Passi avanti dell’Italia sui diritti umani

Greco Massimo 14/01/10
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Il tema dei diritti umani e della loro garanzia è immanente nel dibattito che anima le società contemporanee. La questione è diventata d’interesse globale all’indomani della seconda guerra mondiale e ogni azione degli Organismi sovranazionali è diretta a promuovere e proteggere i diritti dell’uomo, ribadendo il divieto del ricorso alla tortura come principio fondamentale, valido non solo in tempo di pace ma anche di guerra. Nessuna circostanza, nessun contesto e nessuna questione nazionale può giustificare un simile trattamento dell’essere umano. L’uso strumentale di tale pratica per estorcere informazioni, sanzionare, costringere o intimidire qualcuno, rappresenta una chiara violazione del diritto internazionale.
            L’art. 3 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, così recita: “Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti”. “Dal 1948 la condanna unanime della tortura è ribadita puntualmente in una serie di trattati che, attraverso l’operato dei relativi meccanismi di controllo, ne hanno rafforzato il divieto e ampliato la sua portata ai trattamenti crudeli, inumani e degradanti[1]. In tale contesto, la Corte Europea dei Diritto dell’Uomo, interpretando il citato articolo 3 della Convenzione, ha sancito alcuni principi ispiratori attraverso la propria giurisprudenza: “Il divieto è assoluto e, secondo il diritto internazionale, non può esserci alcuna giustificazione per azioni contrarie alle disposizioni che proibiscono la tortura o altri trattamenti inumani[2]. Col passare degli anni la garanzia dei diritti umani ha trovato udienza in un contesto più esteso rispetto a quello del solo divieto domestico dell’uso della tortura. Si parla infatti di diritti umani anche nella lotta al terrorismo o all’immigrazione clandestina imponendo il divieto di non espellere, respingere o estradare una persona verso un altro Stato in cui vi siano seri motivi di ritenere che essa rischi di essere sottoposta alla tortura[3].  
            Se il diritto internazionale, e quello europeo in particolare, sembrano non lasciare margine in ordine alla cogenza della normativa a conferma del carattere assoluto ed inderogabile, i singoli ordinamenti nazionali, a partire da quello italiano, si presentano in ordine sparso e spesso in stato confusionale. I promotori dell’iniziativa editoriale “Diritti umani e tortura. Potenza e prepotenza dello Stato democratico” lanciano l’allarme sullo stato dell’arte in Italia. Salvo Fleres, Senatore della Repubblica (PDL) e componente della Commissione Straordinaria per la tutela e la promozione dei Diritti Umani, nella prefazione alla pubblicazione in questione, così recita: “Non sarà una classe dirigente democratica e liberale, la nostra, se non saprà scegliere il diritto della persona umana, piuttosto che l’interesse gretto di qualche categoria, anche rilevante e non solo istituzionalmente”. Lo stesso autore Paolo Garofalo, nel biasimare il Parlamento italiano per non essere stato ancora capace di approvare neanche uno dei diversi disegni di legge che istituiscono il reato di tortura, si spinge anche oltre, così esprimendosi nella parte conclusiva del suo approfondimento: “Sicuramente si può dire che l’Italia si è avviata verso un percorso tendente al razzismo”. Per il Senatore della Repubblica Pietro Marcenaro (PD), Presidente della Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei Diritti Umani, “occorrono norme e sentenze capaci di creare il miracolo dell’equilibrio di pretese concorrenti e in sé non finite, non limitate, assolute; limiti essenziali e, anzi, responsabilità attinenti proprio alla precisa funzione delle società politiche”.
