Molestie sessuali negli ambienti di lavoro: illiceità del fatto e risarcibilità del danno come elementi autonomi della fattispecie

Redazione 04/04/04
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di Dott.ssa Chiara Lensi, specializzata alla Scuola di Specializzazione delle Professioni Legali dell’Università degli Studi di Firenze.
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Che le molestie sessuali siano un tema difficile, di problematica regolazione, fatto di intrecci delicati che si muovono lungo un terreno scivoloso e sdrucciolevole, è ormai un dato acquisito.
Tutto sta nel riuscire a distinguere atteggiamenti che denotano familiarità, attrazione, mutuo consenso da comportamenti che sono, invece, sessualmente molesti (così, M. BARBERA, Molestie sessuali: la tutela della dignità, in Dir. prat. lav., 1992, 1401).
Definire le molestie sessuali significa, infatti, tracciare un concetto generale ed astratto in grado di accomunare condotte tra loro diversissime, ma ugualmente riprovevoli, senza tuttavia sconfinare negli eccessi opposti della vaghezza ovvero della repressione a tutti i costi.

Stando ai risultati messi in luce dall’esperienza nazionale e comunitaria, è comunque possibile ravvisare una molestia sessuale in ogni comportamento a connotazione sessuale, o qualsiasi altro tipo di comportamento basato sul sesso, indesiderato per chi lo riceve, compreso quello di superiori o colleghi, che offende la dignità di uomini e donne nel mondo del lavoro.
Il riferimento al requisito del non gradimento – quale discrimen tra ciò che è permesso e ciò che invece non lo è – non deve, tuttavia, trarre in inganno.
Le molestie sessuali non vanno, infatti, individuate secondo un criterio di indesideratezza puro (per cui è molesto solo ciò che la vittima percepisce come tale), bensì temperato da parametri di ragionevolezza, per cui sarà sì molesto quel comportamento sgradito per chi lo subisce, purché tale comportamento sarebbe risultato indesiderato anche ad un’altra persona (sensata) dello stesso sesso ed età della vittima, che si fosse trovata a dover fronteggiare il fatto nelle medesime circostanze.

Le molestie sessuali sono comportamenti che assumono rilevanza sotto molteplici aspetti (poiché non interessano il solo diritto del lavoro, ma anche il diritto civile, il diritto penale, il diritto pubblico, il diritto amministrativo, il diritto internazionale, il diritto comparato, il diritto angloamericano, la filosofia del diritto, la sociologia del diritto, nonché altre materie di studio, quali la psicologia e la medicina); non catalogabili a priori (a patto di non voler congelare i rapporti di lavoro stessi); plurioffensivi (offendendo, al tempo stesso, una pluralità di beni giuridici, quali la dignità personale, la libertà individuale, la libertà sessuale e quella di autodeterminarsi, non ultime l’integrità psicofisica, la salute e l’esistenza di un individuo); tendenzialmente democratici (sia pur con una certa prevalenza del genere femminile sul maschile, in linea di massima le molestie sessuali possono colpire qualunque individuo [donne, uomini, anziani, giovani, capaci, incapaci, ricchi, poveri], in qualsiasi settore [il luogo di lavoro, ma anche la scuola, la famiglia, la caserma]).
Le molestie sessuali sono altresì un costo sociale, riflettendosi negativamente non solo sul singolo dipendente colpito (nella sua dignità, sicurezza, professionalità, salute), ma anche sul datore di lavoro e sull’azienda nel suo complesso (in termini di perdita di produttività, di competenza e di aumento dei costi); nonché sullo Stato e sulla collettività in generale (il primo, fallendo nel suo compito di garante della libertà sessuale, morale, dell’ordine e della tranquillità pubblica; la seconda, vedendo leso il suo interesse alla parità di trattamento e all’uguaglianza di opportunità ed essendo anche a suo carico lo stipendio del lavoratore molestato); sono, infine, comportamenti illeciti di per sé (nel senso che l’offensività del lavoro molestato va rinvenuta in sé, a prescindere dal suo carattere discriminatorio).

