Nullita’ o inefficacia della donazione di cosa altrui: la cassazione richiede l’intervento delle sezioni unite

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Sommario:  1.- i quesiti posti all’attenzione delle sezioni unite.- 2. il caso. – 3. la questione. 4.- l’orientamento maggioritario. 5.- l’orientamento minoritario. 6.- le motivazioni fondanti l’ordinanza remittente

  1. 1.     i quesiti posti all’attenzione delle sezioni unite

La Suprema Corte di Cassazione, con ordinanza del 23 maggio 2014 n. 11545, ha rimesso al Primo Presidente due questioni ritenute di massima di particolare importanza.

La prima pone il quesito attinente alla possibilità che il divieto di donazione di beni futuri di cui all’art. 771 cod.civ. possa essere legittimamente esteso anche ai beni di cui il donante sia titolare in comunione ordinaria.

La seconda, invece, concerne la equiparabilità quoad effecta della categoria dei ‘beni futuri’ di cui all’art. 771 citato con quella di ‘beni altrui’.

  1. 2.     Il caso

Siffatti interrogativi traggono origine da un caso peculiare portato all’attenzione degli Ermellini.

Tre fratelli sono comproprietari pro indiviso di un immobile per un terzo ciascuno. Deceduto uno dei tre comunisti, i superstiti gli succedono per legge, comprese le sorelle del de cuius, con una quota pari ad un quarto.

Uno dei tre fratelli superstiti, sommando idealmente le due provenienze (1/3 inter vivos e ¼ di 1/3 jure hereditario), decideva di disporre per donazione di tale quota.

Tuttavia, mentre la prima di siffatte provenienze, vale a dire 1/3, risultava di cosa propria; la seconda, cioè ¼ di 1/3, ricadeva sul compendio ereditario ancora indiviso.

È solo con la divisione, infatti, che le quote dei coeredi vengono porzionate e individualizzate su un determinato bene ereditario, sicché prima di essa il donante-coerede vanta sì di una partecipazione all’eredità, ma non su questo o quell’altro bene.

La donazione de qua, pertanto, ricadeva in parte su cosa propria (1/3) e in parte su cosa altrui (1/4 di 1/3).

  1. 3.     la questione

 A fronte di siffatta situazione si sono riproposti i summenzionati interrogativi, i quali hanno da sempre visto contrapporsi pratici e teorici del diritto.

Occorre preliminarmente precisare come con la donazione di bene altrui sia concepito il trasferimento di situazioni giuridiche che non sono comprese nel patrimonio giuridico del donante.

In ipotesi siffatte, il soggetto dispone di diritti dei quali non è titolare, compiendo un negozio di disposizione a non domino.

L’atto sembrerebbe sfuggire ad una esatta qualificazione giuridica.

Controverso è, infatti, se il negozio sia sussumibile nella donazione di beni futuri, colpita da nullità ai sensi dell’art. 771 cod.civ. ovvero se refluisca in altra fattispecie produttiva di effetti immediatamente obbligatori.

Il dubbio riguarda l’esatta estensione del divieto de quo e, in particolare, se la locuzione ‘beni non presenti del donante’ designi soltanto beni futuri, vale a dire non ancora esistenti in rerum natura, ovvero anche quelli che, quantunque venuti in essere, non siano presenti nel patrimonio di chi dona al momento in cui è concluso il negozio.

A siffatta dicotomia di ordine logico corrispondono due orientamenti contrapposti: quello secondo il quale il divieto di donare ex art. 771 citato riguarda anche la donazione di beni altrui, poiché non esistenti sono tutti i beni (futuri o alieni) che non appartengono al donante; e quello per cui la donazione di cosa aliena integra una ipotesi diversa, non riconducibile alla fattispecie citata, la quale, pertanto, ricomprenderebbe il solo caso del negozio sui beni non presenti in rerum natura[1].

L’adesione all’una o all’altra delle tesi prospettate non costituisce un mero esercizio teorico, ma trae con sé un differente regime giuridico.

Infatti, in base alla prima opzione interpretativa, la donazione di bene altrui sarebbe affetta da radicale invalidità; essa, al pari della donazione di cosa futura, sarebbe improduttiva di effetti, poiché l’art. 771 espressamente prevede che nel caso in cui la donazione abbia ad oggetto beni futuri, sia nulla rispetto a questi[2].

La tesi opposta secondo la quale il divieto di donare riguarda soltanto i beni futuri implica, invece, che la donazione di cosa altrui sia un negozio valido, ma momentaneamente inidoneo a produrre l’effetto traslativo[3]. Al pari della vendita di cosa altrui ex art. 1478, comma 1, cod.civ., l’atto determinerebbe la nascita dell’obbligo di procurare l’acquisto al donatario. La donazione di cosa altrui non sarebbe, dunque, riconducibile nell’ambito applicativo dell’art. 771 citato, ma sarebbe, bensì, un negozio ad efficacia traslativa differita, idoneo a trasferire il diritto quando il donante diverrà proprietario.

