Non sempre il trasferimento del dipendente pubblico comporta il rionoscimento di un assegno perequativo non riassorbibile

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1. Introduzione. Le fattispecie di trasferimento del personale nell’ambito del pubblico impiego

La sentenza in commento fornisce all’interprete utili coordinate ermeneutiche con riferimento al riconoscimento dei c.d. assegni perequativi ad personam in favore del personale transitato in altre amministrazioni, al fine di colmare le eventuali differenze tra il maggior trattamento economico già percepito presso l’amministrazione di provenienza e quello in godimento presso l’amministrazione di destinazione.

Atteso che, secondo il prevalente orientamento detti assegni sono configurabili solo qualora il trasferimento del dipendente pubblico assuma caratteristiche di stabilità1 si deve tendenzialmente escludere che gli emolumenti in questione siano riconoscibili nel caso di mero distacco o comando del dipendente pubblico presso altra amministrazione – in quanto fattispecie connotate dalla temporaneità e reversibilità degli effetti – mentre si deve ritenere che essi trovino sicuramente applicazione nel caso di procedure di mobilità, che, invece comportano il trasferimento definitivo del dipendente nei ruoli dell’Amministrazione di destinazione.

Infatti, mediante il comando, espressamente disciplinato dall’art. 56 D.P.R. n. 3/1957, nonché – in virtù dell’art. 79 D.lgs 165/2001 – da appositi accordi sindacali,2 il dipendente pubblico viene autorizzato, con specifico provvedimento amministrativo, a prestare servizio presso altra amministrazione o presso altro ente pubblico – con esclusione di quelli sottoposti alla vigilanza dell’amministrazione cui l’impiegato appartiene – per un tempo determinato, in via eccezionale e “per riconosciute esigenze di servizio o quando sia richiesta una speciale competenza”.

Secondo la prevalente giurisprudenza il comando determina una modificazione solo in senso oggettivo del rapporto di servizio (atteso che il dipendente viene destinato in via ordinaria ed abituale a svolgere le proprie prestazioni lavorative nell’ambito di una diversa organizzazione nella quale egli viene inserito sia a livello funzionale che gerarchico) ma non fa venir meno il precedente legame giuridico del dipendente con l’originario datore di lavoro, tanto è vero che il dipendente comandato mantiene il posto di lavoro nei ruoli dell’amministrazione di provenienza e continua ad essere retribuito a carico di quest’ultima3.

Anche il distacco – istituto affermatosi per prassi e che non trova (ancora) una specifica disciplina normativa – comporta la temporanea utilizzazione del dipendente pubblico presso altra amministrazione.

Tuttavia, secondo la prevalente opinione4, tale fattispecie determinerebbe una modifica meno intensa dell’originario rapporto di lavoro, atteso che, da un lato, l’onere economico del dipendente continua ad essere sopportato dall’amministrazione di provenienza e che, dall’altro, l’utilizzazione del dipendente presso altra organizzazione pubblica risponde soprattutto ad un interesse specifico di quest’ultima5.

La stabilità ed irreversibilità dello spostamento del dipendente caratterizzano, invece l’istituto della mobilità, sia volontaria che obbligatoria.

In particolare la mobilità volontaria, presupponendo il consenso del dipendente, è stata ricondotta per espressa previsione normativa (art. 30, 1 comma D.lgs 165/2001, come modificato dal D.lgs 150/2009) alla generale figura codicistica della cessione del contratto ex art. 1406 c.c..

Non è, invece, in alcun modo condizionata dal consenso dei dipendenti interessati, l’adozione da parte delle pubbliche amministrazioni statali di procedure di mobilità obbligatoria interna ed esterna.

Infatti, può fondatamente ritenersi che, per effetto di recentissimi interventi normativi6, l’istituto della mobilità obbligatoria o coatta da strumento eccezionale7, sia divenuto nell’ottica del legislatore un meccanismo ordinario di gestione del personale, al fine renderne più efficiente l’utilizzazione laddove si presentino esigenze specifiche ovvero al fine di limitarne le eccedenze e di conseguire, quindi, la riduzione dei relativi costi.8.

 

2. Gli assegni ad personam: riassorbibili e non riassorbibili.

Tanto premesso, la sentenza in esame assume particolare rilevanza in quanto distingue le ipotesi in cui l’applicazione dell’assegno ad personam – nei casi di definitivo trasferimento di personale – si fondi sul generale principio del divieto di reformatio in peius della retribuzione9 ovvero su specifiche disposizioni di legge, come quelle di cui ai commi 57 e 58 dell’art. 3, L. 24 dicembre 1993, n. 537.

Tale distinzione, apparentemente solo marginale, assume, invece notevole importanza in quanto l’applicazione della citata disciplina speciale comporta il cumulo (ossia la non riassorbibilità) dell’assegno ad personam riconosciuto al dipendente con i futuri aumenti della retribuzione, laddove invece applicando il “mero” principio generale di divieto di reformatio in peius – l’assegno ad personam deve ritenersi sempre riassorbibile con i successivi aumenti della retribuzione10.

 

3. I limiti soggettivi ed oggettivi di applicazione dei commi 57 e 58 dell’art. 3, L. 24 dicembre 1993, n. 537.

In particolare, la Suprema Corte, ribadendo un ormai consolidato orientamento giurisprudenziale, individua l’ambito soggettivo ed oggettivo di applicazione dei commi 57 e 58 dell’art. 3, L. 24 dicembre 1993, n. 537.

Con riferimento al primo aspetto, avendo riguardo la normativa in esame ad ipotesi di passaggio di carriera di cui all’art. 202 DPR 3/1957, la medesima deve ritenersi applicabile ai soli trasferimenti di personale “presso la stessa Amministrazione Statale o anche diversa amministrazione, purché statale, non anche ai passaggi nell’ambito di amministrazione non statale, ovvero tra diverse amministrazioni non statali o da una di esse allo Stato e viceversa”11.

Infatti, secondo la Suprema Corte – nonostante l’intervento della citata L. 537/1993 – deve ritenersi ancora attuale l’originaria ratio dell’art. 202 DPR 3/1957.

