Nella seduta del 10 giugno 2010 il Consiglio dei Ministri ha formulato l’emendamento n. 2228 da presentare al Senato della Repubblica in sede di conversione del decreto legge n. 78 del 31 maggio 2010, recante misure correttive alla manovra finanziaria per il periodo 2010/2012, che prevede il brusco innalzamento dell’età pensionabile delle donne del pubblico impiego a 65 anni a partire dal 1° gennaio 2012.
L’emendamento è stato concepito al fine di ottemperare alla sentenza della Corte di giustizia delle Comunità europee emessa in data 13 novembre 2008 (causa C 46/07) che ha condannato la Repubblica italiana per aver mantenuto in vigore nel nostro sistema previdenziale una normativa che consente ai pubblici dipendenti il diritto a percepire la pensione di vecchiaia ad età diverse a seconda che si tratti di uomini o di donne.
Invero, già nel 2005 la Repubblica italiana è stata oggetto di una procedura di infrazione avviata dalla Commissione europea sulla base del combinato disposto dell’art. 5 del decreto legislativo n. 503/1992 e dell’art. 2, comma 21, della legge n. 335 dell’8 agosto 1995 che ha sancito l’età pensionabile a 60 anni per i dipendenti pubblici di sesso femminile e a 65 anni per i dipendenti di sesso maschile, costituendo pertanto una trattamento meno favorevole per gli uomini, in violazione del trattato delle Comunità europee.
Le basi giuridiche su cui si fonda la sentenza vanno individuate sia nell’art. 3 del Trattato istitutivo delle Ce, che riconosce l’uguaglianza tra uomini e donne come un principio fondamentale sia nell’art. 141, paragrafo 3, che autorizza la Comunità ad adottare provvedimenti intesi a garantire l’applicazione del principio della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego.
Questi articoli del Trattato istitutivo della Ce sono stati più volte richiamati dalla Corte di Giustizia delle Comunità europee in svariate sentenze e sono stati i presupposti per l’adozione di direttive attinenti ai vari aspetti delle pari opportunità nello specifico discrimine basato sul sesso.
Tra le direttive di maggiore portata possiamo rinvenire la n. 2006/54/CE del 05 luglio 2006, adottata dal Consiglio e dal Parlamento europeo riguardante l’attuazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e di impiego, che ribadisce che le pensioni dei dipendenti pubblici sono, a tutti gli effetti, una parte della retribuzione e in quanto tale sono soggette alle regole di parità di trattamento e inoltre l’età pensionabile assume particolare rilievo per le specifiche prestazioni di vecchiaia concesse a persone che si occupano dei figli.
In sede di contenzioso con la Commissione europea, i delegati italiani hanno sostenuto la tesi che la diversa età prevista dalla normativa italiana per il raggiungimento del diritto alla pensione per gli uomini e per le donne non comporta l’obbligo per queste ultime di interrompere il rapporto lavorativo, bensì la mera facoltà discrezionale di optare per la c.d. “uscita anticipata” al raggiungimento dei 60 anni di età. (art. 16 del d.lgs n. 503/92). Di ciò sarebbe prova il fatto che le donne aventi diritto a tale opzione per aver raggiunto il sessantesimo anno di età nel 66 per cento dei casi hanno liberamente deciso di proseguire il proprio rapporto di lavoro.
Nonostante la tesi sostenuta dai delegati italiani la Commissione ha, tuttavia, ritenuto che solo l’aver previsto normativamente la facoltà del pensionamento a 60 anni a favore delle donne costituisce in ogni caso una discriminazione ai sensi dell’art. 141 Ce, procedendo quindi al differimento alla Corte di giustizia.
A seguito di questi avvenimenti il nostro legislatore, pur se con una certa riluttanza, si è adoperato per attendere alla diffida della Commissione europea con una norma che prevede il graduale innalzamento dell’età pensionabile delle donne sino al raggiungimento dei 65 anni nel 2018.
Ma la recente sentenza della Corte di giustizia europea è servita da pretesto alla commissione per dare una svolta decisiva alla querelle polverizzando la gradualità delle tappe e ha indotto il legislatore italiano ad introdurre l’emendamento per il collocamento a riposo per anzianità di servizio a 65 anni anche per le donne sin dal 2011.