  1. 4.     L’orientamento maggioritario

Secondo la prima delle teorie prospettate, seguita – peraltro – dai giudici di merito nel caso oggetto dell’ordinanza in commento, una donazione siffatta deve ritenersi nulla, stante la mancanza di legittimazione traslativa del donante.

La fattispecie de qua ricadrebbe, infatti, nell’alveo dell’art. 771 citato in ragione di una lettura estensiva della locuzione ‘beni non presenti’.

Tale interpretazione rinviene il proprio fondamento nel concetto di ‘futuritas[4]. Quest’ultima, infatti, può essere intesa in una duplice accezione: cosa futura in senso oggettivo, nel caso in cui la res non sia ancora venuta in essere, vale a dire non esista ancora in rerum natura, e cosa futura in senso soggettivo, intendendosi tale il bene futuro esistente sì in rerum natura, ma non presente nel patrimonio del donante.

Nella prima delle accezioni descritte, l’alienità dipende da un dato naturalistico, dalla obiettiva inesistenza della cosa; mentre nella seconda accezione la prefata alienità è dovuta dall’essere i beni nel patrimonio di un altro soggetto.

Ne deriva come i beni altrui possano, quindi, considerarsi futuri in base alla seconda delle accezioni descritte, in quanto suscettibili d’acquisto da parte del donante presso il terzo, accedendo così al suo patrimonio.

Invero, l’art. 771 cod.civ. del 1942, in linea con l’art. 1064 del codice del 1865, pone con evidenza il principio secondo cui oggetto di donazione possono essere solo i beni presenti del donante: ne consegue non solo la nullità della donazione avente ad oggetto beni esclusivamente futuri, ma anche che, in caso di donazione che comprenda beni tanto presenti quanto futuri, questa sia valida solo relativamente ai primi.

La più risalente ed autorevole dottrina, non contraddetta neanche dalla giurisprudenza avversa, riconosce nel divieto sancito dall’art. 771 citato una ragione di politica legislativa, che si riconduce alle direttive fondamentali seguite nella disciplina della donazione e che giustifica il divieto di donazione di cosa futura.

Tale ratio consiste nell’intento di contenere la prodigalità del donante.

La stessa Relazione di accompagnamento al codice civile definisce la ricordata disposizione come ‘una remora alla prodigalità’, vale a dire uno strumento di tutela per lo stesso donante affinché egli non ecceda negli atti di liberalità, donando beni non (ancora) esistenti nel proprio patrimonio, il cui valore attuale risulta di difficile apprezzamento.

Il limite consentito alla prodigalità del donante è, pertanto, quello della appartenenza attuale dei beni donati al donante medesimo.

 Spiega tale autorevole dottrina che nel campo dei rapporti onerosi, per le necessità stesse della vita degli affari, le contrattazioni sui beni futuri rispondono alla funzione di alimentare il commercio, di provvedere al domani, di assicurare il ritmo della produzione.

 Questa esigenza non si presenta rispetto alla donazione, operando invece in senso contrario la necessità di controllare e circoscrivere la prodigalità. Sul piano tecnico-legislativo, questa concezione si traduce in un limite posto, per ragioni di ordine pubblico, al potere di impoverimento proprio, per arricchire altri, che l’ordinamento pur astrattamente riconosce a ciascun soggetto.

Si osserva che se, da un lato, la legge prevede negozi su beni futuri  e su beni altrui per propiziare la contrattazione ed assicurare la produzione; dall’altro, essa mostra un atteggiamento diffidente verso la donazione. In ragione di una precisa scelta politico-legislativa, la tutela del donante prevale sulle esigenze proprie degli scambi, sicché il trasferimento per donazione si restringe entro i limiti del patrimonio attuale[5].

La stessa lettera dell’art. 771 citato appare inequivoca sul punto: recita l’incipit che ‘la donazione non può comprendere che beni presenti del donante’, ovverosia beni esistenti nel patrimonio del donante, senza ulteriori precisazioni sulla oggettività o soggettività della accezione da attribuire all’espressione.

L’art. 769 cod.civ., inoltre, nel definire il contratto di donazione esprime la necessità che il donante disponga di ‘un suo diritto’.

Invero, il codice civile del 1865 pareva essere più esplicito in tal senso: l’art. 1050, infatti, qualificava la donazione come il contratto col quale il donante ‘si spoglia attualmente della cosa donata’, mettendo in rilievo la regola della necessaria attualità dello spoglio, tratto caratterizzante della donazione con effetti reali immediati, il quale implica, ancora una volta, il requisito della appartenenza del diritto al patrimonio del donante nel momento in cui ne dispone.

Ne deriva che il negozio su res aliena, al pari della donazione di beni futuri, è idoneo a depauperare il donante oltre le sue risorse attuali: la donazione di cosa altrui è, dunque, vietata in forza del divieto di cui all’art. 771 citato, il quale è volto ad evitare uno spoglio extra patrimonium.

A questo tipo di negozio, ad avviso della riferita tesi, è precluso, allora, ogni effetto e, in quanto tale, risulta privo di ogni efficacia, reale od obbligatoria.