Finalità di detta norma era quella di evitare che il passaggio del dipendente nell’ambito dello stesso comparto amministrativo statale – dove le carriere o comunque le posizioni economiche, ancorché diverse, hanno un sostrato mansionistico omogeneo – comportasse un “regresso” retributivo del medesimo, nonostante la posizione economica ormai acquisita in base alla carriera precedentemente svolta.

Laddove, invece, il dipendente cambi anche complesso burocratico e non si possa quindi rinvenire alcuna omogeneità tra le posizioni e carriere di provenienza e quelle di destinazione, cade anche la ratio dell’(ulteriore) garanzia economica rappresentata della non riassorbibilità dell’assegno perequativo.

Infatti, secondo la prevalente giurisprudenza12, l’operatività del divieto di reformatio in peius – la cui finalità è l’eliminazione degli ostacoli di ordine economico che potrebbero spiegare effetti disincentivanti alla mobilità del personale pubblico – è comunque assicurata dalla regola della riassorbibilità dell’assegno ad personam.

Anzi, proprio il meccanismo del riassorbimento consente di adeguatamente modulare il citato principio generale con quello di parità di trattamento dei dipendenti pubblici – ex art. 45, comma 2 D.lgs 165/2001 – nonché con quanto disposto dal precedente art. 30 comma 2 quinquies, alla cui stregua, nel caso di passaggio di personale tra amministrazioni diverse, si deve applicare il trattamento economico stabilito dai contratti collettivi vigenti nel comparto dell’amministrazione cessionaria (art. 2112 c.c.).13

Altra importante questione affrontata dalla sentenza in commento è l’individuazione dei limiti oggettivi che operano con riguardo alla concreta individuazione dell’assegno ad personam di cui alla L. 537/199314.

In particolare, secondo la Suprema Corte la determinazione di detto assegno non può avvenire mediante il mero raffronto delle retribuzioni complessivamente percepite dal dipendente trasferito rispettivamente nell’amministrazione di provenienza ed in quella di destinazione.

Infatti, atteso che l’art. 1 comma 226 della legge 23 dicembre 2005, n. 266, nell’interpretare l’art. 3 comma 57 della L. 537/1993, stabilisce che si debba far riferimento esclusivamente al trattamento fisso e continuativo, restano esclusi da detto raffronto gli elementi premiali, connessi ai risultati, variabili o comunque provvisori (percepiti da dipendente presso l’Amministrazione di provenienza) sui quali per il loro carattere di precarietà ed accidentalità il lavoratore non abbia ragione di riporre affidamento quali fonti di stabile e duraturo sostentamento dei bisogni usuali della vita15.

Al riguardo, occorre segnalare un recentissimo orientamento giurisprudenziale che esclude dalle componenti della retribuzione utili alla determinazione dell’eventuale assegno perequativo, quelle che pur avendo natura fissa e continuativa siano connesse – in base a specifiche disposizioni della contrattazione collettiva o normative – allo svolgimento da parte del dipendente trasferito di peculiari mansioni ovvero al particolare atteggiarsi del rapporto di servizio presso l’amministrazione di provenienza16.

Infine, secondo la Suprema Corte, anche ai fini dell’operatività del meccanismo del riassorbimento dell’assegno perequativo – in assenza di specifiche disposizioni normative o della contrattazione collettiva – devono ritenersi rilevanti i principi di cui ai citati artt 45 comma 2 e 30 comma 2 quinquies del D.lgs 165/2001.

Ne deriva che gli assegni ad personam in questione sono “destinati ad essere riassorbiti negli incrementi del trattamento economico complessivo spettante ai dipendenti dell’Amministrazione cessionaria” e quindi in concomitanza con qualunque successiva variazione in positivo sia delle componenti fisse che di quelle accessorie della retribuzione.

Abstract

Nel caso di trasferimento del dipendente pubblico, le eventuali differenze tra la retribuzione goduta presso l’Amministrazione di provenienza e quella percepita presso l’Amministrazione di destinazione sono colmate mediante il riconoscimento di un assegno ad personam riassorbibile con i futuri aumenti del trattamento economico, salvo nel caso in cui vi siano specifiche norme che ne prevedano espressamente la non riassorbibilità.

LA SENTENZA

Cassazione Civile, Sez. Lavoro, sentenza 16 aprile 2012, n. 5959; Presidente dott. ***********************; Relatore dott. **********.

LA MASSIMA

In merito al lavoro pubblico, qualora si verifichi il passaggio da un’ Amministrazione all’altra, al dipendente deve essere garantita, in mancanza di disposizioni speciali, la continuità giuridica del rapporto di lavoro ed il mantenimento del trattamento economico che, ove risulti superiore a quello spettante presso l’ente di destinazione, opera nell’ambito della regola del riassorbimento degli assegni ad personam attribuiti onde rispettare il divieto di reformatio in peius del trattamento economico acquisito, in occasione dei miglioramenti di inquadramento e di trattamento economico riconosciuti a seguito del trasferimento. E’, pertanto, evidente che il criterio generale di riassorbimento opera in riferimento ai miglioramenti del trattamento economico complessivo dei dipendenti dell’Amministrazione di arrivo e non con riferimento a singole voci che compongono siffatto trattamento.

IL TESTO

(omissis)

FATTO E DIRITTO

1.- La sentenza attualmente impugnata respinge l’appello proposto dal Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti avverso la sentenza del Tribunale di Torino n. 1312/09 del 23 marzo 2009 che, in accoglimento dei ricorsi riuniti di G.V. e S. A., ha dichiarato non assorbibile con i futuri aumenti della retribuzione tabellare l’assegno ad personam riconosciuto ai ricorrenti nel momento del loro passaggio dalle dipendenze dell’Agenzia del demanio a quello del suddetto Ministero, condannando quest’ultimo al pagamento delle conseguenti differenze retributive.

