L’Italian Sounding: le nuove frontiere della “imitazione”

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Sempre maggiore è il successo che i prodotti del made in Italy riscuotono fra i consumatori internazionali. Allo stesso modo, sono sempre più frequenti i fenomeni di imitazione o, peggio, contraffazione dei prodotti italiani ad opera di imprenditori esteri. Ciò al fine di poter sfruttare il pregio che l’origine conferisce al prodotto, aumentando, così, l’appetibilità dello stesso sul mercato. Dunque, in questi casi a conferire un valore aggiunto al prodotto è proprio il legame (o presunto tale nei casi di imitazione e contraffazione) dello stesso con il territorio. È in tale contesto che nasce e si sviluppa il fenomeno del c.d. Italian Sounding.

Di cosa di tratta?

Prima di definire il fenomeno dell’Italian Sounding, occorre precisare che questo non è altro che una delle differenti modalità con cui il prodotto italiano può essere riprodotto all’estero. Infatti, da esso va tenuto distinto il c.d. falso made in Italy o la contraffazione [1] che costituisce una autonoma ipotesi di reato perseguibile con appositi strumenti giuridici. La contraffazione o il falso made in Italy si manifestano con vere e proprie imitazioni illegali di marchi, design, modelli o ricette effettivamente registrati da un’impresa. Oggetto di contraffazione solitamente sono i prodotti DOP o IGP che, in quanto tali, devono rispettare disciplinari e regole ben definite a livello nazionale e comunitario. Ancora, sono considerati contraffatti quei prodotti che vengono identificati come originari dell’Italia o di una sua regione, pur essendo stati materialmente prodotti in altri paesi. Tale precisazione preliminare ci consente di definire in modo più preciso il fenomeno dell’Italian Sounding e di distinguere con maggior sicurezza quali situazioni sono espressione del c.d. Italian Sounding e quali, invece, no!

Volendo, ora, dare una definizione di Italian Sounding, potremmo dire che con tale espressione si indica un fenomeno evocativo diffuso maggiormente negli Stati Uniti, in Canada, in Australia, in America latina e in diversi altri mercati, inclusi anche quelli europei, relativo ai prodotti alimentari originari in tali paesi che attraverso l’utilizzo di parole, colori, immagini e riferimenti geografici sulle etichette e sulle confezioni, inducono il consumatore ad associare erroneamente il prodotto locale a quello autentico italiano[2]. In molti casi, a ciò, viene ad abbinarsi anche l’aggettivazione geografica delle etichette con riferimenti a noti luoghi italiani, accompagnate da espressioni quali “genere”, “del tipo”, “stile”, “imitazione di”, “secondo la tradizione”, “secondo la ricetta tipica” e simili nelle parti descrittive dei prodotti imitati.

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Quali sono i prodotti imitati più di frequente?

I prodotti italiani più imitati e venduti nei punti vendita stranieri sono quelli che possono vantare un legame diretto e forte con il territorio e, in particolar modo, i prodotti DOP/IGP. In tal caso si fa leva sul mancato riconoscimento da parte del consumatore estero di alcune peculiarità esclusive del prodotto che ne costituiscono la componente del valore.

In particolare, le categorie più colpite sono: formaggi; pasta, alimentare e fresca; sughi per pasta, pomodori pelati e conserve di pomodori; olio d’oliva; aceti; salumi e affettati; vino, aceto balsamico; pizze e persino la polenta.

Tuttavia, per “imitare” questi prodotti in paesi stranieri è necessario avvalersi di specifiche esperienze e conoscenze produttive, apportate spesso da emigranti italiani[3]. Infatti, il fenomeno dell’Italian Sounding è cresciuto notevolmente, fin dagli arbori delle emigrazioni, con l’impianto di aziende, da parte degli espatriati nei nuovi paesi, in cui dapprima si è continuato a produrre i medesimi beni prodotti in Italia e, successivamente, si è passati a creare prodotti differenti con marchi che si limitassero a richiamare solamente quelli italiani. In  molti casi, poi, i discendenti di emigrati italiani non hanno sfatto altro che usare il loro cognome italiano come un marchio per prodotti che, di fatto, non vantavano alcun legame con il territorio italiano e alcuna attinenza con il vero prodotto made in Italy.

