente è quello per cui la Francia si stia in tutta fretta adeguando nell’ordinamento militare interno, non solo formalmente, per così dire per adempiere ad un obbligo con tutti gli escamotage che gli si possono permettere, al contenuto delle due sentenze che l’hanno vista soccombere, ma anche nel contenuto, visto che il monito e l’iniziativa arriva dal primo cittadino di Francia il Presidente Hollande ed il Consiglio di Stato in meno di due mesi ha espresso a dicembre 2014 il suo parere sulla materia.

Oltre questi motivi, di ordine generale e sommario, ve ne sono altri, di ordine tecnico-giuridico, che inducono a ritenere che il legislatore italiano dovrà conformare al più presto l’ordinamento militare alle decisioni del 2014 della CEDU in materia di diritti sindacali e di associazionismo professionale e vediamo in punta di diritto quali sono.

L’articolo della Convenzione che viene ad essere interessato dalla vicenda nella sua complessità è l’art. 11 che prevede al primo comma il diritto alla libertà di associazione e dunque anche il diritto di costituire sindacati e di aderirvi per la difesa dei propri interessi, in linea di principio per ogni persona. Però, differentemente e paradossalmente, all’inverso della nostra Carta Costituzionale, al secondo comma dispone delle riserve e possibili limitazioni di questo diritto, secondo elementi restrittivi e tassativi, supportati da congrue e giustificate riserve di legge deroganti al principio generale.

Insomma la Convenzione e la Corte opportunamente e direi salomonicamente, ammettono limitazioni e restrizioni alla libertà di associazione dei militari ma queste non possono permettere e avallare tout court il divieto puro e semplice di costituire un sindacato o di aderirvi, in quanto ciò costituisce un pregiudizio appunto non previsto dalla Convenzione medesima.

Detto questo nel caso di specie la Francia avrà l’obbligo di conformarsi a tale previsione di diritto attraverso una restitutio in integrum del diritto violato e l’adeguamento del corpo normativo nazionale affinché non avvengano in futuro altre violazioni dello stesso diritto fondamentale del personale militare.

Se questo è quanto compete alla Francia per l’Italia le cose non sono in linea procedurale diverse, infatti, sulla medesima, ai sensi dell’art. 1 della Convenzione di Roma che prevede: “Le Alte Parti contraenti riconoscono ad ogni persona soggetta alla loro giurisdizione i diritti e le libertà definiti al titolo primo della presente Convenzione”, alla stessa stregua della Francia e delle altre nazioni che hanno ratificato la Convenzione Europea sui Diritti dell’Uomo del 1950, incombe un obbligo indefettibile di adempimento e cioè quello di adeguare il diritto interno alla Convenzione stessa.

Solo per inciso, in quanto in via logica e giuridica dovrebbe essere del tutto ovvio, nelle fonti giuridiche interne la Convenzione ha lo stesso rango della legge ordinaria essendo la stessa introdotta attraverso la legge ordinaria n. 848 del 4 agosto 1955.

Ma vi è di più, lo Stato contraente, nel nostro caso l’Italia, avrà la necessità di adeguare il proprio ordinamento militare al contenuto della due sentenze che hanno visto soccombere i cugini d’oltralpe, in virtù dell’obbligo nascente dal contenuto dell’art. 46, par. 1, della Convenzione, secondo cui: “…gli Stati hanno lobbligo di conformarsi alle sentenze definitive della Corte sulle controversie nelle quali sono parti”, oltre al fatto che, se la CEDU manterrà questo profilo giurisprudenziale, anch’essa, prossimamente, soccomberà alla stessa stregua della Francia, nel procedimento che la vede opporsi al ricorso presentato dai militari della GdF italiana.

In quel caso sarà poi il Comitato dei Ministri, quale organo politico del Consiglio d’Europa, che provvederà sull’esecuzione delle sentenza definitiva della Corte in quanto questa avrà l’effetto di cosa giudicata tra le parti essendo sentenza definitiva della Corte, esclusivo aspetto questo della funzione giurisdizionale di un qualsiasi ordinamento giuridico nazionale o internazionale, al pari di un’azione di ottemperanza in diritto amministrativo.

Ma l’Italia oltre ad essere obbligata in caso di soccombenza a ottemperare al contenuto, direi scontato, dell’eventuale sentenza sfavorevole in qualità di parte, essa in ogni caso deve tener conto  della predetta giurisprudenza della CEDU in rapporto al rispettivo ordinamento nazionale e ciò nell’ottica di una conformità e omogeneizzazione degli ordinamenti interni degli Stati Parte, soprattutto in considerazione che i diritti di cui si tratta sono diritti umani universalmente riconosciuti e inalienabili.

