Minaccia di azioni legali per ottenere il pagamento dei compensi può configurare estorsione?

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La Corte di Cassazione ha chiarito con una recente sentenza (n. 50652 del 19 dicembre 2023) sulla configurabilità del reato di estorsione nel caso di minaccia, da parte di un avvocato, di azioni legali per ottenere il pagamento dei compensi dovuti.

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Corte di Cassazione – Sez. II Pen. – Sent. n. 50652 del 19/12/2023

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Indice

1. I fatti

La sentenza in oggetto scaturisce dal ricorso presentato dall’imputato avverso la pronuncia della Corte di appello di Genova che, riformando quella di primo grado che aveva assolto l’avvocato dal reato di estorsione tentata e consumata, lo ha condannato alla pena di anni uno, mesi dieci di reclusione ed euro 400 di multa solo per il reato di tentata estorsione, confermando l’assoluzione per l’estorsione consumata.
Ciò che si contestava all’avvocato era: a) di aver prospettato al cliente che avrebbe azionato davanti al giudice civile le proprie pretese in ordine ai compensi dovuti senza considerare gli acconti in contanti versati; b) di avere ottenuto l’emissione di cinque decreti ingiuntivi per le somme dovute; c) di avere notificato i relativi atti di precetto per procedere al pignoramento di un immobile del cliente; d) di avere pignorato le quote della pensione del cliente; e) di avere pignorato presso terzi la complessiva somma di euro 17.291,89 costringendo, così, il cliente a difendersi nelle varie sedi giudiziali ed a subire i pignoramenti indicati procurandosi l’ingiusto profitto identificato nelle somme riscosse.
La Corte d’appello, dunque, riteneva provata la responsabilità per il “delitto tentato” in quanto si doveva considerare che il persistere dell’azione estorsiva non identificabile con un solo procedimento, ma con la reiterazione di domande giudiziarie, era indicativo della volontà di ottenere più di quanto legalmente dovuto.

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2. Azioni legali per ottenere i compensi e reato di estorsione: l’analisi della Cassazione

La Corte di Cassazione analizza la questione ribadendo la giurisprudenza secondo cui “integra gli estremi del reato di estorsione e non quello di truffa la minaccia di prospettare azioni giudiziarie – nella specie decreti ingiuntivi e pignoramenti – al fine di ottenere somme di denaro non dovute o manifestamente sproporzionate rispetto a quanto dovute, qualora l’agente ne sia consapevole, potendosi individuare il male ingiusto ai fini dell’integrazione del più grave delitto nella pretestuosità della richiesta“.
La Corte riafferma, inoltre, che in tema di estorsione, la minaccia di adire le vie legali, avendo un’esteriore apparenza di legalità, può integrare l’elemento costitutivo del delitto di cui all’art. 629 cod. pen. quando sia formulata con l’intenzione di esercitare un diritto, ma con lo scopo di coartare l’altrui volontà e conseguire risultati non conformi a giustizia.
Successivamente a tale riflessione, la Suprema Corte osserva come, nel caso di specie, l’inquadramento della condotta nel reato di estorsione si profili illegittimo. Infatti, l’azione “costrittiva” non è stata identificata nella minaccia di fare ricorso all’autorità giudiziaria per ottenere somme non dovute, ma nel concreto ottenimento, attraverso la mediazione del giudice civile, di atti di decreto ingiuntivo e precetto, oltre che nelle successive azioni di pignoramento. Ma queste, ad avviso della Corte, sono condotte che non possono essere inquadrate come estorsione perché l’intervento del giudice esclude la sussistenza di una “illecita costrizione” e di un “profitto ingiusto“.

3. La decisione della Corte

La Corte di Cassazione conclude criticando fortemente la sentenza della Corte di appello, osservando come le affermazioni errate poste alla base della pronuncia minino l’intero impianto accusatorio e si riverberino inevitabilmente sulla condanna per la condotta di estorsione tentata.
Infatti, si ritiene che la controversia tra l’avvocato e il suo cliente non possa essere inquadrata in una fattispecie penalmente rilevante, ma piuttosto come una controversia civilistica inerente la quantificazione degli importi dovuti per la prestazione d’opera professionale.
Ad avviso della Suprema Corte, il fatto che l’avvocato “abbia fatto ricorso al giudice e non si sia limitato a paventare di attivare azioni giudiziarie esclude la sussistenza del delitto sia nella forma consumata che in quella tentata, come descritta nel capo di imputazione, che identifica il tentativo nella attività funzionale ad ottenere piena soddisfazione del credito già riconosciuto attraverso le procedure esecutive“.
La Corte ha, dunque, annullato la sentenza impugnata perché il fatto non sussiste.

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