La Corte d’appello di Torino, per quel che qui interessa, precisa che:

a) il G. e lo S. sono transitati dall’Agenzia del demanio al Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti nel 2004, con attribuzione da parte del Ministero di un assegno ad personam di importo lordo pari alla differenza tra l’indennità di agenzia di cui godevano presso l’Amministrazione di provenienza e l’indennità di amministrazione corrisposta dal Ministero ai propri dipendenti;

b) il suddetto assegno personale, all’epoca, era stato espressamente previsto come riassorbibile “con i futuri miglioramenti economici dell’indennità di amministrazione”;

c) con il ricorso introduttivo è stata contestata la disposta riassorbibilità dell’assegno in oggetto con qualsiasi aumento stipendiale, conseguente ai provvedimenti di rideterminazione dei trattamenti economici spettanti ai ricorrenti, adottati dal Ministero nel dicembre 2007;

d) il Giudice di primo grado ha accolto il ricorso sulla base della L. n. 537 del 1993, art. 3, commi 57 e 58, secondo cui gli assegni personali in argomento risultano non cumulabili con indennità fisse o continuative spettanti nella posizione di arrivo, se non per la parte eventualmente eccedente come stabilito, nella specie, originariamente, con riguardo al rapporto tra la indennità di agenzia e l’indennità di amministrazione;

e) è infondata la doglianza del Ministero secondo cui non sarebbe applicabile la L. n. 537 del 1993, art. 3, ma il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 2, comma 3;

f) è, infatti, pacifica la vigenza dell’art. 3 citato, anche dopo la privatizzazione del pubblico impiego, in quanto tale normativa non è richiamata negli allegati A e B del D.Lgs. n. 165 del 2001, che individuano, ai sensi del successivo art. 71, le disposizioni non più applicabili dopo l’entrata in vigore della contrattazione collettiva;

g) comunque, l’art. 2, comma 3, menzionato fa riferimento alla contrattazione collettiva come fonte esclusiva dei trattamenti economici e il c.c.n.l. del Comparto Ministeri non contiene alcuna disposizione sul riassorbimento e diversamente da quanto sostenuto dal Ministero – benchè alla contrattazione collettiva sia stato demandato solo di disciplinare le “modalità” e le “misure” del riassorbimento, l’assenza di qualunque disciplina contrattuale in materia non consente di affermare l’effettività del meccanismo in oggetto;

h) il thema decidendum dell’attuale controversia è rappresentato dalla riassorbibilità o meno degli assegni ad personam nei futuri aumenti della retribuzione tabellare e non nei futuri incrementi dell’indennità di amministrazione, per questo il Tribunale in dispositivo si è espresso in termini di non riassorbibilità tout court;

i) ne consegue l’inammissibilità, prima ancora dell’infondatezza, del motivo subordinato del Ministero che introduce per la prima volta in appello la questione nuova riguardante la assorbibilità o meno degli assegni in oggetto negli aumenti futuri dell’indennità di amministrazione.

2- Il ricorso del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti domanda la cassazione della sentenza per due motivi; **** e S.A. non svolgono attività difensiva.

Motivi della decisione

1 – Sintesi dei motivi del ricorso.

1.- Con il primo motivo di ricorso si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e falsa applicazione della L. n. 537 del 1993, art. 3, commi 57 e 58, e del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 2, comma 3.

Si sostiene che la sentenza impugnata sia censurabile ove: 1) ritiene applicabile, nella specie, la L. n. 537 del 1993, art. 3, commi 57 e 58, sull’assunto della non ricomprensione della suddetta normativa negli allegati A e B del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 69, che individuano le disposizioni non più applicabili dopo l’entrata in vigore della contrattazione collettiva; 2) esclude, d’altra parte, l’applicabilità del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 2, comma 3, perchè le norme collettive non hanno disciplinato la riassorbibilità dei trattamenti economici in godimento.

Il ricorrente sottolinea che, dalla complessiva lettura del citato art. 2, comma 3, si desume che il legislatore ha inteso introdurre in aggiunta al principio-base del rinvio alla contrattazione collettiva per ogni ipotesi di incremento retributivo, anche l’ulteriore principio della riassorbibilità dei trattamenti economici più favorevoli in godimento.

Il secondo principio è una diretta conseguenza del primo ed entrambi si coordinano con il principio di parità di trattamento contrattuale previsto dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 45.

Questo complesso normativo, che ha determinato l’abrogazione implicita della L. n. 537 del 1993, art. 3, commi 57 e 58, ha rinviato alla contrattazione collettiva esclusivamente la determinazione delle “modalità” e delle “misure” del riassorbimento, ma sul presupposto dell’inderogabilità e della immediata efficacia precettiva del relativo principio legislativo, presupposto che non può essere negato per il fatto che la contrattazione collettiva del Comparto Ministeri, non abbia disciplinato la riassorbibilità.

Del resto, in base alla giurisprudenza di legittimità il principio generale da applicare ai passaggi di personale è quello della riassorbibilità degli assegni ad personam (corrisposti per rispettare il principio del divieto di reformatio in pejus del trattamento economico in godimento), sulla base del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 31.

In ogni caso, non potrebbe comunque essere applicato nella specie l’art. 3, commi 57 e 59, cit. (ove se ne escludesse l’abrogazione implicita), perchè questa disposizione, che non ha carattere generale, presuppone l’omogeneità delle posizioni che, nella specie, manca in quanto il passaggio è avvenuto da un’Agenzia fiscale ad un’Amministrazione ministeriale.

2 – Con il secondo motivo di ricorso si denuncia: a) in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione dell’art. 112 c.p.c.; b) in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, omessa motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio.

Si sostiene che la Corte territoriale ha palesemente omesso di pronunciarsi sulla questione – proposta in appello dal Ministero – riguardante l’inapplicabilità dell’art. 3, commi 57 e 58, cit. (per carenza del presupposto della omogeneità delle posizioni interessate dai passaggi di cui si tratta) e la necessità di applicare, in sua vece, il principio generale della riassorbibilità desumibile dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 31. 2 – Esame delle censure.

3.- Il ricorso è da accogliere, per le ragioni di seguito precisate.

3.1.- Come si desume anche dalla sentenza impugnata, il thema decidendum della presente controversia è rappresentato dalla contestazione della modifica del criterio di riassorbibilità dell’assegno ad personam attribuito al G. e allo S. quando sono transitati dall’Agenzia del demanio al Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, modifica disposta con i provvedimenti di rideterminazione dei trattamenti economici spettanti ai ricorrenti, adottati dal Ministero nel dicembre 2007.