Tale ultimo aspetto va inteso nel senso che la molestia sessuale è illecita anche se non è qualificabile come discriminazione in senso stretto, purché abbia violato:
1) o un diritto fondamentale della persona (nel qual caso sorgerà una responsabilità extracontrattuale, ossia relativa all’area delle controversie tra privati, ex art. 2043 c.c.);
2) o una norma contrattuale (nel qual caso sorgerà una responsabilità contrattuale, ossia relativa all’area delle controversie di lavoro, ex art. 2087 c.c., in tutti quei casi in cui la molestia sessuale sia riconducibile direttamente [perché autore] o indirettamente [a titolo di responsabilità in eligendo o in vigilando] al datore di lavoro).
In realtà, il riconoscimento di una responsabilità contrattuale indiretta del datore di lavoro ex art. 2087 c.c. pone immediatamente il problema del limite fino al quale egli possa essere chiamato a rispondere del danno che si è prodotto, ma che non ha direttamente provocato.
Probabilmente, la soluzione più opportuna è quella di riconoscere il datore di lavoro indirettamente responsabile ex art. 2087 c.c. soltanto in quei casi in cui egli sapeva (o doveva ragionevolmente sapere) e non è intervenuto per far cessare le molestie, anche se allo stadio iniziale (ad esempio, il complimento pesante).
Rinunciare a questa soglia minima di garanzia, getterebbe sul serio l’azienda in mano al terrore psicologico, in cui, ad aggravare la situazione, avremmo anche un datore che, pur di non essere chiamato a rispondere di omessa vigilanza ai sensi dell’art. 2087 c.c., interferirebbe pesantemente nella vita privata dei suoi dipendenti, togliendo al luogo di lavoro quella dimensione umana e relazionale che, invece, gli è propria e lasciando così aperta la questione del quale sia il male minore tra probabilità di subire molestie sessuali e certezza di ingerenze nella privacy, laddove non si arrivi addirittura alla messa in atto di intrusioni che potrebbero, a loro volta, essere avvertite come forme di molestia.
Ecco perché, oltre al temperamento della responsabilità indiretta ex art. 2087 c.c. con la prevedibilità della condotta, un ruolo non trascurabile, sul terreno della prevenzione, potrebbe essere giocato dalla contrattazione collettiva o dalla creazione di una figura di consulente – supervisore ad hoc, che possa fungere da valido supporto per sottrarre tensione psicologica al luogo di lavoro o, ancora, da un completo riconoscimento dell’onere, per il datore di lavoro, di utilizzare lo strumento disciplinare, a pena di responsabilità, anche se forse l’insorgenza di una responsabilità per mancato utilizzo della sanzione disciplinare dovrebbe essere limitata ai casi di molestatore recidivo (cioè, di chi sia già stato segnalato e non sia stato ancora sanzionato).
Responsabilità aquiliana ex art. 2043 c.c. e responsabilità contrattuale ex art. 2087 c.c. possono, comunque, coesistere tra loro, dal momento che tutelano posizioni differenti, dalla cui violazione viene fatta discendere l’illiceità in sé della molestia sessuale.
In particolare, mentre in base all’art. 2043 c.c. è tenuto al risarcimento chiunque abbia commesso un fatto illecito, produttivo di un danno per la vittima, consentendo in tal modo di colpire il piano orizzontale del lavoro molestato, ossia i casi in cui il comportamento molesto sia attuato da colleghi di pari grado o di grado inferiore, rispetto ai quali non potrebbe, evidentemente, operare l’obbligo di cui all’art. 2087 c.c.; la responsabilità contrattuale ex art. 2087 c.c. è, invece, riferita al solo datore di lavoro, andando a coinvolgere l’azienda in tutti quei casi in cui l’imprenditore non abbia adeguatamente tutelato l’integrità fisica e la personalità morale dei suoi dipendenti. Ovviamente, affinché il datore di lavoro possa essere chiamato al risarcimento del danno in base a questa disposizione, è necessaria la sussistenza di un nesso causale riferibile, a qualunque titolo, al datore di lavoro.
Ma i due tipi di responsabilità non si differenziano solo per gli individui cui si riferiscono.