Le diverse forme e categorie di “imitazione

Il fenomeno dell’Italian Sounding si manifesta per il tramite di diverse forme o categorie di imitazione, a seconda degli elementi che rappresentano il “richiamo” all’Italia e alla loro più o meno chiara riconducibilità al territorio italiano.

  1. una prima forma di “richiamo” può consistere anche solo nell’utilizzo di una ricetta italiana non registrata[4]. L’uso di una ricetta italiana, infatti, può richiamare il nostro paese in modo più o meno forte, conseguendone una maggiore o minore distorsione nella percezione del prodotto come made in Italy da parte del consumatore. Quando su un’etichetta di un prodotto, ad esempio, viene riportata la dicitura “Bolognese sauce” al fine di indicare il “ragù alla bolognese” è chiaro come il riferimento sia solo alla ricetta, sia essa più o meno fedele all’originale. In tale situazione potrebbe anche essere possibile che i consumatori non siano indotti a pensare che si tratti di un prodotto veramente italiano, dal momento che il richiamo potrebbe riguardare, per l’appunto, solo la ricetta. In effetti, l’uso di una ricetta italiana non registrata, seppur fedele all’originale, non può essere vietato ma talvolta può rappresentare uno strumento utile per la valorizzazione dei prodotti in qualche modo legati al territorio italiano;
  2. un’altra modalità di imitazione o “richiamo” all’origine italiana consiste nell’uso di segni grafici o fotografici che evocano chiaramente il nostro paese. Ad esempio, l’utilizzo dei colori della bandiera italiana, il disegno dell’Italia o di una sua regione oppure immagini chiaramente riferite a monumenti o località italiane[5].
  3. ancora, un’altra modalità di imitazione o “richiamo” consiste nell’impiego di nomi italiani, marchi di prodotti o nomi di imprese produttrici italiane o, semplicemente, l’uso di cognomi italiani. Spesso, inoltre, sono utilizzati anche nomi generici di prodotti italiani al fine di evocare nel consumatore l’errata suggestione che lo stesso sia in qualche modo legato alla nostra produzione[6]. Si pensi, ad esempio, all’utilizzo della denominazione “pasta” per indicare prodotti che nulla hanno a che vedere con essa in quanto a tecniche e modalità di produzione. Infatti, basti pensare che, mentre in Italia la pasta può essere prodotta solo a partire da grano duro, negli altri stati europei ed extra-europei tale limitazione non esiste e si può utilizzare anche la farina di grano tenero con notevoli conseguenze sulla qualità del prodotto finale[7];
  4. differente è, infine, il caso in cui i riferimenti al nostro paese siano più chiari ed evidenti pur restando assolutamente non veritieri. Si pensi all’impiego esplicito della bandiera italiana – e non solo ai suoi colori come nel caso di cui al punto precedente – o di nomi di città, regioni o località italiane. È del tutto evidente che in questi casi i consumatori corrono il serio rischio di non percepire correttamente l’origine del prodotto e le caratteristiche di quanto stanno acquistando.

Spesso queste diverse modalità di manifestazione dell’Italian sounding tendono ad essere presenti contemporaneamente sullo stesso prodotto e/o sulla stessa etichetta[8]. In tal caso, è più chiaro ed esplicito l’intendo di imitazione e, quindi, più evidente l’uso abusivo della reputazione dei prodotti italiani a favore di prodotti che non vantano alcun legame con la nostra nazione e che possiedono ben altre caratteristiche. Ciò configura un’azione volutamente ingannevole nei confronti dei consumatori e palesemente scorretta in termini di concorrenza con i competitor italiani[9].

