Messa alla prova e rito abbreviato: niente incompatibilità del giudice

La Corte costituzionale esclude l’illegittimità dell’art. 34, co. 2, c.p.p.: l’ammissione alla MAP non preclude la decisione sul rito abbreviato.

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Corte costituzionale -sentenza n. 190 del 6-10-2025

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Indice

1. La vicenda processuale e il problema della “prevenzione” del giudice


Il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Macerata era chiamato a giudicare, nelle forme del rito abbreviato, una persona imputata del reato di cui all’art. 73, commi 1 e 4, del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza).
In particolare, codesto accusato, in seguito alla notificazione del decreto di giudizio immediato, aveva chiesto di essere ammesso alla messa alla prova, previa riqualificazione del fatto contestatogli nella fattispecie attenuata di cui all’art. 73, comma 5, del citato testo unico, e, in subordine, che il processo venisse celebrato con rito abbreviato.
Orbene, a fronte di ciò, il giudice maceratese, riqualificata l’originaria imputazione nei termini richiesti, aveva disposto la sospensione del processo con messa alla prova per poi revocarla, in quanto l’imputato, dopo aver dichiarato all’ufficio di esecuzione penale esterna di non essere più interessato al beneficio, aveva insistito per la definizione del processo mediante giudizio abbreviato.
Dal canto suo, siffatto organo giudicante, reputando ammissibile tale rito alternativo, aveva formulato istanza di astensione «avendo in precedenza ritenuto in sede di MAP [messa alla prova] la riconducibilità dei fatti sub art. 73 c. V DPR 309/90» ma la richiesta in questione era stata rigettata dal Presidente di sezione delegato sul rilievo che si trattava di una «”[…] decisione avanzata nella stessa fase processuale e che non implica comunque una approfondita valutazione sul merito della accusa ma unicamente una delibazione sulla insussistenza di causa di proscioglimento ex art. 129 cpp”».
In seguito a tale provvedimento, il GIP aveva, quindi, sollecitato una rivalutazione di tale decisione evidenziando come l’ammissione alla messa alla prova fosse stata pronunciata in una fase diversa e avesse riguardato, oltre alla insussistenza di cause di proscioglimento, la «riconducibilità delle condotte sub art. 73 c. V, DPR 309/90» ma, tuttavia, il provvedimento era stato confermato.
Questo G.I.P., pertanto, rilevava come il caso di specie non sia contemplato tra le ipotesi di incompatibilità previste dall’art. 34, comma 2, cod. proc. pen., e non configuri neppure un motivo di ricusazione, così come non sarebbe stato nemmeno appagante, a suo avviso, il ricorso all’astensione, «non potendo essere rimessa alla discrezionalità del singolo magistrato la autovalutazione della propria capacità professionale di non lasciarsi. Per supporto ai professionisti, abbiamo preparato uno strumento di agile consultazione, il “Formulario annotato del processo penale 2025”, giunto alla sua V edizione, acquistabile sullo Shop Maggioli e su Amazon, e il Codice Penale e norme complementari 2026 – Aggiornato a Legge AI e Conversione dei decreti giustizia e terra dei fuochi, acquistabile sullo Shop Maggioli e su Amazon.