Diverso è anche il periodo di prescrizione cui sono soggetti. Posto che il momento a partire dal quale s’inizia a calcolare la prescrizione è, in entrambi i casi, costituito dalla cessazione dell’ultimo atto molesto, i diritti ex art. 2087 c.c. si prescrivono in un periodo di tempo più lungo (dieci anni) di quelli derivanti dall’articolo 2043 c.c. (cinque anni).
Del pari, le due responsabilità si distinguono anche sul versante probatorio, richiedendo, l’art. 2087 c.c., la dimostrazione dell’inadempimento del contratto; l’art. 2043 c.c., la prova del fatto illecito, dell’animus doloso o colposo, oltre che un nesso di causalità tra i due. Anche in materia di molestie sessuali trovano, cioè, applicazione le norme generali in tema di responsabilità contrattuale ed extracontrattuale, per cui: chi domanda un risarcimento ex art. 2043 c.c. dovrà provare la condotta che ha determinato il danno; il nesso causale; la colpa o il dolo di colui che è ritenuto responsabile; chi, invece, domanda un risarcimento ex art. 2087 c.c. dovrà provare la sussistenza dei comportamenti illegittimi; il danno e il nesso causale tra la condotta e l’evento lesivo, mentre graverà sul datore, per escludere la sua responsabilità, la prova di aver adottato tutte le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del lavoratore.
Per quanto, invece, attiene al profilo della competenza a decidere sulla controversia, è riconosciuta quella del giudice del lavoro, secondo competenza per materia, non solo nel caso di azione contro l’azienda (qui il risarcimento trae origine dal rapporto contrattuale), ma anche per l’azione contro il molestatore (qui il rapporto di lavoro costituisce un presupposto necessario). In altre parole, anche se, teoricamente, la violazione dell’art. 2043 c.c. dovrebbe far scattare la competenza del tribunale ordinario, la giurisprudenza è oggi nel senso di riconoscere, anche in questi casi, la competenza del giudice del lavoro. Sarà, invece, competente il tribunale, secondo competenza per valore, per l’azione dei congiunti della vittima (deceduta e non) iure proprio, ancorché la morte sia stata cagionata da inadempienza contrattuale del datore verso il dipendente ex art. 2087 c.c., trovando la sua fonte esclusiva nella responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 c.c.. La competenza del giudice del lavoro potrà sussistere solo ove l’azione sia proposta iure hereditario;
3) o la previsione di cui all’art. 2049 c.c. (nel qual caso sorgerà una responsabilità del datore di lavoro per il danno arrecato dal fatto illecito compiuto da un suo dipendente, nell’esercizio delle incombenze a cui è adibito).
La previsione di cui all’art. 2049 c.c. risponde a criteri di razionalità (qui facit per alios, facit per se), di equità, di rischio (si parla, a riguardo, di responsabilità da rischio lecito) in forza dei quali viene riconosciuta in capo al datore di lavoro una forma di responsabilità senza che sia anche richiesta la colpa (no fault), che non rende ammissibile, evidentemente, la prova liberatoria.
Se mi sono scelto dei collaboratori per la mia attività, io stesso rispondo di quanto essi stiano per compiere, ma naturalmente soltanto nell’esercizio delle attività che svolgono per me, cioè nell’ambito della preposizione, o delle incombenze affidate: quando appunto l’esecuzione delle attribuzioni ricevute abbia reso possibile il fatto dannoso (così, A. TRABUCCHI, Istituzioni di diritto civile, CEDAM, Padova, 1994, 201).
Tale responsabilità è, in concreto, ritenuta sussistente nei casi in cui la mansione affidata dal datore di lavoro al suo dipendente abbia reso possibile il fatto illecito, collegando, in tal modo, l’esercizio delle incombenze, cui un lavoratore è adibito, e la commissione da parte del datore di lavoro se non proprio con un nesso di causalità, almeno con un rapporto di occasionalità necessaria.
Al di là della delicatezza della norma in esame, situata in limine alla responsabilità oggettiva, quello che mi pare, comunque, importante sottolineare è che di fronte all’insorgenza di una responsabilità ex art. 2049 c.c. il dipendente molestato finirebbe per essere terzo rispetto alle parti in causa, costituite evidentemente dal datore di lavoro e dal dipendente – molestatore.

