Nota a Cassazione, sez, VI, n. 12279/08 in tema di calunnia

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Il problema dell’esatta individuazione dell’elemento psicologico che sottende al delitto di calunnia, regolato dall’art. 368 c.p.[1] viene affrontato, nella sentenza in commento, dalla Suprema Corte, la quale pone, prioritariamente a qualsiasi altra valutazione, l’accento sulla circostanza che due appaiono i requisiti essenziali, che devono rinvenirsi, nella ricostruzione della condotta fattuale, per, indi, potere affermare il perfezionamento della fattispecie.
Da un lato, infatti, si evidenzia la cd. volontà di accusare qualcuno di avere commesso un fatto che possa, anche solo astrattamente, suscitare un’iniziativa penale.
Dall’altro deve essere indiscutibilmente dimostrata la cd. sussistenza della coscienza e consapevolezza, in capo all’accusante, dell’innocenza dell’accusato rispetto al fatto, alla condotta od all’evento attribuitogli.
Si tratta di due elementi del tutto autonomi tra loro, ancorchè necessariamente complementari, nel senso che l’assenza di uno dei due determina l’inesistenza del fatto.
Il reato di calunnia, previsto dall’art. 368 c.p. consiste, dunque, per definizione in una condotta che si rivolge negativamente e crea una situazione di attentato contro l’amministrazione della giustizia e, in special modo, contro la vera e propria attività giudiziaria.
In buona sostanza, in primo luogo, l’incolpazione che un soggetto muova nei confronti di altra persona (o di altre persone) deve essere contenuta e trasfusa in un atto cd. Tipico.
Questo deve risultare formalmente idoneo a suscitare l’intervento dell’Autorità giudiziaria, quale ad esempio appare una denunzia di reato.
Le modalità sopradescritte integrano gli estremi dell’ipotesi di calunnia cd. formale o verbale o diretta[2].
Sul delicato punto dell’individuazione di quali atti e condotte realizzino il reato in parola, ebbe, infatti, a sostenere oltre vent’anni fa il Supremo Collegio che “l’art. 368 c. p., prevede due sole condotte tipiche per mezzo delle quali il reato di calunnia possa realizzarsi: o mediante denunzia, querela, richiesta o istanza diretta all’autorità giudiziaria o ad altre autorità che a quella abbia l’obbligo di riferire (calunnia formale o diretta) o mediante la simulazione a carico di taluno delle tracce di un reato (calunnia materiale o indiretta); la legge non prevede un’ipotesi di calunnia che si realizzi mediante condotte diverse da quelle indicate anche se idonee a configurare una qualsiasi notitia criminis destinata ad attivare l’iniziativa del p. m.”.[3]
Sono stati, in questo modo, circoscritti e tipicizzati gli ambiti ed i contesti fattuali, o meglio ancora, le condotte e le forme, che potevano venire a costituire una vera e propria condizione obbiettiva di punibilità del reato in questione.
In epoca più recente, la idoneità del’atto di denunzia a fungere da piattaforma di fatto e diritto per la ipotizzazione del reato di calunnia è stata riaffermata dalla Corte di Appello di Napoli Sez. V, 05-10-2005[4], che si espressa,  venendo investita di un caso concernente una falsa denunzia di smarrimento di assegni.
Ha, infatti, sostenuto la Corte territoriale che tale atto integra il reato di cui all’art. 368 c.p. infatti, nella condotta del privato che dichiari falsamente al pubblico ufficiale lo smarrimento di un assegno, lo stesso non risponde del reato di falsità ideologica commessa da privato in atto pubblico, ma in quanto accusa implicitamente il portatore di essersi fraudolentemente procurato l’assegno, a titolo di furto o ricettazione, ponendolo all’incasso, risponde del reato di calunnia. Infatti tale denunzia mette in moto un procedimento per accertare la responsabilità di colui che ha posto all’incasso l’assegno smarrito e tanto basta a legittimare il presupposto stesso della calunnia”.
Una volta chiarita, quindi, la tipicità dell’atto che deve fungere da presupposto logico-giuridico (e, perchè no, anche di fatto) del reato in questione ed individuati quali atti rientrino a pieno titolo in tale categoria, si deve osservare che altro importante profilo è quello concernente il requisito dell’effettiva idoneità dello stesso.
In proposito si è affermato il principio che impone che l’idoneità vada valutata in concreto.
Su questa linea si è posto, a suo tempo il giudice di legittimità affermando che “non si configura il delitto di calunnia quando ricorre una causa di non punibilità intrinseca del fatto attribuito alla persona offesa, come tale confluente nella dimensione del fatto tipico, in quanto la falsa denunzia del reato non è idonea all’apertura delle indagini ed all’instaurazione di un procedimento penale”[5]
Si trattava di una fattispecie in materia di denuncia per appropriazione indebita di denaro in danno del coniuge non legalmente separato, in cui la Corte respinse il ricorso avverso la decisione del giudice di merito che aveva escluso la configurabilità della calunnia, stante la causa di non punibilità di cui all’art. 649 c.p..
