Mediazione familiare e multietnicità

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Nell’era della globalizzazione, del flusso migratorio dei popoli notiamo che la miopia governativa, in tema di leggi certe ed applicate anche tendenti a salvaguardare gli atoctoni, è tale che l’andamento demografico positivo in Italia è dato proprio dalla nascita di figli di immigrati. E’ significativo che dopo lo scadere della mezzanotte del 31 dicembre sono numericamente superiori i bambini figli di coppie miste rispetto a quelle italiane. La presenza di unioni miste nella nostra società significa che siamo assistendo non solo ad una stabilizzazione del fenomeno immigratorio, ma del costituirsi di un tessuto interetnico fra autoctoni e immigrati. Si tratta segnali inconfondibili d’informazione sul grado di inserimento degli immigrati, l’attenuarsi del pregiudizio razziale ed etnico. Secondo diversi studiosi francesi ed inglesi il segnale d’integrazione etnica avviene attraverso le unioni familiari. Secondo J. Steiff – Senart l’unione interetnica si rappresenta come un vero e proprio laboratorio di comunicazione fra due culture. Laboratorio come fase di transizione in un mondo in trasformazione sollecitato dalla globalizzazione.
Solitamente troviamo:
  • la coppia mista che è formata da un partner musulmano che il più delle volte è sulla difensiva e non è ben predisposto verso il coniuge cattolico.
  • La parte cattolica che è priva di identità cristiano-cattolica, la richiesta del sacramento del proprio matrimonio o del battesimo del figlio è fatta per una sorta di compromesso con i propri parenti o amici.
  • I partners della coppia islamo-cattolica  che non hanno coscienza delle rispettive culture, tradizioni, costumi e religione.
La comunione di vita
 
La Chiesa sconsiglia il matrimonio misto tra musulmani e cattolici non solo per il timore di abbandono della fede da parte del coniuge cattolico, ma soprattutto perché è un’impresa ardua per una coppia mista ottimizzare le finalità del matrimonio sacramentale, sia rispetto ai coniugi, alla prole e alla comunità ecclesiale. Nel matrimonio cattolico, le mete da raggiungere e gli scopi non sono solo quelli inerenti dell’istituzione naturale del matrimonio, ma soprattutto le elevate spiritualità connesse che il Signore ha voluto includere nell’ elevare il matrimonio a segno efficace di grazia, "e così l’uomo e la donna, che per l’alleanza coniugale "non sono più due, ma una sola carne" (Mt. 19,6), prestandosi un mutuo aiuto e servizio con l’intima unione delle persone e delle attività, esperimentano il senso della propria unità e sempre più pienamente la conseguono" (GS 48). Concetto ripetuto nel Concilio Vaticano II nella Costituzione Gaudium et Spes, nella quale è scritto che “l’amore coniugale nella sua autenticità viene dall’amore divino elevato sorretto e accresciuto sia dalla forza di Cristo e dall’opera salvifica della Chiesa”.
 
Tanti sono i fattori sociologici e psicologici che contribuiscono all’aumento del numero dei divorzi in Europa e questi fattori influiscono ancora di più sui matrimoni misti, perché le pressioni psicologiche all’interno di tali unioni sono maggiori. Le donne in Europa sono attratte dagli ideali della carriera, emancipazione, autorealizzazione e parità di diritti. Per questo non sempre esse trovano comprensione da parte del marito e dei parenti musulmani. Si possono accumulare, per esempio, piccole irritazioni per le lingue che devono essere usate in famiglia, per il cibo, per la scelta della scuola e queste rendono l’atmosfera tesa tanto da poter provocare un divorzio. Arrivare a un divorzio può significare per la donna essere svantaggiata nei confronti dell’uomo. Anche se il giudice decide di affidare i figli alla madre, il padre può rapirli e portarli nel suo Paese d’origine.
Comunque, la cosa più importante per qualsiasi matrimonio, compreso quello tra cattolici e musulmani, è l’amore. Ma essendo il matrimonio un passo molto importante, è necessario che nessuno debba avere fretta di sposarsi e che tutti possano prepararsi adeguatamente.
Di questo dovrebbero tener conto i nostri governanti per evitare che le nuove generazioni, senza identità sociale e senza cittadinanza, si percepiscano come un’umanità si serie B, accumulando frustrazioni e ponendo in atto atteggiamenti ribelli, come hanno mostrato i fatti recenti delle banlieues parigine.
Nelle mentalità endogamiche la famiglia di origine, oltre a diventare pressoché l’unica fonte affettiva, diventa anche una fonte legislativa assoluta, cioè autonoma dai codici culturali della società, una sorta di stato indipendente nel quale vigono leggi autoctone situate a volte molto lontano dalle consuetudini valoriali condivise. In tali mentalità si massimalizza il principio di appartenenza (fino a farlo diventare un vero e proprio sentimento di proprietà) tra i membri della famiglia: ciascuno sente fortissima ed esclusiva l’appartenenza agli altri membri della famiglia e contestualmente sente che gli altri gli appartengono ugualmente in maniera esclusiva.
 