 

  1. 5.     L’orientamento minoritario

Alla tesi appena illustrata, si è contrapposto l’orientamento interpretativo espresso da altra parte della dottrina, secondo cui la donatio a non domino integra una fattispecie diversa dall’art. 771 citato. Quest’ultima, infatti, prenderebbe in considerazione esclusivamente la futuritas in senso oggettivo, vale a dire i beni non ancora esistenti in rerum natura.

Pertanto, la donazione di cosa altrui sarebbe un negozio non già nullo, ma, semplicemente, inidoneo a produrre l’effetto traslativo di cui all’art. 1376 cod.civ. sino a quando il donante non avrà acquistato la cosa.

Ne consegue come la fattispecie in esame venga ricostruita in termini di donazione obbligatoria, il cui oggetto, dunque, sarebbe il sorgere, in capo al donante, dell’obbligo di procurare la cosa al donatario. Si precisa, peraltro, che in tanto sarà valida la donazione de qua, in quanto il donante si sia obbligato a trasferire una cosa appartenente ad un terzo solo ed esclusivamente se vi sia piena consapevolezza dell’alienità della cosa stessa. Diversamente, qualora le parti abbiano inteso trasferire la proprietà con efficacia reale, la donazione sarà affetta da nullità[6].

La tesi muove direttamente dalla seconda parte dell’art. 769 citato, ove è previsto che il donante arricchisca l’altra parte trasferendo un diritto o ‘assumendo verso la stessa una obbligazione.

Pertanto, accanto alla donazione traslativa di un diritto, si collocherebbe il negozio gratuito con obbligazione in favore del donatario, produttivo di un diritto personale che entra nel patrimonio del beneficiario in assenza di corrispettivo.

Si osserva, inoltre, come l’art. 771 abbia natura eccezionale e, per l’effetto, non possa applicarsi in via analogica alla donatio a non domino, stante il divieto di applicazione analogica sancito dall’art. 14 disp.prel. c.c.

Siffatta tesi non ha trovato seguito in giurisprudenza, la quale, in una sola occasione[7], ha affermato che la nullità di tale donazione ex art. 771 citato potrebbe essere affermata solo ove l’interpretazione di tale ultima norma consentisse di considerare beni futuri i beni non ancora del donante, ma esistenti in natura ed appartenenti ad altri, ma non per via analogica, in considerazione della natura eccezionale della norma in questione.

Siffatta isolata pronuncia non argomenta, tuttavia, sulla base del dato letterale dell’art. 769 citato e sostiene che, non potendo trovare applicazione l’art. 771, in ragione dell’asserita natura eccezionale, la disciplina della donazione di bene altrui andrebbe individuata attraverso un criterio logico-sistematico: come la vendita di cosa altrui, il negozio di liberalità che trasferisce una cosa appartenente ad altri gode di efficacia obbligatoria.

Applicando analogicamente l’art. 1478 cod.civ., la donazione di cosa altrui non trasmette immediatamente il diritto, ma genera l’obbligo di procurare l’acquisto al donatario, il quale diverrà titolare del diritto non appena il donante avrà acquistato la cosa[8].

 

  1. 6.     Le motivazioni fondanti l’ordinanza remittente

 

In disparte la questione relativa all’idoneità della donazione di cosa altrui a costituire titolo astrattamente idoneo ai fini della usucapione abbreviata,  relativamente alla quale la giurisprudenza unanime da sempre risponde affermativamente, l’ordinanza invoca l’intervento delle Sezioni Unite sul quesito attinente alla validità ex se di un negozio siffatto, in quanto questione di particolare importanza ex art. 374, comma 2, cod.proc.civ.

Le Sezioni Unite sono chiamate a dirimere la questione  relativa alla validità o efficacia della donazione in sé, prescindendo dal profilo relativo alla idoneità ad usucapionem.

Come premesso, la donazione, nel caso portato all’attenzione della Suprema Corte, deve ritenersi valida solo con riferimento alla quota ricadente in comunione ordinaria.

In base al disposto dell’art. 1103 cod.civ., infatti, ciascun partecipante alla comunione può disporre del proprio diritto e cedere ad altri il godimento nei limiti della sua quota, la quale, pertanto, può circolare liberamente, in quanto componente attuale del patrimonio del donante e,quindi, cosa propria.

La questione si pone, tuttavia, soltanto in relazione alla quota ricadente nella comunione ereditaria, ancora indivisa e non porzionata ex art. 727 cod.civ.

In ragione di tale elemento peculiare i primi commentatori, infatti, non hanno mancato di rilevare come, nel caso sottoposto all’attenzione della Suprema Corte,  il donante abbia disposto non già della quota altrui, ma della propria quota, seppur non ancora individuata a seguito alla relativa divisione.

Pertanto, è  in relazione al caso prospettato che le Sezioni Unite sono chiamate a verificare se l’art. 771 possa assolvere alla prefata ratio di contenimento della prodigalità del donante e se, nel caso di specie, il bene debba ritenersi realmente altrui o, piuttosto, proprio del donante.

Giuseppa Zampino

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