In particolare, i ricorrenti sostengono l’illegittimità della riassorbibilità dell’assegno in oggetto con qualsiasi aumento stipendiale conseguente ai suddetti provvedimenti e rilevano che, al momento del loro passaggio alle dipendenze del Ministero (avvenuto nel 2004), il suddetto assegno personale (di importo lordo pari alla differenza tra l’indennità di agenzia di cui godevano presso l’Amministrazione di provenienza e l’indennità di amministrazione corrisposta dal Ministero ai propri dipendenti) era stato espressamente previsto come riassorbibile esclusivamente “con i futuri miglioramenti economici dell’indennità di amministrazione”, cioè con gli incrementi di una sola delle voci che compongono il complessivo trattamento economico spettante ai dipendenti del Ministero in oggetto.

3.2- Dalla suddetta premessa si desume che la sentenza impugnata risulta affetta dai seguenti errori di impostazione:

1) la Corte d’appello, confermando l’impianto della sentenza di primo grado, perviene all’accoglimento delle domande dei ricorrenti sulla base della L. 24 dicembre 1993, n. 537, art. 3, commi 57 e 58, da cui desume che gli assegni personali in argomento risultano “non cumulabili con indennità fisse o continuative spettanti nella posizione di arrivo, se non per la parte eventualmente eccedente” come stabilito, nella specie, originariamente, con riguardo al rapporto tra la indennità di agenzia e l’indennità di amministrazione;

2) il suddetto comma 57, stabilisce che: “Nei casi di passaggio di carriera di cui all’art. 202 del citato testo unico approvato con D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, ed alle altre analoghe disposizioni, al personale con stipendio o retribuzione pensionabile superiore a quello spettante nella nuova posizione è attribuito un assegno personale pensionabile, non riassorbibile e non rivalutabile, pari alla differenza fra lo stipendio o retribuzione pensionabile in godimento all’atto del passaggio e quello spettante nella nuova posizione”, mentre in base al successivo comma 58: “L’assegno personale di cui al comma 57 non è cumulabile con indennità fisse e continuative, anche se non pensionabili, spettanti nella nuova posizione, salvo che per la parte eventualmente eccedente”;

3) il D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, art. 202, così si esprime: “Nel caso di passaggio di carriera presso la stessa o diversa amministrazione agli impiegati con stipendio superiore a quello spettante nella nuova qualifica è attribuito un assegno personale, utile a pensione, pari alla differenza fra lo stipendio già goduto ed il nuovo, salvo riassorbimento nei successivi aumenti di stipendio per la progressione di carriera anche se semplicemente economica”;

4) la L. 23 dicembre 2005, n. 266, art. unico, comma 226, – di cui la Corte territoriale non tiene conto – con una norma interpretativa stabilisce che: “la L. 24 dicembre 1993, n. 537, art. 3, comma 57, nei confronti del personale dipendente, si interpreta nel senso che alla determinazione dell’assegno personale non riassorbibile e non rivalutabile concorre il trattamento, fisso e continuativo, con esclusione della retribuzione di risultato e di altre voci retributive comunque collegate al raggiungimento di specifici risultati o obiettivi”;

3) il suddetto comma 226, se dimostra la persistente vigenza della norma interpretata (diversamente da quanto sostenuto dall’attuale ricorrente), ne chiarisce anche la portata precettiva in senso restrittivo disponendo che per la determinazione dell’assegno in oggetto si deve tenere conto di tutti gli elementi retributivi fissi e continuativi, mentre non vanno presi in considerazione gli elementi retributivi premiali connessi ai risultati (da ultimo: Cass. 12 marzo 2012, n. 3865);

4) alla suddetta norma interpretativa (che è intervenuta dopo più di un decennio dall’entrata in vigore della norma interpretata) è stato attribuito molto risalto nella giurisprudenza sia di questa Corte sia amministrativa e si è sottolineato che la scelta di senso con essa perseguita si è dimostrata in perfetta linea con la soluzione ermeneutica da sempre adottata, con pronunce anche remote, dal Giudice amministrativo (munito all’epoca della giurisdizione esclusiva sulle controversie in materia di lavoro pubblico), nelle quali si è affermato che il divieto di reformatio in pejus risponde alla finalità di non ostacolare la mobilità del personale impiegatizio o di agevolarne la progressione in carriera mediante “l’eliminazione degli ostacoli di ordine economico che potrebbero spiegare effetti disincentivanti (D.P.R. 11 gennaio 1956, n. 19, art. 1, comma 6; D.P.R. 5 giugno 1965, n. 749, art. 30; D.P.R. n. 1079 del 1970, art. 1, comma 5) e che è appunto in ragione della indicata finalità che al concetto di “retribuzione” deve essere attribuito un significato restrittivo, sì da comprendervi il solo stipendio tabellare e le “voci retributive” di carattere fisso e continuativo, con esclusione degli emolumenti variabili e/o provvisori, sui quali per il loro essenziale carattere di precarietà e accidentalità, il dipendente non abbia ragione di riporre affidamento quali fonti di stabile e duraturo sostentamento per i bisogni usuali della vita” (Cons. Stato, sez. 4^, 18 dicembre 1986, n. 861, nonchè, fra le tante: Cons. Stato, sez. 4^, 20 ottobre 1999, n. 1501 e 3 novembre 2008, n. 5473; Cons. giust. amm, Sicilia, 18 agosto 2010, n. 1119; Cass. 13 aprile 2006, n. 8693; Cass. 8 maggio 2006, n. 10449; Cass. 13 settembre 2006, n. 19564);

5) conseguentemente, nella giurisprudenza di questa Corte può dirsi ormai consolidato il condiviso orientamento secondo cui, nell’ambito del lavoro pubblico, nel caso di passaggio da una Amministrazione ad un’altra è assicurata – in mancanza di disposizioni speciali – la continuità giuridica del rapporto di lavoro e il mantenimento del trattamento economico, il quale, ove risulti superiore a quello spettante presso l’ente di destinazione, opera nell’ambito della regola del riassorbimento degli assegni ad personam attribuiti al fine di rispettare il divieto di reformatio in pejus del trattamento economico acquisito, in occasione dei miglioramenti di inquadramento e di trattamento economico riconosciuti per effetto del trasferimento, secondo quanto risulta argomentando dal D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 34, come sostituito dal D.Lgs. n. 80 del 1998, art. 19, (ora D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 31), che richiama le regole dettate dall’art. 2112 c.c., (Cass. 16 giugno 2005, n. 12956; Cass. 13 aprile 2006, n. 8693; Cass. 11 aprile 2006, n. 8389; Cass. 8 maggio 2006, n. 10449; Cass. 8 gennaio 2007, n. 55; Cass. 2 febbraio 2007, n. 2265; Cass. 29 marzo 2010, n. 7520; Cass. 19 novembre 2010, n. 23474; Cass. 2 marzo 2011, n. 5097);