Conclusioni

L’Italian sounding colpisce, dunque, i prodotti più rappresentativi dell’identità alimentare nazionale. Il tratto comune di tutte le ipotesi di Italian sounding, così come di quelle di contraffazione, è l’opportunità, per un’azienda estera di ottenere sul proprio mercato di riferimento un vantaggio competitivo associando ai propri prodotti l’immagine del made in Italy, apprezzata dai consumatori stranieri, senza che vi sia alcun legame con il territorio italiano. Ad averne la peggio, oltre al consumatore che rischia di percepire in modo distorto l’origine e le caratteristiche dei prodotti “imitati”, sono i produttori italiani, impegnati a garantire standard elevati di qualità, i cui prodotti concorrono sul mercato con beni che millantano origine italiana (pur non possedendo assolutamente caratteristiche simili agli stessi prodotti made in Italy) e costano molto di meno[10].

A titolo meramente esemplificativo, alcuni prodotti c.d. Italian Sounding individuati e segnalati sui mercati UE ed extra UE sono lo “Spicy Thai Pesto” statunitense,  il “Parma salamì” del Messico, la “Mortadela siciliana” del Brasile, il “Salamì calabrese” prodotto in Canada, il “Barbera bianco” rumeno o il Chianti californiano, gli “Chapaghetti” prodotti in Corea, una strana “Pizza polla cipolla Basilicata” prodotta in Olanda e un sugo “mascarpone e ruccola” prodotto in Svezia. Ancora, la “Palenta” della Croazia, il “San Marzano-Arrabbiata sauce” degli Stati Uniti, il “Romulo” della Spagna[11], la “Bella famiglia Tomato Bruschetta” degli Stati Uniti, la “Pasta Alfredo San Remo” dell’Australia, il “Finocchiono Milano’s” degli Stati Uniti, gli “Spagheroni” prodotti in Olanda, la “Salsa Pomarola” venduta in Argentina, il “Pomepian Oil” realizzato negli Stati Uniti, la “Zottarella” prodotta in Germania e il “Caccio cavalo” scovato in Brasile, il “Parmesan” diffuso in tutti i continenti, dagli Stati Uniti al Canada, dall’Australia fino al Giappone, il “Parmesao” in Brasile, il “Regianito” in Argentina, il “Pamesello” in Belgio, il “Parmezan” in Romania, il “Goronzola cheese Bel Gioioso” del Wisconsis, il “Tinboonzola” australiana e il “Cambonzola” in Germania[12].

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Note

[1] La contraffazione, così come qui intesa, è un’ipotesi di reato disciplinata dagli artt. 473 e 517 c.p. L’art. 473 c.p. rubricato “Contraffazione, alterazione o uso di marchi o segni distintivi ovvero di brevetti, modelli e disegni” prevede che «Chiunque, potendo conoscere dell’esistenza del titolo di proprietà industriale, contraffà o altera marchi o segni distintivi, nazionali o esteri, di prodotti industriali, ovvero chiunque, senza essere concorso nella contraffazione o alterazione, fa uso di tali marchi o segni contraffatti o alterati, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa da euro 2.500 a 25.000. Soggiace alla pena della reclusione da uno a quattro anni e della multa da euro 3.500 a 35.000 chiunque contraffà o altera brevetti, disegni o modelli industriali, nazionali o esteri, ovvero, senza essere concorso nella contraffazione o alterazione, fa uso di tali brevetti, modelli o disegni contraffatti o alterati. I delitti previsti dai commi primo e secondo sono punibili a condizione che siano state osservate le norme delle leggi interne, dei regolamenti comunitari e delle convenzioni internazionali sulla tutela della proprietà intellettuali o industriali». L’art. 517 c.p., invece, rubricato “Vendita di prodotti industriali con segni mendaci” sancisce che «Chiunque pone in vendita o mette altrimenti in circolazione opere dell’ingegno o prodotti industriali, con nomi, marchi o segni distintivi, nazionali o esteri, atti a indurre in inganno il compratore sull’origine, provenienza o qualità dell’opera o del prodotto, è punito, se il fatto non è preveduto come reato da altra disposizione di legge, con la reclusione fino a due anni e con la multa fino a ventimila euro».