2. Le questioni di legittimità costituzionale: terzietà, imparzialità e art. 34 c.p.p.


Il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Macerata, in relazione alla vicenda giudiziaria suesposta, sollevava, in riferimento agli artt. 3 e 111 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 34, comma 2, del codice di procedura penale nella parte in cui «non prevede la incompatibilità a decidere in sede di giudizio abbreviato del giudice che abbia in precedenza ammesso l’imputato alla messa alla prova, in tale sede esprimendosi espressamente in ordine alla qualificazione giuridica dei fatti e riqualificando la ipotesi originariamente contestata in diverso titolo di reato».
In particolare, nel motivare la non manifesta infondatezza delle questioni, il giudice a quo riportava ampi stralci della sentenza n. 16 del 2022 della Consulta con la quale, sulla base di parametri parzialmente coincidenti con quelli evocati nel presente giudizio, è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo lo stesso art. 34, comma 2, cod. proc. pen. «nella parte in cui non prevede che il giudice per le indagini preliminari, che ha rigettato la richiesta di decreto penale di condanna per mancata contestazione di una circostanza aggravante, sia incompatibile a pronunciare sulla nuova richiesta di decreto penale formulata dal pubblico ministero in conformità ai rilievi del giudice stesso».
Più nel dettaglio, nei passaggi richiamati dal rimettente, si osservava, anzitutto, la giurisprudenza costituzionale secondo la quale le norme sull’incompatibilità del giudice derivante da atti compiuti nel procedimento sono poste a tutela dei valori di terzietà e di imparzialità della giurisdizione, presidiati dagli artt. 3, 24, secondo comma, e 111, secondo comma, Cost., essendo finalizzate a evitare che la decisione sul merito della causa possa «essere o apparire condizionata dalla forza della prevenzione […] scaturente da valutazioni cui il giudice sia stato precedentemente chiamato in ordine alla medesima res iudicanda», evidenziando, di conseguenza, che l’incompatibilità «presuppone una relazione tra due termini: una “fonte di pregiudizio” (ossia un’attività giurisdizionale atta a generare la forza della prevenzione) e una “sede pregiudicata” (vale a dire un compito decisorio, al quale il giudice, che abbia posto in essere l’attività pregiudicante, non risulta più idoneo)» (sentenza n. 16 del 2022, punto 4.2. del Considerato in diritto).
Oltre a ciò, si chiariva inoltre, che sempre alla luce della giurisprudenza della Consulta formatasi in subiecta materia, che per giudizio deve intendersi ogni processo che, in base a un esame delle prove, pervenga ad una decisione di merito: in tale nozione rientrano, oltre al giudizio dibattimentale, il giudizio abbreviato, l’applicazione della pena su richiesta delle parti e l’udienza preliminare, oltre a rilevare, alla luce dei passaggi della sentenza n. 16 del 2022, che, affinché la previsione dell’incompatibilità del giudice possa ritenersi costituzionalmente necessaria, occorre l’elemento della preesistenza di valutazioni sulla medesima res iudicanda strumentali all’assunzione di una decisione, non essendo sufficiente la sola conoscenza di atti anteriormente compiuti, tenuto conto altresì del fatto che la statuizione pregiudicante deve avere natura non formale, ma di contenuto, nel senso che deve basarsi su valutazioni attinenti al merito dell’ipotesi accusatoria, e non al mero svolgimento del processo, fermo restando che il precedente apprezzamento deve collocarsi in una diversa fase del procedimento, dovendo, all’interno di ciascuna delle fasi, preservarsi «l’esigenza di continuità e di globalità».
Pertanto, da ciò se ne faceva discendere che il giudice non incorre in incompatibilità allorché compia «valutazioni preliminari, anche di merito, destinate a sfociare in quella conclusiva, venendosi altrimenti a determinare una “assurda frammentazione” del procedimento, che implicherebbe la necessità di disporre, per la medesima fase del giudizio, di tanti giudici diversi quanti sono gli atti da compiere (sentenze n. 153 del 2012 e n. 131 del 1996)» (si citava all’uopo, ancora, la sentenza n. 16 del 2022).
Tra l’altro, Il rimettente, «ten[endo] conto delle indicazioni» fornite dalla richiamata pronuncia, deduceva che la decisione, alla quale era chiamato a decidere secondo il rito abbreviato, non solo costituirebbe una funzione di giudizio, ma risulterebbe pregiudicata dalle «precedenti determinazioni già assunte», le quali, concernendo la riqualificazione del fatto oggetto di imputazione, «cadono sulla medesima res iudicanda» visto che, a suo avviso, l’operata derubricazione conterrebbe un apprezzamento dell’ipotesi accusatoria «strumentale all’assunzione di una decisione», come quella sulla messa alla prova, la quale, nel caso di specie, non avrebbe potuto essere ammessa in relazione al fatto originariamente contestato dal momento che tale provvedimento è stato adottato in una fase del procedimento diversa da quella nella quale egli deve pronunciarsi.
Tal che se ne faceva discendere come non sarebbe configurabile unitarietà di fase «per il sol fatto che genericamente si sia post emissione di decreto di giudizio immediato, con richiesta di riti alternativi», dal momento che a una prima fase concernente la procedura della messa alla prova, conclusa con la revoca del provvedimento di ammissione, ne era seguita un’altra, del tutto autonoma e separata dalla prima, nella quale il giudizio doveva essere trattato nelle forme del rito abbreviato.
Le questioni di legittimità costituzionale sollevate risulterebbero, infine, sempre ad avviso del giudice a quo, «evidentemente rilevant[i]», in quanto lo stesso rimettente doveva stabilire se «possa/debba o meno trattare e decidere il giudizio abbreviato richiesto dalla difesa a seguito della revoca della messa alla prova», essendo stata rigettata la sua istanza di astensione in mancanza di una espressa previsione di incompatibilità per il caso di specie.

