Orientamenti giurisprudenziali in materia di colloqui dei detenuti (Parte prima)

Redazione 15/09/01
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inserito in Diritto&Diritti nel settembre 2004
di Fabio Fiorentin
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1.Profili generali.

La disciplina dei colloqui dei detenuti trova la sua fonte normativa negli artt.18[1] e 18 bis[2] della L.26.7.1975, n.354, nonché nell’art.37,D.P.R. 30.6.2000, n.230[3].
Numerose sono le decisioni della Suprema Corte in tema di colloqui dei detenuti; la Cassazione ha,in particolare, reiteratamente affrontato la delicata questione circa la natura giuridica dell’esercizio delle competenze attribuite all’amministrazione penitenziaria nella materia de qua ed alla correlata querelle sorta in ordine ai poteri ed all’ampiezza del sindacato esercitabile dalla magistratura di sorveglianza sui provvedimenti emessi dall’autorità amministrativa nella concreta gestione della disciplina dei colloqui.
La giurisprudenza della Cassazione riteneva, inizialmente, che la disciplina dei colloqui dei detenuti ed internati rientrasse nell’alveo delle competenze di tipo amministrativo dell’amministrazione penitenziaria, trattandosi di normativa destinata a regolare profili pratici della vita all’interno degli istituti penitenziari,regolando le modalità esecutive dell’espiazione della pena; e pertanto non avesse immediata incidenza né sulla libertà personale dei reclusi, né sull’esercizio dei diritti fondamentali dei detenuti stessi.
Ne era fatta derivare la conclusione che l’ordinamento non prevedesse,alcuna forma di tutela giurisdizionale immediata avverso il provvedimento amministrativo, emesso dall’amministrazione penitenziaria,che si assumesse lesivo delle posizioni soggettive dei detenuti eventualmente pregiudicate.
Esso pertanto, per il principio di tassatività delle impugnazioni, non è impugnabile con i mezzi previsti dal sistema processuale penale, ma con quelli dell’ordinamento amministrativo (Cass.,IV,10.5.2000,n.2222,,Bresciani;CEDconforme:Cass.,VI,17.10.1994,n.
1820,CED,Masia;Cass.,VI,.21.2.1995,n.4921,Curinga,CED)
Lo stesso principio era ritenuto applicabile,secondo tale primo orientamento giurisprudenziale, anche in rapporto a provvedimenti di competenza dell’autorità giudiziaria,del pari ritenuti non impugnabili.
I provvedimenti in materia di permessi di colloquio ai detenuti, anche quando -trattandosi di soggetti imputati sottoposti a custodia cautelare- debbano essere adottati dall’autorità giudiziaria, ai sensi dell’art.18,comma 8,dell’O.P.- conservano infatti,secondo la giurisprudenza inizialmente formatasi, natura amministrativa e non sono comunque assimilabili a provvedimenti inerenti alla libertà personale.
Avverso di essi non era, pertanto, ritenuto esperibile alcuno dei mezzi di impugnazione previsti dal codice di procedura penale, ivi compreso il ricorso per cassazione (Cass.,I,05.10.1993,n.1651,Caminelli,CED;conforme:Cass.,I,23.2.1993,n.4892,Pio,CED).
Tuttavia,un revirement della Cassazione ha, successivamente,fatto prevalere la tesi opposta:
“i reclami contro i provvedimenti dell’amministrazione penitenziaria che incidono sui diritti dei detenuti, tra cui quelli relativi ai colloqui e alle conversazioni telefoniche, danno origine a procedimenti che si concludono con decisioni del magistrato di sorveglianza munite della forma e del contenuto della giurisdizione. ne consegue che in mancanza di forme procedurali speciali relative alla materia dei reclami contro gli atti dell’amministrazione lesivi dei diritti dei detenuti, l’attuazione della tutela giurisdizionale deve necessariamente realizzarsi attraverso l’ordinario modello procedimentale delineato dall’art. 678 cod. proc. pen., che attraverso il rinvio all’art. 666, comma 6, dello stesso codice, rende ricorribili per cassazione le ordinanze emesse dalla magistratura di sorveglianza”(Cass.,I,15.5.2002,n.22573,imp. p.m. in proc.Valenti,CED;conforme Cass.,I, 19.2.2002,n.654,Di Liberto,RCP,2002,231).
Sulla giustiziabilità dei provvedimenti emessi dall’autorità penitenziaria in materia di colloqui dei detenuti è recentemente intervenuta una importante pronuncia delle Sezioni Unite della Cassazione, la quale ha stabilito che i provvedimenti dell’amministrazione penitenziaria in materia di colloqui visivi e telefonici dei detenuti e degli internati, in quanto incidenti su diritti soggettivi, sono sindacabili in sede giurisdizionale mediante reclamo al magistrato di sorveglianza che decide, con ordinanza ricorribile per cassazione, secondo la procedura indicata nell’art. 14ter della legge 26.7.1975, n. 354 (Sez.U. 26.2.2003,n.25079,Gianni,GP,II,282-300):
“Rilevano queste Sezioni Unite che,se un’interpretazione secundum Constitutionem della normativa ordinaria impone di rinvenire un mezzo di tutela designato dai caratteri della giurisdizione contro la lesione delle posizioni soggettive del detenuto, secondo le progressive sequenze ermeneutiche indicate dalla sentenza n.26 del 1999, un simile mezzo non può che ricondursi – proprio per le esigenze di speditezza e semplificazione che necessariamente devono contrassegnarlo,considerando le posizioni soggettive fatte valere – a quelle di cui agli artt.14 ter e 69 dell’ordinamento penitenziario,che prevede la procedura del reclamo al magistrato di sorveglianza nelle materie indicate dalla prima di tali disposizioni(Sez.Un., 26.2.2003,n.25079,Gianni,in “La Giustizia Penale”,2004II,282-300).