6) non è dubbio, quindi, che il criterio generale del riassorbimento debba operare in riferimento ai miglioramenti del trattamento economico complessivo dei dipendenti del Amministrazione di arrivo (come disposto nei provvedimenti da cui ha avuto origine il presente giudizio) e non con riferimento a singole voci che compongono tale trattamento economico (come originariamente disposto, nella specie, con riguardo ai soli incrementi dell’indennità di amministrazione), in quanto solo il primo sistema di riassorbimento, oltre a non essere in contrasto con le disposizioni legislative di cui finora si è detto, è conforme al principio di cui all’art. 36 Cost., come costantemente interpretato dalla giurisprudenza costituzionale, nel senso che il principio della “proporzionalità ed adeguatezza della retribuzione va riferito non già alle sue singole componenti, ma alla globalità di essa” (vedi, per tutte: Corte cost. sentenze n. 141 del 1979; n. 470 del 2002; n. 434 del 2005) e quindi alle singole voci che compongono la retribuzione non può essere attribuito autonomo rilievo, a meno che ciò sia espressamente previsto dalla legge o dalla contrattazione collettiva, il che nella specie non accade.

Da quanto fin qui osservato si desume che fa Corte territoriale non ha considerato che – a partire dal punto di vista oggettivo – la pretesa dei ricorrenti non può essere accolta perchè essa in realtà di sostanzia nel volere – in assenza di una apposita normativa derogatoria – preservare dal meccanismo del riassorbimento negli aumenti di trattamento economico complessivo dei dipendenti del Ministero (collegando il riassorbimento stesso soltanto agli incrementi dell’indennità di amministrazione) l’assegno ad personam corrisposto per l’eccedenza tra l’importo dell’indennità di agenzia (di cui il G. e lo S. godevano presso l’Agenzia del demanio) e quello dell’indennità di amministrazione suddetta. Ma una simile richiesta, dal suddetto punto di vista, si pone in contrasto radicale con il quadro normativo di riferimento correttamente ricostruito, perchè le due indennità considerate (che hanno natura analoga, come si desume dal c.c.n.l. 28 maggio 2004 relativo al personale del Comparto delle Agenzie fiscali, in base al quale l’indennità di agenzia è voce del salario accessorio, sostitutiva dell’indennità amministrativa) sono, come più volte precisato da questa Corte (Cass. SU 13 luglio 2005, n. 14698; Cass. 13 settembre 2006, n. 19564), emolumenti corrisposti per dodici mensilità, con carattere di generalità e natura fissa e ricorrente. Il carattere di generalità dice che esse devono essere corrisposte a tutti i dipendenti rispettivamente, dell’Agenzia fiscale e del Ministero), la natura ricorrente dice che devono essere corrisposte con la medesima cadenza temporale, mentre la natura fissa significa che esse sono parametrate a criteri oggetti vi di determinazione. Esse, quindi, non sono “voci retributive comunque collegate al raggiungimento di specifici risultati o obiettivi”, ai sensi e per gli effetti di cui alla L. n. 537 del 1993, art. 3, commi 57 e 58, e quindi non sono emolumenti ai quali viene attribuito autonomo rilievo, ai fini che qui interessano.

3.3. – Ma ciò che più conta, per il presente giudizio, è che la Corte torinese non ha neppure considerato i limiti soggettivi di applicazione della suddetta disciplina, quali ripetutamente delineati dalla consolidata giurisprudenza di questa Corte e dalla giurisprudenza amministrativa, e che portano ad escluderne l’applicabilità nell’attuale fattispecie.

In base al suddetto orientamento ermeneutico – che ha preso le mosse da quanto ritenuto dall’assolutamente prevalente giurisprudenza del Giudice amministrativo, munito all’epoca di giurisdizione esclusiva sulle controversie di lavoro pubblico (vedi, per tutte, Cons. Stato, Ad. plen, 16 marzo 1992, n. 8) – il D.P.R. n. 3 del 1957, art. 202, non è espressione di un principio generale, applicabile indistintamente a tutti i dipendenti pubblici, dovendosi interpretare la norma nel senso che la disciplina relativa all’assegno ad personam, utile a pensione, attribuibile agli impiegati con stipendio superiore a quello spettante nella nuova posizione lavorativa, concerne esclusivamente i casi di passaggio di carriera presso la stessa Amministrazione statale o anche diversa amministrazione, purchè statale, non anche i passaggi nell’ambito di Amministrazione non statale, ovvero tra diverse Amministrazioni non statali o da una di esse allo Stato e viceversa.

Infatti – come precisato in particolare da Cass. 8 maggio 2006, n. 10449 e da Cass. 29 luglio 2009, n. 17645 – la suddetta norma risponde alla precipua finalità di evitare che il mutamento di carriera nell’ambito dell’organizzazione burocratica dello Stato comporti, per gli interessati, un regresso nel trattamento economico raggiunto, ma di “regresso” può parlarsi soltanto confrontando posizioni omogenee nel contesto di un sistema burocratico unitario, entro il quale il “dipendente statale” si sposti con le modalità previste per il “passaggio” ad altra Amministrazione o ad altra carriera, compreso il caso dell’accesso per concorso, secondo le disposizioni statutarie (vedi D.P.R. n. 3 del 1957, artt. 199 e 200 cit.).

Sussistono, dunque, limiti soggettivi ed oggettivi all’applicabilità della norma, che inducono di per sè ad escludere che alla stessa possa essere attribuita una portata estensiva e che il legislatore abbia inteso, con tale disposizione, porre un principio di ordine generale, da valere per ogni tipo di passaggio ed indipendentemente dalla natura statale o meno delle organizzazione nel cui ambito si verifica la mobilità. Nè soccorre il richiamo al D.P.R. 28 dicembre 1970, n. 1079, successivo art. 12, che al citato art. 202 si riconnette, e di cui ripete finalità e limiti, con la sola aggiunta del riferimento alle “disposizioni analoghe”, ma pur sempre concernenti l’impiego statale, siccome esclusivo destinatario della normativa recata dal decreto.