Dalla giurisprudenza ci è dato desumere, poi, che l’aver subito molestie sessuali può determinare una giusta causa di dimissioni, configurabili, tra l’altro, in presenza di un mero disagio ambientale e che, per contro, compiere molestie sessuali, così come accusare qualcuno di averle compiute senza prove, può comportare un licenziamento per giusta causa.

Le molestie sessuali, seppure talvolta possono essere elementi costitutivi di reato, sono sempre comportamenti illeciti e, come tali, correlati a situazioni giuridiche soggettive che dovranno essere adeguatamente tutelate in sede civile (fermo restando il concorso con la tutela penale, ove sussista reato).

Per quanto attiene al profilo del danno, nessun problema giuridico si pone nei casi in cui le molestie sessuali determinino una lesione già conosciuta e contemplata dal nostro ordinamento, dato che in queste ipotesi sarà sufficiente estendere al comportamento vessatorio la disciplina esistente, come potrebbe avvenire in tutti i casi in cui la persecuzione comportasse o una deminutio patrimonii (danno patrimoniale); o una lesione della salute (danno biologico); o un patimento di natura non patrimoniale consistente in sofferenze dell’animo (i danni morali propriamente detti, i soli a soggiacere alla limitazione di cui all’art. 2059 c.c.).
Il problema si pone, dunque, per tutte quelle circostanze in cui pur mancando un pregiudizio patrimoniale, una lesione alla salute ed un reato, è ugualmente impossibile negare l’esistenza di un danno; situazione, questa, piuttosto frequente in casi di lavoro molestato.
In altre parole, è proprio quella caratteristica di illiceità di per sé che consente di consacrare il danno da molestie sessuali come un danno autonomo, lesivo di quel diritto esistenziale spettante a ciascun lavoratore e consistente nel diritto di svolgere, all’interno dell’azienda, il proprio mestiere con dignità, nel rispetto delle mansioni stabilite, con la possibilità di perseguire gli obiettivi prefissi e di sfruttare le opportunità di carriera; in altre parole, portando avanti la propria professionalità in un clima di rispetto e serenità tale da consentire una crescita sul lavoro, anche in aderenza ai principi costituzionali, senza soggiacere alle limitazioni previste dall’art. 2103 c.c..
Il danno esistenziale diviene così il danno tipico delle molestie sessuali, qualificabile in termini di danno – evento (nel senso che il danno da lavoro molestato si identifica con la semplice condotta molestante, anche se poi la vittima non abbia subito conseguenze ulteriori) e da ritenersi dimostrato con la sola prova della condotta che, di per sé, sarà già prova del danno (una volta, cioè, che l’attore abbia provato il comportamento dell’aggressore sarà esonerato di fatto dalla prova del danno esistenziale, giudicato appunto in re ipsa).
Al pari di quanto è avvenuto per il danno biologico (che ha trovato la sua legittimazione nell’art. 32 Cost.), il fondamento giuridico del danno esistenziale va rinvenuto nel combinato disposto: art. 2043 c.c. (o 2087 c.c., o 2049 c.c., a seconda di chi abbia posto in essere il comportamento persecutorio) + art. 41, 2° comma, Cost..

Ciò premesso, restano da chiarire alcune questioni.
Perché un soggetto (ad esempio, il datore di lavoro o un collega) sia chiamato a risarcire il danno che si è prodotto a seguito di un proprio comportamento più o meno molesto è, però, necessario che al danneggiante sia ascrivibile, almeno a titolo di colpa, l’evento dannoso, dal momento che obbligare un individuo a risarcire un danno che egli stesso non avrebbe ragionevolmente potuto né prevedere né evitare apparirebbe profondamente ingiusto.
Ciò premesso, il punto è: per sua stessa natura, è il danno esistenziale (e, quindi, il danno da molestie sessuali) concretamente prevedibile? E’ sul serio possibile imputare al soggetto agente la responsabilità della perdita di tutte quelle molteplici attività, sconosciute e come tali imprevedibili, di cui venga privato, in seguito, il destinatario passivo di tale comportamento? Siamo davvero così sicuri che la situazione del creditore, che si vede recapitare in ritardo la somma dovutagli dal debitore e che, come non è difficile presumere, abbia perduto la possibilità di ricavarne un qualche lucro, non avendo potuto investirla tempestivamente, sia equiparabile a quella dell’offeso che, in conseguenza dell’illecito dell’offensore, non potrà più giocare a scacchi, né tirare di scherma, collezionare etichette d’acqua minerale o ammaestrare pappagalli? (così, M., ROSSETTI, Danno esistenziale: adesione, iconoclastia od εποχη?, in http://www.studiomedico.it/allegati/art_10.htm).
In realtà, simili domande sono frutto di un’errata impostazione del problema che deriva in buona parte dalla sovrapposizione dei concetti di danno – evento e di danno – conseguenza.
Ritenere imprevedibile il danno esistenziale, e quindi non imputabile al danneggiante a titolo di colpa, è legato ad un’idea del diritto all’esistenza quale danno – conseguenza anziché danno – evento, per cui la prevedibilità o la prevenibilità dell’evento viene confusa con la prevedibilità delle conseguenza dannose che da esso sarebbero scaturite e che, loro sì, risulterebbero difficilmente conoscibili a priori.
In realtà, quello che è necessario sia prevedibile è l’evento dannoso stesso piuttosto che le sue conseguenze, né più né meno di quanto avviene per il danno biologico, al cui risarcimento è chiamato chi poteva prevedere la lesione alla salute, anche se le privazioni ingenerate dall’invalidità residuata alla lesione siano per lo più imprevedibili (così, M. ROSSETTI, op. cit.).