Il principio cui la Corte si ispirò fu, dunque, quello della valutazione ex ante della capacità reale dell’atto ad introdurre un’indagine penale, e della verifica in ordine alla circostanza se il difetto (nel caso di specie la causa di non punibilità) presentasse carattere genetico, cioè preesistesse in radice.
La sentenza in commento, a propria volta, si segnala perché evidenzia e rafforza l’importanza dello scrutinio concernente il profilo soggettivo del delitto di calunnia ed in particolare riguardante la consapevolezza dell’innocenza dell’incolpato.
Come si è affermato in precedenza, al di là della piattaforma materiale del reato, consistente nel presentare un atto ritenuto idoneo a suscitare un’indagine penale, incide in maniera decisiva, se non, addirittura, determinante, nella struttura del reato in questione, l’accertamento non solo della espressa volontarietà dell’accusa che si muove, ma della palese consapevolezza dell’incolpevolezza della persona destinataria dell’accusa.
Quest’ultimo profilo psicologico configura, infatti, indubbiamente il requisito decisivo per il perfezionamento del reato, posto che la ratio della perseguiblità del delitto di calunnia si rinviene proprio nella volontà del legislatore di sanzionare un’accusa che sia avanzata nella certezza che l’incolpato sia innocente.
Nella fattispecie, non a caso, l’elemento di centralità e decisività dell’intervenuto giudizio della Corte Suprema riposa nella necessità di pervenire all’individuazione della effettiva sussistenza di una volontà orientata ad attribuire falsamente un’accusa penalmente rilevante a carico di una persona, della cui innocenza, vi sia prova che il denunziante sia manifestamente cosciente e consapevole.
E’ derivato da tali premesse, quindi, il convincimento che ove manchi, nell’agente, la certezza dell’innocenza dell’incolpato il fatto stesso non possa ritenersi offensivo dell’interesse tutelato dalla norma penale.
Tale indirizzo presuppone che il pregiudizio di tale interesse, che riguarda, come si è avuto modo di evidenziare, il pericolo di deviazioni nell’amministrazione della giustizia, viene posto in relazione dalla norma non già a qualsiasi denuncia che risulti in prosieguo infondata, ma ad una incolpazione orientata a procurare siffatta deviazione in forza della consapevolezza dell’innocenza dell’incolpato[6].
In tale senso ebbe già a pronunziarsi anche Cass. pen. Sez.VI, con la sentenza 12 Aprile 1995[7], che osservò come “Nel delitto di calunnia il dolo non è integrato dalla coscienza e volontà della denuncia, ma richiede l’immanente consapevolezza da parte dell’agente dell’innocenza dell’incolpato, consapevolezza non ravvisabile nei casi di dubbio o di errore ragionevole. Pertanto, escluso il dolo nell’autore della calunnia, il fatto stesso non può ritenersi offensivo dell’interesse tutelato dalla norma penale. Difatti, il nocumento di tale interesse, attinente al pericolo di deviazioni nell’amministrazione della giustizia, è correlato dalla norma non già a qualsiasi denuncia che risulti in prosieguo infondata, ma ad una incolpazione orientata a procurare siffatta deviazione in forza della consapevolezza dell’innocenza dell’incolpato. Ove l’autore della pretesa calunnia sia stato assolto proprio a cagione del dubbio sulla consapevolezza dell’innocenza dell’incolpato e, quindi, in forza di una non risolvibile equivocità relativa alla sussistenza della coscienza e volontà di recare offesa all’interesse tutelato, non può ritenersi, all’opposto, colpevole colui al quale sia riferita la mera partecipazione al delitto ipotizzato, sulla base della ritenuta consapevolezza dell’innocenza dell’incolpato e, quindi, della volontà di determinare l’inizio a suo carico di indagini e di dar luogo ad eventuali esiti processuali. Tale partecipazione anche soggettiva può risultare apprezzabile penalmente soltanto ove coincidente con analogo stato soggettivo di colui che è stato l’autore del fatto reato previsto dall’art. 368 c.p.”-
Ed anche in epoca assai recente va ricordata la presa di posizione della Corte di Appello di Roma Sez. I, 8-06-2006, C.D.[8]
Il giudice territoriale, infatti, ha sostenuto che “Ai fini dell’integrazione del reato di calunnia di cui all’art. 368 c.p. è necessaria una particolare cautela nell’accertamento del dolo che ne fa da fondamento poiché richiede l’assoluta certezza dell’innocenza dell’incolpato e soprattutto perché può essere escluso da una erronea convinzione fondata su elementi seri e concreti”.
Medesimo orientamento si rinviene nella sentenza della Corte di Appello di Milano Sez. II, 5 febbraio 2008 , Ca.Ma.An.[9],che ha sostenuto che “Per la sussistenza del delitto di calunnia è necessaria la dimostrazione che l’imputato abbia acquisito la certezza dell’innocenza dell’incolpato; ne consegue che, non può essere addebitato tale delitto allorché sussistano elementi tali da far sorgere, nell’animo del denunciante, anche soltanto ragionevoli dubbi in ordine alla colpevolezza di colui nei cui confronti la denuncia è diretta”. (conf. Corte di Appello di Catanzaro Sez. II, 19-02-2007)
Si può, quindi, affermare che la pronunzia della Suprema Corte suggella indubbiamente un orientamento interpretativo che, a livello giurisprudenziale, ormai appare costante e consolidato.
 
