Non brevettabili i prodotti la cui creazione comporta la distruzione di embrioni umani

Redazione 20/10/11
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di Lilla Laperuta

Solo l’utilizzazione di una procedura per finalità terapeutiche o diagnostiche che si applichi all’embrione umano e sia utile a quest’ultimo può essere oggetto di un brevetto. Questo, in sintesi, l’esito finale della questione pregiudiziale rimessa alla Corte di giustizia europea nella causa C-34/10 (decisa lo scorso 18 ottobre) fra Oliver Brüstle e Greenpeace riguardante l’interpretazione della direttiva n. 98/44 sulla brevettabilità delle invenzioni biotecnologiche.

È da premettere che lo strumento del rinvio pregiudiziale consente ai giudici degli Stati membri, nell’ambito di una controversia della quale sono investiti, di interpellare la Corte in merito all’interpretazione del diritto europeo o alla validità di un atto dell’Unione. La Corte dunque non risolve la controversia nazionale. Sarà il giudice nazionale a risolvere la causa conformemente alla decisione della Corte. La stessa decisione vincola gli altri giudici nazionali investiti di analoga questione.

Nella fattispecie la Corte europea è stata interpellata dalla Corte federale tedesca di cassazione in merito all’interpretazione della nozione di «embrione umano», non definita dalla direttiva citata. Si tratta di sapere se l’esclusione della brevettabilità dell’embrione umano riguardi tutti gli stadi della vita a partire dalla fecondazione dell’ovulo o se debbano essere soddisfatte altre condizioni, ad esempio che sia raggiunto un determinato stadio di sviluppo. Nel fascicolo del brevetto depositato dal sig. Brüstle, in particolare, viene indicato che l’impianto di cellule cerebrali nel sistema nervoso costituisce un metodo promettente per il trattamento di numerose malattie neurologiche. Esistono già prime applicazioni cliniche, segnatamente su pazienti affetti dal morbo di Parkinson.

La questione è delicata: la mancanza di una definizione uniforme della nozione di embrione umano porta inevitabilmente al rischio che gli autori di talune invenzioni biotecnologiche siano tentati di chiederne la brevettabilità negli Stati membri che concepiscono nel modo più restrittivo la medesima nozione e, quindi, i più permissivi per quanto riguarda le possibilità di brevettare le invenzioni di cui trattasi, a motivo del fatto che la brevettabilità delle stesse sarebbe esclusa negli altri Stati membri. Una tale situazione finirebbe per concretare una lesione al buon funzionamento del mercato interno, che costituisce lo scopo della suindicata direttiva.

La nozione elaborata dai giudici di Lussemburgo è molto ampia: “sin dalla fase della sua fecondazione qualsiasi ovulo umano deve essere considerato come un «embrione umano», ai sensi e per gli effetti dell’ art. 6, della direttiva, dal momento che la fecondazione è tale da dare avvio al processo di sviluppo di un essere umano…

Deve essere riconosciuta questa qualificazione anche all’ovulo umano non fecondato in cui sia stato impiantato il nucleo di una cellula umana matura e all’ovulo umano non fecondato indotto a dividersi e a svilupparsi attraverso partenogenesi. Anche se tali organismi non sono stati oggetto, in senso proprio, di una fecondazione, gli stessi, per effetto della tecnica utilizzata per ottenerli, sono tali da dare avvio al processo di sviluppo di un essere umano come l’embrione creato mediante fecondazione di un ovulo”.

 

È da sottolineare che la legislazione italiana è perfettamente in linea con le conclusioni della Corte europea. Si cita l’articolo 13 della L. 40/2004 (legge sulla procreazione medicalmente assistita) nel punto in cui si afferma che la ricerca clinica e sperimentale su ciascun embrione umano è consentita a condizione che si perseguano finalità esclusivamente terapeutiche e diagnostiche ad essa collegate volte alla tutela della salute e allo sviluppo dell’embrione stesso.

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