Lo stesso commissario europeo alla Giustizia Viviane Reding, ha ribadito che la nuova legge sull’età pensionabile delle donne nel pubblico impiego deve entrare in vigore ed essere applicata entro il 2012, e malgrado ha riconosciuto l’oggettiva difficoltà dell’Italia ad adeguarsi, questa deve ottemperare alla decisione presa dalla Corte di Giustizia in proposito. Il cambiamento della legislazione può essere combinato con le misure di consolidamento del bilancio. La commissaria ha, inoltre, evidenziato che tutti gli stati membri devono essere trattati in modo uguale, quindi l’Italia deve adeguarsi alle pari opportunità per quanto riguarda l’età pensionabile.
Il ministro del lavoro Sacconi, dopo l’incontro con il commissario europeo alla Giustizia, ha annunciato che non c’è stato spazio per alcuna trattativa perché la commissaria Reding ha confermato la negazione della gradualità dell’applicazione del provvedimento che il legislatore italiano ha stabilito per il 2018.
Il concetto è stato rafforzato ulteriormente allorquando l’esecutivo europeo ha minacciato la necessità di rimborsare i lavoratori di sesso maschile perché costretti a un più lungo periodo di lavoro rispetto alle donne e maggiore attesa di pensione rispetto alle donne.
Il quadro normativo
L’orinario quadro normativo in materia di limiti di età pensionabile lo possiamo individuare nell’art. 3, comma 1 lettera a), della legge n. 421 del 23/10/1992 (g.u. n. 257 Suppl. Ord. del 31/10/1992) che stabilisce la graduale elevazione dei limiti di età a 60 anni per le donne e a 65 anni per gli uomini in ragione di un anno ogni due anni dal 1994.
Successivamente la pensione di vecchiaia dei dipendenti di sesso femminile della pubblica amministrazione è stata ripresa dal combinato disposto dell’art. 5, comma 1, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 503 e dalla tabella A e dall’art. 2, comma 21, della legge 8 agosto 1995, n. 335 (suppl. ord. alla g.u. n. 190 del 16/08/1995) che dispone, a decorrere dal 1 gennaio 1996, per questa categoria di lavoratori la possibilità di percepire la pensione di vecchiaia all’età di 60 anni, senza tuttavia prevedere una facoltà analoga per i dipendenti pubblici di sesso maschile che fissa l’età massima di pensione a 65 anni.
Infine, in ossequio alla pronuncia della Corte di giustizia europea il legislatore ha previsto, con l’art. 22 ter della legge n. 102 del 03 agosto 2009, per le dipendenti del pubblico impiego iscritte alle forme esclusive dell’assicurazione generale obbligatoria, di aumentare l’età minima a partire dalla quale queste maturano il diritto al pensionamento di vecchiaia.
In particolare, le disposizioni contenute nella legge individuano, per l’anno 2010, il requisito anagrafico di 61 anni per accedere al pensionamento di vecchiaia. Tale limite viene incrementato di un anno a decorrere dal primo gennaio 2012 e di un ulteriore anno per ogni biennio successivo, sino al raggiungimento dell’età di 65 anni, come riportato nella tabella seguente:
– 1 gennaio 2010 – 31 dicembre 2011 61 anni
– 1 gennaio 2012 – 31 dicembre 2013 62 anni
– 1 gennaio 2014 – 31 dicembre 2015 63 anni
– 1 gennaio 2016 – 31 dicembre 2017 64 anni
– dal 1 gennaio 2018 65 anni
Restano immutate le vigenti disposizioni per le donne magistrato, ambasciatori, professoresse universitarie che prevedono requisiti anagrafici più elevati, per il personale femminile appartenente alle forze armate, l’arma dei carabinieri, il corpo della guardia di finanza, le forze di polizia ad ordinamento civile e del corpo nazionale dei vigili del fuoco, il limite di età rimane fissato al compimento di 60 anni.