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3. La risposta della Consulta: unità della fase e assenza di incompatibilità


La Corte costituzionale – dopo avere ripercorso le argomentazioni prospettate nell’ordinanza di rimessione e reputate infondate le eccezioni di inammissibilità formulate dal Presidente del Consiglio dei ministri – stimava le questioni suesposte infondate.
In particolare, il Giudice delle leggi osservava prima di tutto che, per costante giurisprudenza costituzionale, la disciplina dell’incompatibilità di cui si tratta rinviene la sua ratio nella salvaguardia dei valori della terzietà e imparzialità del giudice presidiati dall’art. 111, secondo comma, Cost., essendo intesa a evitare che questi possa pronunciarsi quando sia condizionato dalla “forza della prevenzione” ‒ cioè «dalla tendenza a confermare una decisione o a mantenere un atteggiamento già assunto, derivante da valutazioni che sia stato precedentemente chiamato a svolgere in ordine alla medesima res iudicanda» ‒ e ad assicurare «che le funzioni del giudicare siano assegnate a un soggetto “terzo”, scevro di interessi propri che possano far velo alla rigorosa applicazione del diritto e anche sgombro da convinzioni precostituite in ordine alla materia su cui pronunciarsi» (sentenza n. 93 del 2024; nello stesso senso, ex aliis, sentenze n. 182 del 2025, n. 74 del 2024, n. 172 del 2023 e precedenti ivi citati), evidenziandosi al contempo che il principio di imparzialità del giudice si rinviene anche nell’ordinamento sovranazionale, posto che l’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo stabilisce che «ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale», e l’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea garantisce il diritto all’esame della causa da parte di un giudice «indipendente e imparziale, precostituito per legge».
Ciò posto, con riferimento alla incompatibilità “orizzontale”, che veniva in considerazione nel caso di specie, si notava come, sebbene la medesima Consulta abbia ripetutamente affermato che essa presuppone una relazione tra una “fonte di pregiudizio”, coincidente con un’attività giurisdizionale idonea a generare la forza della prevenzione, e una “sede pregiudicata”, ravvisabile in un compito decisorio al quale il giudice che abbia posto in essere l’attività pregiudicante non risulta più idoneo (ex aliis, sentenze n. 182 del 2025, n. 74 del 2024, n. 172 del 2023, n. 64, n. 16 e n. 7 del 2022), perché possa ritenersi sussistente tale forma di incompatibilità, non è, tuttavia, sufficiente la semplice conoscenza, da parte del giudice, di atti anteriormente compiuti, ma occorre che egli ne abbia effettuato una valutazione strumentale all’assunzione di una decisione, tanto più se si considera che quest’ultima deve, poi, avere natura non formale, ma di contenuto, nel senso che deve implicare valutazioni che attengono al merito dell’ipotesi di accusa e non già al mero svolgimento del processo.
Infine, affinché insorga un’incompatibilità endoprocessuale di rilievo costituzionale, è necessario che la precedente valutazione si collochi in una diversa fase del procedimento (ancora, ex aliis, sentenze n. 182 del 2025, n. 93 e n. 74 del 2024, n. 172 del 2023 e n. 64 del 2022).
Chiarito ciò, in ordine a quest’ultimo profilo, si notava per di più come sempre la Corte costituzionale, con indirizzo costante, abbia affermato che «[è] del tutto ragionevole […] che, all’interno di ciascuna delle fasi – intese come sequenze ordinate di atti che possono implicare apprezzamenti incidentali, anche di merito, su quanto in esse risulti, prodromici alla decisione conclusiva – resti, in ogni caso, preservata l’esigenza di continuità e di globalità, venendosi altrimenti a determinare una assurda frammentazione del procedimento, che implicherebbe la necessità di disporre, per la medesima fase del giudizio, di tanti giudici diversi quanti sono gli atti da compiere (ex plurimis, sentenze n. 153 del 2012, n. 177 e n. 131 del 1996; ordinanze n. 76 del 2007, n. 123 e n. 90 del 2004, n. 370 del 2000, n. 232 del 1999)» (sentenza n. 18 del 2017).