Va rilevato, infine, che, ogni qual volta si è inteso mantenere, per i dipendenti pubblici, un trattamento di maggior favore, la fonte, primaria o secondaria, ne ha sempre espressamente definito i beneficiari, le condizioni ed i limiti di operatività, con ciò restando esclusa la possibilità di desumere dal complesso delle disposizioni un principio con carattere di generalità.

A. fronte dell’univoco significato del suddetto art. 202 nel senso indicato, la tesi opposta non si potrebbe sostenere neanche facendo riferimento al richiamo al medesimo art. 202 effettuato dalla L. n. 537 del 1993, art. 3, commi 57 e 58, e al rilievo che, al momento dell’entrata in vigore di tale ultima legge, era già intervenuta la c.d. “privatizzazione” del rapporto di pubblico impiego a opera del D.Lgs. 3 febbraio 1993, n. 29 (in attuazione della L. 23 ottobre 1992, n. 421).

Infatti, il mutamento della natura giuridica del rapporto di lavoro non ha certamente determinato l’unificazione della disciplina, continuando a trovare applicazione le discipline speciali di ciascun settore in attesa dell’intervento della contrattazione collettiva (D.Lgs. n. 2001, art. 69), cosicchè non vi sono elementi a conforto della tesi che le disposizioni legislative in materia di lavoro pubblico debbano tendenzialmente interpretarsi come applicabili alla totalità dei dipendenti previsti dall’art. 1, comma 2, del menzionato decreto legislativo. L’assunto, del resto, è contraddetto proprio dalle disposizioni della stessa L. n. 537 del 1993, nella parte in cui estendono esplicitamente taluni articoli del D.P.R. n. 3 del 1957 a settori diversi dall’impiego statale (si vedano l’art. 3, commi 12 e 41).

Nessun elemento, in definitiva, conforta la tesi secondo cui l’istituto disciplinato dal D.P.R. n. 3 del 1957, art. 202, sia assurto a rango di principio generale dell’impiego pubblico e come tale richiamato dalla disposizione che lo ha modificato.

3.4 – La giurisprudenza della Corte si è già espressa anche con riguardo all’inquadramento da attribuire ai dipendenti delle Agenzie fiscali (vedi, per tutte: Cass. SU 14 gennaio 2009, n. 560; Cass. 13 settembre 2006, n. 19564; Cass. 26 ottobre 2006, n. 23005; Cass. 25 maggio 2005, n. 10991).

In particolare è stato chiarito che a seguito della istituzione – ad opera del Capo 2^ del Titolo 5^ del D.Lgs. 30 luglio 1999, n. 300 – delle Agenzie fiscali (Agenzia delle entrate, delle dogane, del territorio e del demanio), divenute operative a partire dal 1 gennaio 2001, in base al D.M. 28 dicembre 2000, art. 1, le Agenzie gestiscono le funzioni già esercitate dai vari dipartimenti ed uffici del Ministero delle finanze (poi confluito dell’unico Ministero dell’economia e delle finanze) al quale sono rimaste le sole “funzioni statali” elencate nell’art. 56 dello stesso D.Lgs.. In base all’art. 61 tutte le Agenzie hanno personalità giuridica di diritto pubblico e l’Agenzia del demanio (che è quella da cui provengono gli attuali ricorrenti) è stata definita ente pubblico economico dal D.Lgs. 3 luglio 2003, n. 173, art. 1, (che ha modificato in tal senso il suddetto art. 61, comma 1) e sono rappresentate dai rispettivi direttori (art. 68).

Dispone, in particolare l’art. 57, che alle Agenzie fiscali sono trasferiti i relativi rapporti giuridici, poteri e competenze che vengono esercitate secondo la disciplina dell’organizzazione interna di ciascuna Agenzia. L’art. 73, comma 5, prevede che il suddetto Ministro dispone con decreto in ordine alle assegnazioni di beni e personale afferenti alle attività di ciascuna agenzia; l’art. 74 (Disposizioni transitorie sul personale) specifica, al comma 1, che partire dalla data fissata con decreto del Ministro delle finanze, tutto il personale del Ministero è incluso in un ruolo speciale e distaccato presso i nuovi uffici del Ministero o presso le Agenzie fiscali.

Il D.M. 28 dicembre 2000, art. 5, (in Gazz. Uff. 12 gennaio 2001, n. 9) poi modificato dal D.M. 20 marzo 2001, ha istituito il ruolo speciale del personale in servizio alla data del 31 dicembre 2000 e, con riguardo al personale inserito nell’elenco di cui al comma 1, sezione 1/A, ne ha disposto il distacco provvisorio, a decorrere dal 1 gennaio 2001, presso l’Agenzia del demanio, dichiarata competente alla gestione del detto personale. Infine, il D.P.R. 26 marzo 2001, n. 107, ha fissato le dotazioni organiche e disposto che “le Agenzie subentrano al Ministero nei rapporti giuridici, poteri, competenze e controversie relative alle funzioni ad esse trasferite e al proprio personale” (art. 20).

Dalla richiamata giurisprudenza di questa Corte risulta che la riferita vicenda normativa è stata interpretata nel senso che la qualità di datore di lavoro sia stata assunta dalle Agenzie non alla data del 1 gennaio 2001 (che aveva disposto soltanto il distacco del personale), ma solo con l’emanazione del D.P.R. n. 107 del 2001.

Nel presente giudizio i ricorrenti sono passati dalle dipendenze dell’Agenzia del demanio a quelle del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti nel 2004 e quindi quando già la suddetta Agenzia era pienamente operativa come ente pubblico distinto dallo Stato, anche con riguardo al rapporto di lavoro dei dipendenti.

Ne risulta che la normativa che la Corte torinese ha posto a base della propria decisione -anche da tale punto di vista – è inapplicabile alla presente fattispecie che non configura una ipotesi di passaggio di carriera da una Amministrazione statale ad una diversa Amministrazione sempre statale, ma un passaggio da una Amministrazione pubblica autonoma (oltretutto, qualificata dal D.Lgs. 3 luglio 2003, n. 173, ente pubblico economico), come tale non inserita nell’organizzazione burocratica dello Stato, ad una Amministrazione statale.