2. Le novità introdotte dalla sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione n. 25079/03.

La scelta di privilegiare il rito di cui all’art.14 ter O.P. discende,dunque,dalla considerazione dell’opportunità di garantire al ricorrente uno strumento di tutela agile e veloce delle proprie istanze, la cui salvaguardia appare,secondo le Sezioni Unite, potenzialmente compromessa dall’adozione del più complesso rito camerale ordinario:”In effetti,il ricorso all’art.666 C.p.p. che prevede il termine di dieci giorni per l’avviso alle parti e ai difensori,la partecipazione necessaria all’udienza del difensore e del pubblico ministero,la possibilità di depositare memorie fino a cinque giorni prima dell’udienza,il diritto dell’interessato che ne fa richiesta di essere sentito personalmente ,l’applicazione per il ricorso per cassazione dei termini di cui all’art.585 C.p.p.,appare subito un modello esorbitante la necessaria semplificazione della procedura,da attuarsi attraverso il pronto intervento del magistrato di sorveglianza così da omettere,almeno in parte, gli indugi della seriazione generale prevista dal codice di procedura penale.Gli artt. 14 ter,69,71 e seguenti dell’ordinamento penitenziario prevedono il termine di cinque giorni per l’avviso al pubblico ministero, all’interessato e al difensore,la partecipazione non necessaria del difensore e del pubblico ministero;la facoltà dell’interessato di presentare memorie;il termine di dieci giorni per proporre reclamo;la possibilità di proporre ricorso per cassazione entro dieci giorni dalla comunicazione del provvedimento”.[4]
L’applicazione di un tale modello processuale,secondo la Suprema Corte,”consente,ancora,di incentrare nel magistrato di sorveglianza la cognizione in subiecta materia ,secondo una logica che trova fondamento proprio nel disposto del più volte ricordato art.69,comma 5 della legge n.354 del 1975”[5].
La dottrina, a fronte alla problematica della scelta della procedura da seguire a fronte del vuoto venutosi a creare dopo la sentenza della Corte costituzionale n.26/1999, mette opportunamente in guardia dal pericolo che – senza l’intervento del legislatore – i magistrati di sorveglianza possano optare per l’attivazione di procedure del tutto diverse tra quelle astrattamente applicabili (es.: procedure di cui all’art.14 ter O.P.; art.69 O.P.; art.666,678 c.p.p.).
Nel commentare una decisione magistratuale che aveva optato per l’adozione del rito di cui agli artt.666,678 c.p.p., una dottrina osserva:“La scelta è dunque caduta sul rito che – tra quelli disciplinati dall’ordinamento penitenziario –e considerati dalla stessa Corte costituzionale nella sentenza n.26 del 1999 – presenta il più alto tasso di giurisdizionalità:infatti, riflette i principi costituzionali espressi negli artt.13,comma 2 e 25 comma 2 Cost., che sanciscono una riserva di giurisdizione in ordine ai provvedimenti sulla libertà personale, assicura adeguato spazio al diritto di difesa, richiede obbligo di motivazione del provvedimento conclusivo e ne prevede la ricorribilità in cassazione per vizi di legittimità”.[6]