Da ciò se ne faceva dunque discendere come debba escludersi la configurabilità circa una incompatibilità di rilievo costituzionale all’interno della medesima fase processuale dal momento che il processo è, per sua natura, costituito da una sequenza di atti, ciascuno dei quali può astrattamente implicare apprezzamenti su quanto risulti incidere sui suoi esiti, così che, se si dovesse isolare ogni atto che contenga una decisione idonea a manifestare un apprezzamento all’interno della medesima fase, si pregiudicherebbe irrimediabilmente l’unitarietà del giudizio.
A tale riguardo, si osservava come del resto i giudici di legittimità costituzionale arecentemente rilevato che, poiché risponde a un dato di comune esperienza che la statuizione giudiziale, al pari di ogni processo decisionale, maturi in itinere, l’incompatibilità (ma lo stesso vale per l’astensione e la ricusazione) non può operare in relazione agli atti assunti nell’ambito della stessa fase processuale – quale frazione dell’iter decisorio in cui «il fenomeno della formazione progressiva del convincimento del giudicante si compie con peculiare concentrazione» –, venendo, altrimenti, a determinarsi «l’assoluta impossibilità di funzionamento della giurisdizione» (ancora, sentenza n. 182 del 2025).
Ordunque, conclusa questa disamina di ordine ermeneutico, si faceva presente che, nell’ipotesi specifica dell’ordinanza di sospensione del processo con messa alla prova, la quale veniva in rilievo nel caso di specie, il Giudice delle leggi ha escluso che il requisito della diversità di fase ricorra nell’ipotesi in cui la richiesta di tale beneficio sia stata rigettata prima della dichiarazione di apertura del dibattimento (ancora, sentenza n. 64 del 2022).
Del resto, se, nel giudizio definito con la pronuncia appena richiamata, i giudici rimettenti avevano ravvisato nel provvedimento ex art. 464-quater, comma 1, cod. proc. pen. un’approfondita valutazione sul merito dell’ipotesi di accusa, la Consulta ha, tuttavia, chiarito che, a prescindere dalla validità di tale assunto, i giudici a quibus avevano trascurato un «particolare essenziale», ossia che: la decisione individuata come fonte di pregiudizio «si colloca, non già in una fase processuale precedente e distinta, ma nella stessa fase – quella dibattimentale – rispetto alla quale l’invocato effetto pregiudicante dovrebbe dispiegarsi; il che esclude in radice, alla luce della ricordata, costante giurisprudenza [costituzionale], la configurabilità di una situazione di incompatibilità costituzionalmente necessaria» (sentenza n. 64 del 2022, punto 5.2. del Considerato in diritto).
D’altronde, ravvisavano sempre i giudici di legittimità costituzionale nella pronuncia qui in commento, anche la giurisprudenza di legittimità ha escluso che il provvedimento di rigetto dell’istanza di sospensione del procedimento con messa alla prova determini l’incompatibilità del giudice nel processo che prosegua nelle forme ordinarie, trattandosi di decisione adottata nella medesima fase processuale che non implica una valutazione sul merito dell’accusa, ma esclusivamente una delibazione sull’inesistenza di cause di proscioglimento immediato ai sensi dell’art. 129 cod. proc. pen., nonché una verifica dell’idoneità del programma di trattamento e una prognosi favorevole di non recidiva (ancora, Cass. n. 33260 del 2019).
Tanto premesso, ritornando ad esaminare la vicenda giudiziaria da cui erano scaturite le suddette questioni di legittimità costituzionale, la Consulta osservava che, se, nel giudizio principale, l’imputato, in seguito alla notificazione del decreto di giudizio immediato, ha avanzato richiesta di ammissione alla messa alla prova e, in subordine, di giudizio abbreviato, dal canto suo, il giudice a quo, avendo dapprima accolto, previa riqualificazione della imputazione, la richiesta ex art. 168-bis cod. pen., per poi revocarla a seguito di rinuncia dell’imputato, era in seguito chiamato a provvedere nelle forme del rito abbreviato, notandosi contestualmente che lo stesso rimettente riteneva come la decisione di cui era investito si collocasse in una fase distinta ed autonoma rispetto a quella in cui aveva assunto la statuizione ritenuta pregiudicante, ossia la diversa qualificazione del fatto contestato.