Peraltro lo Stato italiano sarà a brevissimo condizionato in tale senso dal fatto che è prossima l’introduzione nel sistema CEDU della possibilità del rinvio dei rispettivi giudici nazionali alla Corte di Strasburgo di casi che necessitano di un’interpretazione autentica della Convenzione e ciò attraverso il 16° Protocollo.

L’introduzione di tale principio, secondo cui i giudici chiamati a giudicare in forza dell’ordinamento interno, su questioni di diritti fondamentali previsti dalla CEDU, non potranno invocare la disconoscenza della giurisprudenza della Corte sulla Convenzione, anche in casi analoghi che hanno visto e vedranno anche altri Stati Parte soccombere, renderà ancora più vincolante l’applicazione, anche direttamente, delle norme della CEDU, così come interpretate dalla Corte, seppur vigono norme interne contrarie e questo dovrà indurre, sempre di più, gli Stati Parte a superare l’attuale gap tra l’ordinamento interno e quello sovranazionale previsto dalla CEDU.

In tal senso la Suprema Corte Italiana ha precorso anche i tempi infatti, prima con la sentenza del 28 aprile 2010, n. 20514, in cui ha stabilito che: “alla doverosa osservanza degli obblighi che scaturiscono dai provvedimenti anche provvisori della Corte di Strasburgo, oltre al Governo, sono tenute tutte le istituzioni della Repubblica, compresi gli organi giurisdizionali nellambito della propria competenza”. e poi con quella del del  7 maggio 2014 n. 18821 in cui sancisce che : “…non possono essere di ostacolo ad un intervento dellordinamento giuridico italiano, attraverso la giurisdizione, per eliminare una situazione di illegalità convenzionale, anche sacrificando  il valore dellintangibilità del giudicato” e che “il giudicato non può che essere recessivo di fronte ad evidenti e pregnanti compromissioni in atto di diritti fondamentali della persona”, valutando così organicamente che l’orientamento della Corte Europea non può non incidere sull’ordinamento interno degli Stati Parte.

In tal senso si è espressa più volte anche la Corte Costituzionale che ha ormai consolidato nella sua giurisprudenza che a sua volta la giurisprudenza della Corte di Strasburgo sulla CEDU ed i relativi Protocolli, “garantisce lapplicazione del livello uniforme di tutela allinterno dellinsieme dei Paesi membri”.

Difronte dunque a questa netta presa di posizione dei due massimi organi della Giustizia di Legittimità il giudice interno, anche in assenza di normativa nazionale o contraria rispetto alle disposizioni della CEDU, dovrà attenersi all’interpretazione data dalla Corte di Strasburgo.

Da tutto ciò ne discende evidentemente che lo Stato Italiano, in tutte le sua articolazioni amministrative e di giustizia, dovrà necessariamente tener conto del giudicato recente della CEDU in materia di diritti associativi e professionali per il personale militare, recedendo da quell’impostazione arcaica e strumentale secondo cui i diritti dei singoli, soprattutto quelli di coloro che hanno uno status particolare, a cui attribuita quindi, come si dice ormai comunemente, una soggettiva “specificità pubblica”, sono obliterati difronte alla necessità dell’interesse pubblico e nazionale, ma soprattutto ammettendo che gli stessi diritti non possono essere totalmente disconosciuti a causa delle predette necessità di ordine pubblico e sicurezza nazionale.

Riprendendo il senso critico delle parole del Col. Matelly, che mettono in luce tutta la contraddizione delle montagne di pseudo scuse costruite ad arte, con la solennità e la formalità militare necessaria, secondo cui il principio sinallagmatico di rendere più efficiente e coeso lo strumento militare, limitando i diritti del personale militare, sarebbe diabolicamente analogo a quello per cui per rendere la società più efficiente si potrebbero strumentalmente annullare i diritti fondamentali (sembra lo stesso metro che ultimamente è stato ad esempio adottato in Italia per l’art. 18 della legge 300 del 1970 secondo cui a meno diritti dovrebbe corrisponde una maggior efficienza del settore produttivo nazionale), occorre, per finire, considerare che prima o poi, di fronte all’evolversi della società e dell’ordinamento interno, anche gli interessi di parte dell’ articolazione istituzionale statale dovranno soggiacere alla supremazia dei diritti dell’uomo e dunque anche l’Italia si dovrà conformare a quanto disposto dalla Convenzione Europea sui Diritti dell’Uomo ed alla interpretazione giurisprudenziale della sua sentinella, la Corte di Strasburgo.

Cataldi Carmelo

Scrivi un commento

Accedi per poter inserire un commento