[2] La posizione dell’Industria Alimentare Italiana rispetto alla contraffazione ed al fenomeno dell’Italian Sounding, rapporto Federalimentari 2018.

[3] Il fenomeno è, infatti, maggiormente diffuso proprio nei paesi che hanno rappresentato le tradizionali mete storiche di emigrazione e dove le comunità italiane sono più radicate.

[4] La tutela giuridica delle ricette è garantita dalla legge n. 633/1941 sul diritto d’autore e dal d. lgs. 30/2005 che ne consente la brevettazione e la registrazione. Mentre nel primo caso oggetto di tutela può essere la ricetta intesa come creazione culinaria in quanto differente dalle altre, il d. lgs.30/2005 garantisce la registrazione e la tutela delle ricette tradizionali. In tal senso si è espressa la giurisprudenza con la sentenza 10 luglio 2013 n. 9763 del Tribunale di Milano. In tale occasione il giudice ha statuito che è possibile riconoscere la protezione del diritto d’autore anche alle ricette che si basano su formule tradizionali dal momento in cui le stesse sono rielaborate in chiave creativa.

[5] In tale ultima ipotesi, è molto frequente, ad esempio, l’utilizzo di immagini o foto del Vesuvio applicate sulle confezioni di pelati al fine di richiamarne l’origine partenopea.

[6] Ci si riferisce a nomi del tipo “spaghetti” o “mozzarella”. In questo caso appare oggettivamente difficile ipotizzare azioni legali in quanto molto spesso i nomi italiani dei prodotti sono divenuti nomi universalmente noti e, per quanto richiamino il nostro paese, i consumatori che acquistano tali prodotti sono per lo più consapevoli che l’origine italiana non è implicita al momento dell’acquisto. Accade anche che nei paesi extra-europei i consumatori nemmeno conoscono o riconoscono l’origine italiana di tale nome. Tuttavia, nella maggioranza dei casi il loro utilizzo è finalizzato a ingannare il consumatore.

[7] D.P.R. 9 febbraio 2001 n. 187, Regolamento per la revisione sulla normativa sulla produzione e commercializzazione di sfarinati e paste alimentari, a norma dell’art. 50 della legge 22 febbraio 1994 n. 146.

[8] Si pensi, ad esempio, al caso di una combinazione tra una ricetta italiana e uno qualsiasi degli altri elementi che rimandino all’Italia come i nomi italiani, i colori della nostra  bandiera, le foto dell’Italia o i nomi geografici italiani.

[9] Infatti, se la preoccupazione dei produttori del vero made in Italy è molto forte rispetto a questo tema, va anche sottolineato che i produttori degli “originali” non sono i soli soggetti danneggiati da queste pratiche commerciali quanto meno sleali. I consumatori dei mercati sui quali questi prodotti di imitazione vengono venduti sono ugualmente danneggiati a causa della mancata corrispondenza tra le caratteristiche qualitative attese dal prodotto e quelle che effettivamente in esso si trovano al momento del consumo.

[10] Il tema delle imitazioni del made in Italy va tenuto logicamente distinto rispetto ad altri fenomeni, anche se talvolta questi si intrecciano con conseguenze potenzialmente negative. Ci si riferisce alle adulterazioni dei prodotti agroalimentari, ai problemi connessi alla sicurezza sanitaria degli alimenti e alle vere e proprie frodi alimentari. Quando questi problemi si collegano con quelli dell’imitazione, di diversa gravità, del made in Italy, le ricadute negative per l’immagine dei prodotti italiani sono fortemente amplificate, sia che si verifichi sul mercato nazionale che su quello europeo o globale. Tuttavia, è anche corretto ricordare che problemi di frodi commerciali, adulterazioni o sicurezza alimentare degli alimenti si verificano per i prodotti del “veromade in Italy come, ad esempio, per i prodotti o, in particolar modo, i vini DOP o IGP. In questi casi il danno di immagine non è minore.

[11] Si tratta di un olio d’oliva che riporta in etichetta l’immagine della lupa capitolina che allatta Romolo e Remo.

[12] Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione 2012, Coldiretti.

Tiziano De Salve

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