La stessa dottrina si sofferma quindi sull’impatto che, sul diritto vivente, ha la decisione confermativa del nuovo corso giurisprudenziale espresso dalle Sezioni Unite della Cassazione:“La soluzione accolta nell’ordinanza in esame è stata condivisa anche dalla Cassazione che – pronunciandosi sul ricorso avverso una decisione di disapplicazione degli artt.37 e 38 reg. di analogo contenuto rispetto a quella in commento – ha sottolineato come “correttamente” il magistrato di sorveglianza abbia adottato le forme del procedimento di sorveglianza di cui agli artt.666 e 678 c.p.p., ritenendole “pienamente idonee allo scopo” di offrire una tutela giurisdizionale nel confronti degli atti dell’Amministrazione penitenziaria lesivi di diritti di soggetti privati della libertà personale(Cass. 19.2.2002, p.m. in proc.Castellana,RCP,2002,231) .La pronuncia della Suprema Corte è assai rilevante perché dalla “approvazione” circa il rito adottato dal magistrato di sorveglianza si deduce implicitamente (ma non troppo) che a tale giudice viene riconosciuta la competenza a conoscere delle violazioni subite dai detenuti nelle loro posizioni soggettive e dunque che…essi sono “titolari di posizioni giuridiche che per la loro stretta inerenza alla persona umana sono qualificabili come diritti soggettivi”[7].
E conclude:”sembra dunque sgomberato il campo da dubbi residui circa la titolarità in capo ai detenuti di diritti soggettivi e la conseguente attribuzione al giudice ordinario della competenza a conoscere delle eventuali lesioni di tali diritti poste in essere…mediante atti della Amministrazione penitenziaria .Legittimata dunque a conoscere di atti e comportamenti lesivi provenienti dall’Amministrazione penitenziaria è la magistratura di sorveglianza, alla quale la Corte costituzionale riconosce “una tendenzialmente piena funzione di garanzia dei diritti dei detenuti e degli internati”e, specificamente il magistrato di sorveglianza quale giudice “più vicino”(Della Casa,1999,859)”[8]
Tuttavia, la delicatezza della scelta del modello processuale da utilizzare, tra quelli presenti nell’ordinamento, induce a ritenere auspicabile l’intervento del legislatore, per assicurare l’uniforme applicazione del diritto.
Avocando a sé la definitiva indicazione del rito processuale applicabile, scongiurerà in tal modo i rischi di un’”anarchia processuale” nascente dalle diverse – e legittime – opzioni interpretative adottate dai singoli magistrati di sorveglianza.
Va, infine, ricordato che il colloquio con il proprio difensore è stato ritenuto dalla Corte costituzionale un diritto soggettivo assoluto, non comprimibile per effetto della detenzione:“Il diritto di conferire con il proprio difensore non può essere compresso o condizionato dallo stato di detenzione,se non nei limiti eventualmente disposti dalla legge a tutela di altri interessi costituzionalmente garantiti (ad esempio attraverso temporanee,limitate sospensioni dell’esercizio del diritto,come quella prevista dall’art.104, comma 3, cod.proc.pen.:cfr.sentenza n.216 del 1996),e salva evidentemente la disciplina delle modalità di esercizio del diritto, disposte in funzione delle altre esigenze connesse allo stato di detenzione medesimo:modalità che,peraltro,non possono in alcun caso trasformare il diritto in una situazione rimessa all’apprezzamento dell’autorità amministrativa,e quindi soggetta ad una vera e propria autorizzazione discrezionale”.[9]
L’affermazione di tale principio ha comportato la declaratoria di incostituzionalità dell’art.18 della l.26.7.1975, n.354, nella parte in cui non prevede che il detenuto condannato in via definitiva ha diritto di conferire con il difensore fin dall’inizio dell’esecuzione della pena (Corte cost. n.212/1997).
Note:
[1] Il testo dell’art.18 L.26.7.75,n.354, commi 1-3, è il seguente:”(Colloqui, corrispondenza e informazione). I detenuti e gli internati sono ammessi ad avere colloqui e corrispondenza con i congiunti e con altre persone, anche al fine di compiere atti giuridici. I colloqui si svolgono in appositi locali sotto il controllo a vista e non auditivo del personale di custodia.Particolare favore viene accordato ai colloqui con i familiari”.