In tale ultima ipotesi – di passaggio di personale e/o procedura volontaria di mobilità nel pubblico impiego privatizzato – non viene in considerazione la L. n. 537 del 1993, art. 3, e, in base ad orientamenti consolidati e condivisi di questa Corte:

a) la regola per cui il passaggio da un datore di lavoro all’altro comporta l’inserimento del dipendente in una diversa realtà organizzativa e in un mutato contesto di regole normative e retributive, con applicazione del trattamento in atto presso il nuovo datore di lavoro (art. 2112 c.c.), è confermata, per i dipendenti pubblici, dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 30, che riconduce il passaggio diretto di personale da amministrazioni diverse alla fattispecie della “cessione del contratto” (art. 1406 c.c.), stabilendo la regola generale dell’applicazione del trattamento giuridico ed economico, compreso quello accessorio, previsto nei contratti collettivi nel comparto dell’Amministrazione cessionarii, non giustificandosi diversità di trattamento (salvi gli assegni ad personam attribuiti al fine di rispettare il divieto di reformatio in peius del trattamento economico acquisito) tra dipendenti, dello stesso ente, a seconda della provenienza (Cass. 17 luglio 2006, n. 16185; Cass. 13 settembre 2006, n. 19564; Cass. 2 febbraio 2007, n. 2265);

b) infatti, nell’ipotesi di passaggio di lavoratori ad una diversa PA, l’eventuale diversificazione del rispettivo trattamento economico richiede una specifica base normativa, in difetto della quale l’Amministrazione, ai sensi del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 45, comma 2, deve garantire ai propri dipendenti parità di trattamento contrattuale e, comunque, trattamenti non inferiori a quelli previsti dai rispettivi contratti collettivi (Cass. 2 marzo 2011, n. 5097).

3.5.- Da quanto si è detto non può esservi dubbio sul fatto che, nella specie non solo debba essere operato il riassorbimento, ma anche che ciò debba avvenire in riferimento ai miglioramenti del trattamento economico complessivo dei dipendenti del Ministero, come disposto nei provvedimenti da cui ha avuto origine il presente giudizio).

3.6 – Deve essere, infine, precisato che rispetto a quanto fin qui esposto non assume alcun rilievo l’argomento – cui ha fatto riferimento la Corte d’appello – dell’assenza di disposizioni contenute nella contrattazione collettiva (applicabile) che disciplinino il riassorbimento delle eccedenze retributive che possono verificarsi nei passaggi del personale tra le varie Amministrazioni.

Infatti, secondo quanto si desume dal combinato disposto del D.Lgs. n. 165 del 2001, artt. 2 e 69, mentre alla contrattazione collettiva è demandata la determinazione degli elementi che concorrono a formare, condizionandosi a vicenda, il trattamento economico complessivo dei pubblici dipendenti, per quanto riguarda il riassorbimento alla contrattazione collettiva compete solo la definizione delle modalità applicative di operatività del relativo principio (già presente, peraltro, per quel che si è detto nell’ambito dello stesso D.Lgs.), sicchè attesa l’inderogabilità della normativa che delinea i criteri generali cui deve conformarsi il trattamento economico dei pubblici dipendenti, nel cui ambito rientra il principio del riassorbimento, in difetto di specifiche disposizioni dell’autonomia collettiva si applicano le disposizioni legislative in materia, essendo comunque preclusa alla contrattazione collettiva la possibilità di escludere l’operatività del suddetto principio (arg. ex Cass. 30 dicembre 2009, n. 27836; Cass. 18 gennaio 2012, n. 709; Cass. 14 luglio 2008, n. 19299).

4 – In sintesi, per tutte le esposte considerazioni, il ricorso va accolto e la sentenza impugnata deve essere cassata, con rinvio, anche per le spese del presente giudizio di cassazione, alla Corte d’appello di Torino, in diversa composizione, che si atterrà ai principi suindicati e, in particolare al seguente principio: “la regola per cui il passaggio da un datore di lavoro all’altro comporta l’inserimento del dipendente in una diversa realtà organizzativa e in un mutato contesto di regole normative e retributive, con applicazione del trattamento in atto presso il nuovo datore di lavoro (art. 2112 c.c.), è confermata, per i dipendenti pubblici, dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 30, che riconduce il passaggio diretto di personale da Amministrazioni diverse alla fattispecie della “cessione del contratto” (art. 1406 c.c.), stabilendo la regola generale dell’applicazione del trattamento giuridico ed economico, compreso quello accessorio, previsto nei contratti collettivi nel comparto dell’Amministrazione cessionaria, non giustificandosi diversità di trattamento (salvi gli assegni ad personam attribuiti al fine di rispettare il divieto di reformatio in peius del trattamento economico acquisito) tra dipendenti dello stesso ente, a seconda della provenienza. Tale regola – da applicare anche nel caso di passaggio dalle dipendenze di una Agenzia fiscale alle dipendenze di una Amministrazione inserita nel sistema burocratico dello Stato – comporta che ì suddetti assegni ad personam siano destinati ad essere riassorbiti negli incrementi del trattamento economico complessivo spettante ai dipendenti dell’Amministrazione cessionaria”.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese del presente giudizio di cassazione, alla Corte d’appello di Torino in diversa composizione.

b) infatti, nell’ipotesi di passaggio di lavoratori ad una diversa PA, l’eventuale diversificazione del rispettivo trattamento economico richiede una specifica base normativa, in difetto della quale l’Amministrazione, ai sensi dell’art. 45, comma 2, del d.lgs. n. 165 del 2001, deve garantire ai propri dipendenti parità di trattamento contrattuale e, comunque, trattamenti non inferiori a quelli previsti dai rispettivi contratti collettivi (Cass. 2 marzo 2011, n. 5097).

3.5.- Da quanto si è detto non può esservi dubbio sul fatto che, nella specie non solo debba essere operato il riassorbimento, ma anche che ciò debba avvenire in riferimento ai miglioramenti del trattamento economico complessivo dei dipendenti del Ministero, come disposto nei provvedimenti da cui ha avuto origine il presente giudizio).