Orbene, per la Corte costituzionale, tale assunto non poteva essere condiviso, e ciò in ragione del fatto che la decisione sulla richiesta di messa alla prova si colloca non già in una fase processuale precedente e distinta, ma nella medesima fase ‒ quella della definizione anticipata del giudizio immediato attraverso i riti alternativi al dibattimento ‒ in cui, nella specie, deve giudicarsi nelle forme del rito abbreviato, così che il supposto effetto di prevenzione non può prodursi, tanto più se si considera che lo snodo processuale che si apre con l’innesto della richiesta di riti alternativi ‒ e, cioè, del giudizio abbreviato, del patteggiamento e della messa alla prova ‒ sul giudizio immediato instaurato dal pubblico ministero può condurre all’epilogo anticipato del processo secondo moduli decisori speciali.
Di conseguenza, tale fase, per la quale il GIP è investito di apposita competenza funzionale (Corte di Cassazione, Sezioni unite penali, sentenza 17-25 gennaio 2006, n. 3088), può concludersi tanto con una sentenza che definisce anticipatamente il processo (la sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti, la sentenza di condanna o di proscioglimento all’esito di giudizio abbreviato o la sentenza di proscioglimento per estinzione del reato, in caso di esito positivo della messa alla prova), quanto con una ordinanza di trasmissione degli atti al giudice del dibattimento, nel caso in cui nessuna delle richieste di riti alternativi trovi accoglimento o vada a buon fine (art. 458, comma 2-ter, cod. proc. pen.), visto che, soltanto in quest’ultima evenienza, prende avvio la distinta fase dibattimentale dinanzi a un giudice diverso.
Tra l’altro, considerato oltre tutto che il carattere unitario dello snodo processuale in esame è stato accentuato dalle modifiche apportate alla sua disciplina dal decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150 (Attuazione della legge 27 settembre 2021, n. 134, recante delega al Governo per l’efficienza del processo penale, nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari), la soppressione della facoltà, riconosciuta al GIP dalla disciplina anteriore, di delibare de plano l’istanza di definizione alternativa e la collocazione di tale valutazione in un’apposita udienza nella quale all’imputato è consentito di emendare la scelta originariamente compiuta, da un lato, mira a favorire l’accesso ai riti speciali e la definizione anticipata del giudizio immediato, dall’altro, individua una specifica sede processuale in cui il giudice può esaminare, in un unico contesto decisorio, le richieste avanzate dall’imputato.
Ad ogni modo, per la Corte, l’affinità teleologica che intercorre tra i procedimenti speciali innestabili sul giudizio immediato, la previsione, ad opera dei riformati artt. 458, comma 2, e 458-bis, comma 1, cod. proc. pen., di un’apposita udienza in cui tali forme di definizione alternativa possono essere sperimentate anche in via successiva e l’attribuzione al GIP di una specifica competenza funzionale valgono a configurare il momento procedimentale in esame come un’articolazione strutturalmente e funzionalmente unitaria.
Per la Consulta, quindi, a fronte del ragionamento decisorio sin qui assunto, nel contesto decisorio in esame le valutazioni espresse in relazione alla domanda di un rito alternativo alla quale non segua la definizione del giudizio non possono essere considerate “fonte di pregiudizio” per la decisione, nel medesimo contesto, sulla richiesta di un altro procedimento speciale.
La decisione sulla messa alla prova assunta dal giudice a quo si colloca, dunque, ad avviso del Giudice delle leggi, nella stessa fase della definizione anticipata del giudizio immediato attraverso i riti alternativi al dibattimento in cui il rimettente stesso è chiamato ora a decidere nelle forme del rito abbreviato, impedendo ciò in radice di ravvisare una incompatibilità di rilievo costituzionale, a prescindere dalla portata della statuizione nella specie ritenuta pregiudicante, ossia della riqualificazione giuridica del fatto operata ai fini della decisione sulla messa alla prova, tenuto conto altresì del fatto che, secondo la giurisprudenza di legittimità, tale diversa qualificazione non implica una delibazione del merito dell’ipotesi di accusa, ma è «limitata alla valutazione della correttezza dell’inquadramento della condotta descritta nell’imputazione nell’ambito della fattispecie astratta indicata dal pubblico ministero» (Corte di Cassazione, Sezione seconda penale, sentenza 25 ottobre-19 novembre 2018, n. 52088).
I giudici di legittimità costituzionale, alla luce delle considerazioni sin qui esposte, dichiaravano le questioni di legittimità costituzionale suesposte infondate.