[2] Il testo dell’art.18 bis,comma 1, L. 26.7.75,n.354,è il seguente “ (Colloqui a fini investigativi). Il personale della Direzione investigativa antimafia di cui all’articolo 3 del decreto legge 29 ottobre 1991, n. 345, convertito, con modificazioni, dalla L. 30 dicembre 1991, n. 410, e dei servizi centrali e interprovinciali di cui all’articolo 12 del decreto legge 13 maggio 1991, n. 152, convertito, con modificazioni, dalla legge 12 luglio 1991, n. 203, nonché gli ufficiali di polizia giudiziaria designati dai responsabili, a livello centrale, della predetta Direzione e dei predetti servizi, hanno facoltà di visitare gli istituti penitenziari e possono essere autorizzati, a norma del comma 2 del presente articolo, ad avere colloqui personali con detenuti e internati, al fine di acquisire informazioni utili per la prevenzione e repressione dei delitti di criminalità organizzata”.
[3]Il testo dell’art.37,commi 1-8,DPR 30.6.2000,n.230,è il seguente:”(Colloqui). 1. I colloqui dei condannati, degli internati e quelli degli imputati dopo la pronuncia della sentenza di primo grado sono autorizzati dal direttore dell’istituto. I colloqui con persone diverse dai congiunti e dai conviventi sono autorizzati quando ricorrono ragionevoli motivi.2. Per i colloqui con gli imputati fino alla pronuncia della sentenza di primo grado, i richiedenti debbono presentare il permesso rilasciato dall’autorità giudiziaria che procede.3. Le persone ammesse al colloquio sono identificate e, inoltre, sottoposte a controllo, con le modalità previste dal regolamento interno, al fine di garantire che non siano introdotti nell’istituto strumenti pericolosi o altri oggetti non ammessi.4. Nel corso del colloquio deve essere mantenuto un comportamento corretto e tale non recare disturbo ad altri. Il personale preposto al controllo sospende dal colloquio le persone che tengono comportamento scorretto o molesto, riferendone al direttore, il quale decide sulla esclusione.5.I colloqui avvengono in locali interni senza mezzi divisori o in spazi all’aperto a ciò destinati. Quando sussistono ragioni sanitarie o di sicurezza, i colloqui avvengono in locali interni comuni muniti di mezzi divisori. La direzione può consentire che, per speciali motivi, il colloquio si svolga in locale distinto. In ogni caso, i colloqui si svolgono sotto il controllo a vista del personale del Corpo di polizia penitenziaria.6. Appositi locali sono destinati ai colloqui dei detenuti con i loro difensori.7.Per i detenuti e gli internati infermi i colloqui possono avere luogo nell’infermeria.8.I detenuti e gli internati usufruiscono di sei colloqui al mese. Quando si tratta di detenuti o internati per uno dei delitti previsti dal primo periodo del primo comma dell’articolo 4 bis della legge e per i quali si applichi il divieto di benefici ivi previsto, il numero di colloqui non può essere superiore a quattro al mese.
[4] Cass. Sez.Un., 26.2.2003,n.25079,Gianni,in “La Giustizia Penale,2004,II,282-300.
[5] V.nota prec. .
[6] CESARIS L.,2002, Nota a ord.Mag.Sorv.Agrigento 8.11.2001, in “RassegnaPenitenziaria Criminologica”, p.237.
[7] v.nota prec.
[8] V.nota prec.
[9] Corte cost., 19.6.1997, n.212,G.U. 9.7.1997,I Serie Speciale,n.28).

Redazione

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