Quello che, invece, pare un conflitto insuperabile nella cui direzione dovrebbero indirizzarsi gli interessi dottrinali è quello dell’individuazione di un argine, di un qualche freno alla proliferazione delle figure di danno.
Anche ammettendo, infatti, che il limite alla creazione di diritti soggettivi vada individuato nella loro previsione a livello costituzionale (o, comunque, nel riferimento a norme di legge), la domanda è: se è necessario, perché il danno sia risarcibile, individuare la norma costituzionale o la norma di legge cui ancorare l’ingiustizia del danno, non viene in tal modo a perdersi tutta la portata innovatrice del danno esistenziale dal momento che è lo stesso ordinamento a considerare risarcibile la lesione di un qualsiasi interesse normativamente qualificato, senza che per questo debba essere messa in campo una nuova figura di danno? (Così, M. ROSSETTI, op. cit.).
Senza contare poi l’altro grande paradosso di cui si fa portatore il danno esistenziale e che lascia trapelare un qualche possibile spiraglio di luce con l’auspicabile modifica dell’art. 2059 c.c..
Per quanto, infatti, si cerchi di allontanare le obiezioni di eccessiva sovrapposizione tra le categorie del danno esistenziale e del danno morale, in base al ricorso a formule teoriche forti e d’effetto (per cui, in un modo assolutamente chiaro dal punto di vista concettuale, si dice che il danno esistenziale è un non facere, la rinuncia ad un’attività positiva, laddove il danno morale è piuttosto un pati, un lacrimare, la mera sofferenza soggettiva) e dando, del pari, per scontato il superamento dei limiti di cui all’art. 2059 c.c. mediante la risarcibilità altrimenti del danno non patrimoniale (situazione che, nonostante le dovute perplessità, è stata largamente superata dalla giurisprudenza in tema di danno biologico e che pertanto non può tornare ad assurgere a limitazione per altre categorie di danno che dal danno biologico hanno attinto la loro stessa ragion d’essere), tuttavia, nei fatti, la distinzione tra le due figure si rivela talvolta difficile, tanto da far propendere, di nuovo, per una riformulazione della disposizione dedicata al danno morale in grado di ricondurre le categorie di danno al binomio danno patrimoniale/danno non patrimoniale (in tal senso, M. ROSSETTI, op. cit.).
E ciò non solo perché la pratica ci insegna che anche il riposo o l’ozio costituiscono attività esistenziali (e conseguentemente il danno esistenziale potrà talvolta sostanziarsi pure nella perdita di un non facere), ma soprattutto perché appare quanto mai fuorviante ricondurre le lacrime al solo danno morale e la rinuncia ad un’attività al solo esistenziale, ben potendo, in concreto, essere situazioni che coesistono (così, M. ROSSETTI, op. cit.).
Così come il soffrire, tipico del danno morale, ha in sé l’essenza della rinuncia (soffro perché le lesioni mi costringono a rinunciare a fare certe cose o perché l’omicidio mi obbliga a rinunciare ad un congiunto), allo stesso modo colui che viene messo nell’impossibilità di portare avanti una determinata attività, non potrà non soffrire per tale rinuncia (così, M. ROSSETTI, op. cit.).
Il rischio in una tale commistione non si rinviene tanto sul piano concettuale, quanto invece su quello della liquidazione del danno, per cui laddove si scelga di non affannarsi, di volta in volta, a scorporare il danno esistenziale da quello morale, l’alternativa parrebbe essere quella di duplicare la liquidazione del danno per la stessa privazione (in tal senso, M. ROSSETTI, op. cit.).
Riflessioni, queste, che non inducono a smentire l’opportunità della creazione del danno da molestie sessuali quale lesione di nuovo conio, purché consapevoli della sua necessaria temporaneità e provvisorietà, in attesa di un intervento legislativo che ci liberi, una volta per tutte, dalle strettoie del danno biologico e dall’evanescenza di quello morale.

Redazione

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