3.6- Deve essere, infine, precisato che rispetto a quanto fin qui esposto non assume alcun rilievo l’argomento – cui ha fatto riferimento la Corte d’appello – dell’assenza di disposizioni contenute nella contrattazione collettiva (applicabile) che disciplinino il riassorbimento delle eccedenze retributive che possono verificarsi nei passaggi del personale tra le varie Amministrazioni.

Infatti, secondo quanto si desume dal combinato disposto degli artt. 2 e 69 del d.lgs. n. 165 del 2001, mentre alla contrattazione collettiva è demandata la determinazione degli elementi che concorrono a formare, condizionandosi a vicenda, il trattamento economico complessivo dei pubblici dipendenti, per quanto riguarda il riassorbimento alla contrattazione collettiva compete solo la definizione delle modalità applicative di operatività del relativo principio (già presente, peraltro, per quel che si è detto nell’ambito dello stesso d.lgs.), sicché attesa l’inderogabilità della normativa che delinea i criteri generali cui deve conformarsi il trattamento economico dei pubblici dipendenti, nel cui ambito rientra il principio del riassorbimento, in difetto di specifiche disposizioni dell’autonomia collettiva si applicano le disposizioni legislative in materia, essendo comunque preclusa alla contrattazione collettiva la possibilità di escludere l’operatività del suddetto principio (arg. ex Cass. 30 dicembre 2009, n. 27836; Cass. 18 gennaio 2012, n. 709; Cass. 14 luglio 2008, n. 19299).

III – Conclusioni

4.- In sintesi, per tutte le esposte considerazioni, il ricorso va accolto e la sentenza impugnata deve essere cassata, con rinvio, anche per le spese del presente giudizio di cassazione, alla Corte d’appello di Torino, in diversa composizione, che si atterrà ai principi suindicati e, in particolare al seguente principio: «la regola per cui il passaggio da un datore di lavoro all’altro comporta l’inserimento del dipendente in una diversa realtà organizzativa e in un mutato contesto di regole normative e retributive, con applicazione del trattamento in atto presso il nuovo datore di lavoro (art. 2112 cod. civ.), è confermata, per i dipendenti pubblici, dall’art. 30 del d.lgs. n.165 del 2001, che riconduce il passaggio diretto di personale da Amministrazioni diverse alla fattispecie della “cessione del contratto” (art. 1406 cod. civ.), stabilendo la regola generale dell’applicazione del trattamento giuridico ed economico, compreso quello accessorio, previsto nei contratti collettivi nel comparto dell’Amministrazione cessionaria, non giustificandosi diversità di trattamento (salvi gli assegni ad personam attribuiti al fine di rispettare il divieto di reformatio in peius del trattamento economico acquisito) tra dipendenti dello stesso ente, a seconda della provenienza. Tale regola – da applicare anche nel caso di passaggio dalle dipendenze di una Agenzia fiscale alle dipendenze di una Amministrazione inserita nel sistema burocratico dello Stato – comporta che i suddetti assegni ad personam siano destinati ad essere riassorbiti negli incrementi del trattamento economico complessivo spettante ai dipendenti dell’Amministrazione cessionaria».

P.Q.M.

Accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese del presente giudizio di cassazione, alla Corte d’appello di Torino in diversa composizione.

1 Infatti, la giurisprudenza ha in diverse occasioni individuato come idonei al riconoscimento dell’assegno perequativo quei casi di passaggio tra amministrazioni, connotati dalla stabile collocazione del dipendente nei ruoli dell’Amministrazione di destinazione. ed, in particolare, anche nel caso in cui il passaggio sia avvenuto mediante concorso pubblico (T.A.R. Lazio. Sez. II ter n. 3429/2004, Consiglio di Stato, IV sez., 66/2002).

2 Si veda ad es: l’art. 4 dell’Accordo sindacale 16/2/2001 Comparto Ministeri.

3 C.d.s. Sez. IV sent. n. 5542/03.

4 Sandulli, Manuale di diritto Amministrativo, XV Ed.

5 In quanto, ad esempio, l’amministrazione di destinazione svolge funzioni strumentali a quelle dell’amministrazione di provenienza.

6 In particolare, per quanto riguarda la mobilità obbligatoria interna si veda l’art. 1 comma 29 D.L. 138/2001, conv. in L. 148/2011 e per quanto riguarda la mobilità esterna l’art. 16 della L. 183/2011 (legge di stabilità 2011) che ha modificato l’art. 33 D.lgs 165/2001.

7 Comunque già previsto nel caso accorpamento e soppressione delle amministrazioni pubbliche (art. 31 D.lgs 165/2001) o di eccedenza di personale (art. 33).

8 Si veda da ultimo l’art. 2 del D.L. 95/2012 (Disposizioni urgenti per la revisione della spesa).

9 Che costituisce diretta espressione dei principi costituzionali espressi nell’art. 36 Cost.

10 Con la conseguenza che detto assegno verrà ridotto proporzionalmente agli aumenti, fino a totale copertura del suo importo.

11 Conformi Cass. 8 maggio 2006, n. 10449 e Cass. 29 luglio 2009, n. 17645.

12 Cass. 16 giugno 2005, n. 12956; Cass. 13 aprile 2006, n. 8693; Cass. 19 novembre 2010, n. 23474; Cass. 2 marzo 2011, n. 5097.

13 Ed infatti, in assenza di specifiche deroghe normative, il riconoscimento di un assegno ad personam non riassorbibile (che si mantiene inalterato per tutta la vita lavorativa del fruitore) si porrebbe in contrasto con le citate disposizioni del T.U..

14 Tali limiti devono ritenersi operanti in via analogica anche nel caso di assegno ad personam riassorbibile, ossia riconosciuto sulla base del solo principio generale di divieto di reformatio in peius.

15 E, peraltro, attesa la natura precaria di detti emolumenti accessori non si può ritenere violato l’art. 36 Cost, sotto il profilo della proporzionalità ed adeguatezza della retribuzione.

16 Sentenza Tribunale di Roma, Sez. Lavoro, 3 luglio 2012 n. 12329, *******************; che ha escluso che l’indennità di esclusività medica possa far parte di un assegno ad personam da riconoscersi ai dirigenti medici dipendenti di ASL transitati per mobilità nei Ruoli del Ministero della Salute.

Cipriano Leonardo

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