In una società in cui il potere si impone sempre più come controllo della comunicazione e delle risorse semantiche in luogo di quelle materiali, il mediatore svolge una funzione cruciale di redistribuzione di tale potere ad entrambe le parti.
Il dialogo esiste se c’è interesse alla relazione; l’inclinazione è data dalla qualità del rapporto tra le parti: agevolando la comunicazione il mediatore sostiene e rinforza la fiducia nella possibilità e nel valore della relazione tra i contendenti.
Il mediatore contribuisce con la propria competenza comunicativa alla creazione di uno spazio relazionale e semantico negoziato e condiviso, nel quale ogni partecipante al conflitto si possa riconoscere come avvantaggiato e possa uscire dalla propria definizione della relazione per gestire insieme il problema comune. Così facendo si istituisce una “via del buon senso” (Castelli, 1996), cioè la sintonizzazione nell’incontro tra sensibilità differenti.
Negli incontri il mediatore è il terzo che sa essere neutrale davanti ai vari problemi, rileva interessi, sentimenti e risorse delle parti (più che posizioni e diritti), acquisisce  informazioni, coglie le varie opinioni, e mediante una traduzione semantica li rende  reciprocamente comprensibili, tramite strumenti metodologici per trovare soluzioni da sperimentare.
E’ equidistante: rispetta la libertà ed i valori di ognuno, non influenzando con i propri; partecipa insieme alle parti alla valutazione delle relative conseguenze per decisioni e delle soluzioni adottate, ed ha l’obbligo di opporsi ad esse nel caso fossero sbilanciate. Questo è ciò che Castelli (1996) definisce “paradosso della mediazione”: per quanto neutrale, il mediatore non è estraneo, già la sua presenza cambia l’interazione tra i contendenti e fornisce imput per una evoluzione, nel rispetto delle regole e della legalità.
Da un punto di vista tecnico, il mediatore favorisce dialogo tra le parti, fissandone le regole e facendole rispettare, ad esempio tramite il controllo dei passaggi da una fase all’altra del colloquio; interviene di volta in volta per ridimensionare i danni, per esplicitare in maniera più comprensiva le tematiche, per tergiversare, per incoraggiare il processo, per rispettare un programma  nel colloquio e nel contatto diretto.
Se il conflitto è incompatibilità dichiarata di obiettivi e di interessi, oggi le sue manifestazioni più evidenti e distruttive sono quelle che riguardano non più le aree tradizionali dell’economia e del potere, ma quelle del riconoscimento dell’identità culturale ed etnica, della sicurezza personale e collettiva, della partecipazione alle decisioni, della libertà e delle opportunità sociali.
Pur con le scorie di cui la storia è portatrice, l’immigrazione può costituire una fase provvidenziale per conoscersi tra diversi e comprendersi. A livello operativo non sono pochi quelli che hanno maturato questa convenzione e attendono di trovare un supporto più diffuso.
 
 
Dottoressa in Scienze dell’educazione
Consulente dell’educazione familiare
Mediatrice Familiare

Corbi Mariagabriella

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