L’osteopata può sempre esercitare la professione in condominio?

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L’osteopata può continuare a svolgere la sua professione se non esiste o non è valida la clausola del regolamento condominiale che impedisce lo svolgimento di professioni sanitarie nel caseggiato.

Riferimenti normativi: art. 1138 c.c.

Precedenti giurisprudenziali: Cass. civ., Sez. II, Sentenza n. 6769 del 19/03/2018

La vicenda

La figlia di una condomina cominciava a svolgere la professione di osteopata nell’appartamento della madre. Il problema è che un articolo del regolamento vietava ai condomini o agli eventuali inquilini di questi di adibire i locali ad opifici di qualsiasi specie, ad uffici pubblici od ambulatori, cliniche o luoghi di cura, agenzie dì pegno, pensioni o mense, scuole di canto, musica o ballo e, in genere, a qualsiasi uso incompatibile col decoro e con la tranquillità dell’edificio. L’assemblea però sostanzialmente “legittimava” l’attività svolta dalla figlia della condomina, sottolineando come non rientrasse tra le professioni vietate del regolamento. Un condomino però impugnava la delibera dell’assemblea straordinaria che riteneva nulla o comunque annullabile. In ogni caso citava in giudizio anche la madre dell’osteopata chiedendo che fosse condannata a cessare l’attività e a corrisponderle una somma giornaliera per ogni giorno di ritardo nell’esecuzione della emananda sentenza. Il condominio si costitutiva ed eccepiva in giudizio la carenza di interesse ad agire del condomino in ordine all’impugnativa, posto che la delibera assembleare non aveva carattere definitivo ma costituiva soltanto una delibera interlocutoria. La proprietaria dell’appartamento eccepiva in giudizio la decadenza dall’impugnazione per mancato rispetto del termine di 30 giorni di cui all’articolo 1137 c.c., nonchè la nullità dell’articolo del regolamento condominiale che prevedeva il divieto di cambio di destinazione degli appartamenti facenti parte dell’edificio.

La questione

L’osteopata può sempre esercitare la professione in condominio?

La soluzione

Il Tribunale ha dato ragione alla madre dell’osteopata.

Il giudice milanese ha rilevato come l’attività in questione sia inserita tra le professioni sanitarie dall’articolo 7 della legge 11/1/2018 n° 3: di conseguenza secondo lo stesso giudice l’attività svolta dalla figlia della convenuta rientra con tutta evidenza tra quelle di “ambulatori, cliniche o luoghi di cura” il cui svolgimento presso il caseggiato è vietato dalla detta clausola del regolamento (del resto non è stato provato in atti che presso l’immobile vi fosse soltanto un ‘‘recapito commerciale o professionale). Tuttavia – come nota il Tribunale d’ufficio – l’attrice non ha provato, come era onere dell’attore, che la clausola regolamentare in esame, posta a fondamento della domanda dell’attore era stata registrata e trascritta o che la stessa era stata esplicitamente riportata nell’atto di acquisto e nella nota di trascrizione della condomina convenuta o in quelli dei suoi danti causa o che la stessa clausola era stata approvata espressamente dalla convenuta quale acquirente dell’immobile oggetto di causa. Alla luce di quanto sopra il Tribunale ha notato che, non essendo opponibile la clausola sopra esaminata alla condomina convenuta, l’assemblea condominiale nulla sul punto avrebbe dovuto o potuto autorizzare o vietare in concreto alla condomina. A parere del Tribunale la delibera quindi non è suscettibile di pregiudizio e di impugnazione da parte di un condomino.

Le riflessioni conclusive

Per comprendere la decisione bisogna sottolineare che per molto tempo la giurisprudenza ha sostenuto che le clausole inserite nel regolamento condominiale aventi natura contrattuale ed intese a limitare i poteri e le facoltà spettanti ai condomini sulle parti che siano di loro esclusiva proprietà devono ritenersi valide e vincolanti per gli acquirenti dei singoli appartamenti sempre che, benché non allegato all’atto notarile, allo stesso si faccia un esplicito richiamo all’atto dell’acquisto ed indipendentemente dalla successiva trascrizione.

Questa tesi è stata abbandonata dalla giurisprudenza più recente.

Attualmente si sostiene che le clausole limitative della destinazione d’uso se non trascritte sono sempre opponibili ai condomini che hanno accettato il regolamento, mentre non sono opponibili non solo ai successori a titolo particolare dei condomini stessi, ma anche al terzo acquirente, purché le clausole limitative non siano state esplicitamente riportate nel relativo atto di acquisto e nella trascrizione, o se non si fornisca la prova che lo stesso terzo abbia accettato, anche successivamente, tali limiti. Pertanto, sebbene l’omessa trascrizione non abbia alcuna influenza sul regolamento che resta valido, unica conseguenza che ne scaturisce è l’impossibilità di opporre ai successivi acquirenti delle singole unità immobiliari comprese nell’edificio le eventuali clausole limitative dei diritti esclusivi tra cui appunto la limitazione della destinazione d’uso (Cass. civ., Sez. II, 19/03/2018, n. 6769).

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Consulente legale condominialista Giuseppe Bordolli

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