Rimini, lì 26 Maggio 2008
 
Carlo Alberto Zaina
  • qui la sentenza


[1]Art. 368. Calunnia
      Chiunque, con denunzia, querela , richiesta o istanza, anche se anonima o sotto falso nome, diretta all’autorità giudiziaria o ad un’altra autorità che a quella abbia obbligo di riferirne, incolpa di un reato taluno che egli sa innocente, ovvero simula a carico di lui le tracce di un reato, è punito con la reclusione da due a sei anni.
La pena è aumentata se s’incolpa taluno di un reato pel quale la legge stabilisce la pena della reclusione superiore nel massimo a dieci anni, o un’altra pena più grave.
La reclusione è da quattro a dodici anni, se dal fatto deriva una condanna alla reclusione superiore a cinque anni; è da sei a venti anni, se dal fatto deriva una condanna all’ergastolo; e si applica la pena dell’ergastolo, se dal fatto deriva una condanna alla pena di morte (1).
(1) La pena di morte per i delitti previsti dal codice penale è stata abolita dall’art. 1 del D.Lgs.Lgt. 10 agosto 1944, n. 224.
[2]Cfr. Rappelli, Il delitto di calunnia formale tra tipicità e semplice conformità del fatto storico alla fattispecie astratta, in RP, 1990, 576).
[3] Cass. pen. Sez. V, 02-12-1987, Catalano, Dir. Informazione e Informatica, 1989, 449 nota di MANTOVANI , Mass. Cass. Pen., 1988
[5]Cass. pen. Sez. VI, 16-12-2002, n. 1762 (rv. 223345), Del Chicca, Riv. Pen., 2003, 1034
[6]V. Codice penale ipertestuale UTET RONCO-ARDIZZONE
[7] Cass. Pen., 1996, 3308

Zaina Carlo Alberto

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