4. Ricadute sistematiche della sentenza n. 190/2025 e conferma dell’assetto codicistico


Fermo restando che l’art. 34, co. 2, cod. proc. pen., com’è noto, prevede che non “può partecipare al giudizio il giudice che ha emesso il provvedimento conclusivo dell’udienza preliminare o ha disposto il giudizio immediato o ha emesso decreto penale di condanna o ha deciso sull’impugnazione avverso la sentenza di non luogo a procedere”, con la pronuncia qui in commento, la Consulta ha ritenuto tale disposizione codicistica non illegittima costituzionalmente nella parte in cui non prevede la incompatibilità a decidere in sede di giudizio abbreviato del giudice che abbia in precedenza ammesso l’imputato alla messa alla prova, in tale sede esprimendosi espressamente in ordine alla qualificazione giuridica dei fatti e riqualificando la ipotesi originariamente contestata in diverso titolo di reato.
Pertanto, alla luce di quanto statuito in siffatta decisione, non è ravvisabile una impossibilità di partecipare al giudice in giudizio da doversi definire con rito abbreviato, qualora costui abbia prima ammesso l’imputato alla messa alla prova, laddove sia espressamente pronunciato in ordine alla qualificazione giuridica dei fatti, riqualificando la ipotesi originariamente contestata in diverso titolo di reato.
Di conseguenza, ove si verifichi una situazione di questo genere, alla luce di tale sentenza, continuerà a essere inapplicabile l’art. 34, co. 2, c.p.p..
Questa è in sostanza la novità che connota il provvedimento qui esaminato.

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Avv. Di Tullio D’Elisiis Antonio

Avvocato e giornalista pubblicista. Cultore della materia per l’insegnamento di procedura penale presso il Corso di studi in Giurisprudenza dell’Università telematica Pegaso, per il triennio, a decorrere dall’Anno accademico 2023-2024. Autore di diverse pubblicazioni redatte per…Continua a leggere

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