            L’analisi dell’autore, ricca di cenni storici e di citazioni anche a carattere probatorio, mira a dimostrare l’incapacità dello Stato italiano a coniugare l’interesse pubblico del Paese con l’esigenza di non ledere i diritti umani. Le conclusione sono supportate da fatti ma anche da atti: il fatto che ancora oggi nonostante l’Italia abbia ratificato nel 1988 la Convenzione delle Nazioni Unite del 10 dicembre 1984 con legge n. 498, il Parlamento italiano non ha ancora inserito nel Codice penale il reato di tortura; le raccomandazioni formalizzate all’Italia dal CAT (Comitato delle Nazioni Unite contro la tortura) affinchè “rafforzi le proprie misure per garantire indagini immediate, imparziali ed efficaci in merito alle denunce di tortura e maltrattamenti commessi da agenti delle forze dell’ordine[4]; gli appelli inascoltati della magistratura penale secondo la quale “la mancanza, nel nostro sistema penale di uno specifico reato di <<tortura>> ha costretto l’ufficio del PM a circoscrivere le condotte inumane e degradanti (che avrebbero potuto senza dubbio ricomprendersi nella nozione di <<tortura>> adottata dalle parti offese transitate nella caserma della P.S. di GE-Bolzaneto durante i giorni del G8, condotte che questo Collegio ritiene pienamente provate[5].
            In sostanza per l’autore Poalo Garofalo non è in discussione la sovranità dello Stato (potenza) e l’uso legittimo dei suoi poteri a tutela dell’interesse generale, ma l’incapacità dello stesso di far valere le proprie ragioni collettive senza violare i diritti umani (prepotenza). E questo, nonostante la cogenza del principio di civiltà affermato dalla Corte di Giustizia Europea secondo cui “si misura la forza della democrazia proprio quando un pericolo incombente non induce a trattamenti disumani, dimostrando così la forza della legalità[6].
            Sic stantibus res, c’è ancora spazio per guardare il bicchiere mezzo pieno? Forse sì.
            Vediamo infatti di approfondire, sinteticamente, l’argomento cercando di capire intanto se i principi internazionali sono entrati nell’Ordinamento giuridico italiano ed attraverso quale strada. Le strade, del resto, non possono che essere due: l’ordinamento positivo e l’esistenza di un diritto vivente. L’ingresso dei principi internazionali attraverso la prima ipotesi passa dal recepimento normativo con l’approvazione di specifiche leggi ad opera del Parlamento. Se questa strada sembra quella più tortuosa visto che ad oggi non risulta istituito neanche il reato di tortura, quella in ordine alla formazione di un diritto vivente sulla materia merita invece una più attenta riflessione.
I diritti umani nel diritto vivente italiano
            Occorre preliminarmente ricordare quale sia, secondo la giurisprudenza della Corte Costituzionale, il rango e l’efficacia delle norme della CEDU (Corte Europea dei Diritti dell’Uomo) ed il ruolo, rispettivamente, dei giudici nazionali e della Corte di Strasburgo, nell’interpretazione ed applicazione della Convenzione Europea. Il recepimento dei principi sanciti dalla Corte Europea in applicazione del già citato articolo 3 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo non possono essere trascurati dal legislatore nazionale, per il rapporto sussistente tra Convenzione Europea ed ordinamento interno, secondo quanto stabilito nelle famose sentenze della Corte Costituzionale nn. 348 e 349 del 2007. Più recentemente il giudice costituzionale ha altresì affermato che “Nel caso in cui si profili un contrasto tra una norma interna ed una norma della Convenzione europea, il giudice nazionale comune deve, pertanto, procedere ad una interpretazione della prima conforme a quella convenzionale, fino a dove ciò sia consentito dal testo delle disposizioni a confronto e avvalendosi di tutti i normali strumenti di ermeneutica giuridica. Beninteso, l’apprezzamento della giurisprudenza europea consolidatasi sulla norma conferente va operato in modo da rispettare la sostanza di quella giurisprudenza secondo un criterio già adottato dal giudice comune e dalla Corte europea (Cass. 20 maggio 2009, n. 10415; Corte eur. dir. uomo 31 marzo 2009, Simaldone c. Italia, ric. N. 22644/03)[7].    
La giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo
 Se quindi l’art. 3 della Convenzione Europea trova immediato ingresso nel nostro Ordinamento formando un vero e proprio diritto vivente in materia di diritti umani, la giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo non può che rappresentare la bussola orientativa anche per il giudice nazionale. “La questione relativa all’interpretazione dell’art. 3 viene affrontata dalla Corte di Strasburgo in materia di estradizione (Soering c. Gran Bretagna, 7 luglio 1989) o espulsione (Cruz Varas c. Svezia, 20 marzo 1991; Vilvarajah c. Gran Bretagna, 30 ottobre 1991; Chahal c. Gran Bretagna, 15 novembre 1996) dello straniero, con la conseguente applicazione dell’art. 3 quando l’estradizione o l’espulsione possano mettere a rischio la dignità personale del soggetto, che potrebbe essere condannato a morte (Bader e altri c. Svezia, 22 novembre 2005) o sottoposto a trattamenti degradanti. Vi è violazione dell’art. 3 anche quando la persona che chiede asilo non potrebbe avere cure adeguate nel suo Paese di origine (D. c. Gran Bretagna) o vi sia il timore che potrebbe subire persecuzioni anche da parte di agenti non statali (Ahmed c. Austria, 17 dicembre 1996; H.L.R. c. Francia, 29 aprile 1997; N. c. Finlandia, 26 luglio 2005). Tali rischi per l’incolumità personale vanno provati dal ricorrente attraverso atti e documentazione ufficiali, ma possono anche essere acquisiti d’ufficio dalla Corte  (Said c. Olanda, 5 luglio 2005). La Corte di Strasburgo, già nel caso Ramirez Sanchez c. Francia, 4 luglio 2006, afferma che prevale l’esigenza di impedire torture o trattamenti degradanti anche rispetto al bisogno di sicurezza dello Stato ospitante. Da questo momento in poi le decisioni della Corte di Strasburgo (come, analogamente, quelle della Corte di giustizia: vedi Kadi c. Consiglio dell’Unione europea, 3 settembre 2008) si caratterizzano per la prevalenza della tutela della dignità umana anche rispetto all’esigenza di garantire l’ordine pubblico interno o internazionale. Nel caso Riad e Idiab c. Belgio 24 gennaio 2008, la Corte ritiene che vi sia violazione dell’art. 3 nel caso in cui due stranieri, che si rifiutano di tornare nei loro Paesi di origine temendo di subire violenze per motivi politici, vengano trattenuti per parecchi giorni in zona di transito aeroportuale senza possibilità di dormire, lavarsi, ricevere visite o avere contatti con l’esterno. In questa linea interpretativa si colloca la nota sentenza Saadi c. Italia 28 febbraio 2008, secondo cui un tunisino condannato in Italia per terrorismo non può essere espulso verso il suo Paese di origine, che pratica trattamenti disumani. La peculiarità della sentenza, che dà luogo a un precedente giurisprudenziale che verrà ampiamente ripreso, sta anche nelle enunciazioni generali della Corte, la quale ammette accertamenti d’ufficio per provare che la Tunisia applica tortura e trattamenti disumani. Ma, la più significativa sentenza sul punto è certo la decisione A. e altri c. Gran Bretagna 19 febbraio 2009, ove la Corte enuncia pienamente la sua preoccupazione di dover mediare tra sicurezza statale e diritti di soggetti sospettati di terrorismo internazionale. L’affermazione di principio è netta, nel senso che – secondo la Corte – si misura la forza della democrazia proprio quando un pericolo incombente non induce a trattamenti disumani, dimostrando così la forza della legalità. Nella citata sentenza, inoltre, la Corte approfondisce la differenza tra tortura, trattamento disumano e trattamento degradante. Vi è trattamento inumano o degradante quando la sofferenza e l’umiliazione vanno oltre i limiti della normale limitazione personale connessa naturalmente ad ogni pena. Per tortura, invece, deve intendersi quel trattamento particolarmente cattivo, che provoca grave e cruenta sofferenza, ben maggiore di quella del trattamento inumano o degradante[8].