Una esenzione è stata prevista dall’art. 22 ter per le lavoratrici che entro il 31 dicembre 2009 abbiano maturato i requisiti di età e di anzianità contributiva, previsti dalla normativa vigente, prima della entrata in vigore della legge n. 102/2009, infatti queste conseguono il diritto al trattamento pensionistico di vecchiaia secondo la normativa previgente e possono chiedere all’ente di appartenenza la certificazione di tale diritto.
Il comma 2 dell’articolo 22 ter introduce anche una importante novità a decorrere dall’01 gennaio 2015 e cioè le modifiche ai requisiti di età anagrafica per l’accesso al sistema pensionistico verranno formulati in funzione dell’incremento della speranza di vita determinata dall’Istat e dall’Eurostat in riferimento ai 5 anni precedenti e sanciti con un apposito regolamento, da adottare entro il 31 dicembre 2014, su proposta del Ministro del lavoro, della salute e delle politiche sociali di concerto con il Ministro dell’economia.
Per il periodo transitorio, viene solo stabilito che, in sede di prima attuazione (cioè nel 2015 e in riferimento al quinquennio 2010-2014) l’incremento dei requisiti anagrafici non potrà in ogni caso essere superiore a 3 mesi.
Il legislatore ha previsto nell’emendamento una clausola di salvaguardia per le impiegate che maturano i requisiti di pensione entro il 31 dicembre 2011 le quali potranno accedere al pensionamento anche negli anni successivi al contrario di coloro che matureranno i requisiti nel 2012 per cui dovranno maturare i 65 anni, ovviamente la norma vuole evitare una cospicua fuoriuscita anticipata dal lavoro.
Tale normativa di fatto è un compromesso tra la nostra normativa previdenziale e quella europea emessa per salvaguardando i diritti maturati dalle dipendenti pubblici.
Gli effetti
Dal punto di vista economico l’eliminazione del graduale innalzamento dell’età pensionabile per vecchiaia delle donne del pubblico impiego se ci consente di ottemperare alla disposizioni della comunità europea di fatto non comporterà dei cospicui risparmi nell’erogazione dei trattamenti pensionistici in quanto l’età media delle donne nella pubblica amministrazione è di poco superiore ai 62 anni per raggiungere l’anzianità contributiva e dunque ciò significa che in sicuramente, in linea generale, sceglieranno il collocamento a riposo per limiti contributivi.
Si stima che l’innalzamento dell’età pensionabile per le donne della pubblica amministrazione a 65 anni coinvolgerà una platea di 25.000 donne stimata fino al 2019. Lo stesso ministro Renato Brunetta nel corso della conferenza stampa ha sottolineato che l’intervento non serve a fare cassa perché l’impatto economico sarà zero nel 2010 e nel 2011, 50 milioni nel 2012 e 150 nel 2013.
Una nota positiva, invece, è la dichiarazione del ministro per le pari opportunità Mara Carfagna con la quale ha annunciato che i risparmi che si prevede conseguire da questo emendamento confluiranno nel Fondo strategico per il Paese a sostegno dell’economia reale, istituito presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, con cui verranno finanziati interventi dedicati a politiche sociali e familiari che consentano alle lavoratrici di conciliare con meno difficoltà la vita professionale con quella familiare.
Quindi, il sacrificio che l’Europa chiede alle dipendenti statali italiane sarà compensato da un investimento nei servizi alla famiglia, nelle strutture per l’infanzia e nella non-autosufficienza.
Bisogna, inoltre, tenere in debita considerazione che sino a quando il legislatore non interverrà per modificare la vigente normativa in materia di riscatto, ricongiunzione ecc.. le impiegate pubbliche continueranno a corrispondere delle somme di denaro superiori rispetto ai colleghi uomini.
Nello specifico, allo stato quo le donne potendo accedere al pensionamento per vecchiaia all’età di 60, cioè prima degli uomini, nel caso in cui intendano riscattare o ricongiungere dei periodi assicurativi questi verranno computati con l’applicazione di indici superiori di quelli applicati per gli uomini, in quanto le prime godranno dei benefici pensionistici cinque anni prima dei colleghi.
Emanuele Soraci
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