 
La decisione della Corte di Cassazione
            La conferma che nell’Ordinamento italiano si sia formato un diritto vivente in materia di diritti umani arriva dalla recentissima ordinanza della Corte di Cassazione del 9 settembre 2009 n. 19393. Le Sezioni Unite stabiliscono infatti che spetta al giudice ordinario la giurisdizione allorquando uno straniero chieda di ottenere lo status di rifugiato o il diritto di asilo politico. La questione ha riguardato l’interpretazione dell’art. 5 e dell’art. 19 del D.Lgs n. 286/1998, ai sensi del quale si può rifiutare o revocare il permesso di soggiorno, “salvo che ricorrono seri motivi, in particolare di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano”, ovvero vietare l’espulsione o il respingimento “verso uno Stato in cui lo straniero possa essere oggetto di persecuzione per motivi di razza, di sesso, di lingua, di cittadinanza, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali o sociali, ovvero possa rischiare di essere rinviato verso un altro Stato nel quale non sia protetto dalla persecuzione”.
            Le Sezioni Unite, affrontando il discrimen in ordine alla tipologia della posizione giuridica del ricorrente per individuarne la giurisdizione, non esitano ad affermare che “la situazione giuridica dello straniero che richieda il rilascio di permesso per ragioni umanitarie ha consistenza di diritto soggettivo, da annoverare tra i diritti umani fondamentali con la conseguenza che la garanzia apprestata dall’art. 2 Cost., esclude che dette situazioni possano essere degradate a interessi legittimi per effetto di valutazioni discrezionali affidate al potere amministrativo, al quale può essere affidata solo l’accertamento dei presupposti di fatto che legittimano la protezione umanitaria, nell’esercizio di una mera discrezionalità tecnica, essendo il bilanciamento degli interessi e delle situazioni costituzionalmente tutelate riservate al legislatore”. In pratica la Cassazione fa proprie le risultanze fornite dalla Corte di Strasburgo, che nega la “possibilità di bilanciare il diritto dello straniero con altri interessi, pur meritevoli di tutela, configgenti e quindi senza che sia possibile che tale obbligo subisca deroghe, sia pure per esigenza dello Stato”.
            Pertanto, ed a partire da questa importante ed autorevole pronuncia della Corte di Cassazione, anche nell’Ordinamento italiano “I diritti umani fondamentali non possono essere oggetto di ponderazione valutativa con nessun altro interesse pubblico, fosse anche quello della sicurezza degli Stati nazionali, cosicchè nessun margine di discrezionalità spetta alle pubbliche amministrazioni, che devono valutare l’istanza di asilo da parte dello straniero[9].
            L’incompiuto tentativo del giudice ordinario nazionale di elaborare una categoria di diritti incomprimibili non suscettibili di degradazione viene ora portato a compimento, perché non c’è potere (né prepotenza) che resista alla tutela dei diritti umani[10], diritti che preesistono al potere amministrativo ed in quanto tali non comparabili con altri interessi pubblici pur rilevanti.
 
 
Massimo Greco
 


[1] Carmelo Danisi, “Divieto e definizione di tortura nella normativa internazionale dei diritti dell’uomo”, Diritto.it, 29/10/2009.
[2] Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, 10 gennaio 1978, Irlanda c. Regno Unito.
[3] Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, 21 novembre 2001, Al-Adsani c. Regno Unito, causa n. 35763/97.
[4] CAT, Relazione del 18 maggio 2008, www.2.ohchr.org/english/bodies/cat.
[5] Tribunale di Genova, Sent. n. D. 3119/08 del 14 luglio 2008.
[6] Corte di Giustizia Europea, causa A. e altri c. Gran Bretagna, 19 febbraio 2009.
[7] Corte Cost. sent. 26/11/2009 n. 311.
[8] Francesco Manganaro, “I diritti umani sono diritti soggettivi non limitabili dal potere amministrativo”, LexItalia.it, n. 10/2009.
[9] Ibidem.
[10] Per un approfondimento: F. Manganaro, “Il potere amministrativo nella giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo”, relazione alle Giornate di studio sulla giustizia amministrativa dedicate ad E. Cannada Bartoli.

Greco Massimo

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