L’inoffensività della condotta criminosa e l’errore sul fatto che costituisce reato: ripercussioni sui reati in materia di contraffazione

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Il principio di offensività come limite costituzionale alla libertà del legislatore

E’ ormai assioma dottrinario, oltre che – per fortuna – giurisprudenziale, che il precetto penale debba essere considerato la extrema ratio con cui l’ordinamento statuale reagisce alla violazioni delle sue disposizioni: in sostanza, la sanzione penale è necessariamente collegata all’offesa di un bene giuridico, sia nella forma di lesione (nocumento effettivo) sia in quella di esposizione ad un pericolo concreto (nocumento potenziale), e – dunque – la punibilità del soggetto agente è condizionata all’effettiva offesa del bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice[1].

Il principio di offensività (nullum crimen sine iniuria) non è espressamente disciplinato dall’attuale Codice Penale, e ciò per l’evidente ragione che nel periodo in cui questo venne alla luce la sua stessa teorizzazione sarebbe stata del tutto contraria ai principi cardine su cui era basata l’allora ideologia statuale.

E’ principalmente  a seguito dell’avvento del regime democratico (seppure con qualche avvisaglia precedente) che sia la dottrina sia la giurisprudenza hanno potuto teorizzare l’effettiva esistenza del principio in parola, rinvenendone la matrice all’interno di tre distinte disposizioni della carta costituzionale.

La prima, è l’art. 13, che tutela la libertà personale, di tal che l’applicazione della sanzione penale, sovente a contenuto limitativo proprio della libertà tutelata da tale articolo, può essere consentita solo in reazione a condotte che offendono beni di pari rango.

La seconda è l’art. 25 c. 2 e 3, che subordina la comminazione della sanzione de qua alla commissione di un fatto con conseguente impossibilità, per il legislatore, di condannare la semplice disobbedienza ad un determinato precetto qualora questa sia di fatto priva di conseguenze pregiudizievoli (nemmeno potenziali) a danno di alcuno, comportamento questo (la mera disobbedienza) per il quale può essere invece applicata – in un funzione preventiva e non repressiva – una misura di sicurezza allorché ciò sia espressamente previsto dall’ordinamento.

Si rammenta al riguardo che, in ambito penale, è ritenuto esistere anche il c.d. principio di materialità ricavato proprio dall’art. 25 c. 2 cit. e contenuto negli artt. 1, 42, 49 c. 1, 56 e 115 del c.p., in forza del quale il reato deve sempre consistere in un fatto materiale, ossia in una condotta esteriore percepibile, di tal che la sola intenzione del soggetto agente non può da sola essere considerata penalmente rilevante potendo, al più, “colorare” in differenti modi la responsabilità per i fatti commessi.

La terza è l’art. 27 c. 3, che finalizza la pena alla rieducazione del condannato in modo che possa raggiungere la consapevolezza dell’antigiuridicità del proprio comportamento; disposizione che resterebbe palesemente frustrata in tutti i casi in cui la pena fosse irrogata per mere violazioni di doveri non offensive di alcun bene o interesse giuridicamente rilevante.

Non si può non notare come il principio di offensività costituisca “l’altro lato della medaglia” del principio di legalità della norma penale (cfr. art. 25 c. 2 Cost. e 1 c.p.) del quale costituisce, dunque, un completamento, così come è stato ritenuto dai sostenitori della c.d. teoria realistica del reato, di matrice germanica, che ha in Italia un certo seguito dottrinario (non univoco) e che ritiene di porre a fondamento positivo del principio di offensività la disciplina del “reato impossibile” di cui all’art. 49 c. 2 c.p. che, non a caso, è normato separatamente rispetto al “reato putativo” di cui al c. 1 del medesimo articolo e che, a differenza di quest’ultimo, può comportare l’applicazione a carico del soggetto agente (pur mandato esente da pena) di una misura di sicurezza qualora ciò sia previsto dalle disposizioni del codice penale stesso.

In particolare, la teoria realistica del reato non ha in toto convinto la dottrina in quanto essa pare imporre all’interprete di verificare, dopo avere riscontrato la corrispondenza tra il fatto concreto e la fattispecie astratta, la reale capacità del primo di ledere o porre concretamente in pericolo il bene protetto; discostandosi così dal principio di legalità, il giudice dovrebbe utilizzare canoni extranormativi al fine di poter giungere alla sua determinazione finale, compromettendo così il principio della riserva di legge in materia penale e di esclusivo assoggettamenti dei magistrati alla legge[2].

Al fine di superare tale impasse, alcuni Autori hanno ritenuto che l’art. 49 c. 2 c.p.[3] altro non sia se non un “doppione negativo” dell’art. 56 c.p. (c.d. teoria dell’inidoneità dell’azione); per gli appartenenti a questa scuola di pensiero, il reato impossibile è in realtà una forma particolare di tentativo privo degli elementi caratterizzanti di quest’ultimo (univocità ed idoneità degli atti) e che, proprio per tale motivo ed a sua differenza, non è suscettibile di fondare l’applicazione di alcuna sanzione penale ma, al più, di una misura di sicurezza.

Anche tale teoria presta al fianco a non poche critiche fondate: in primo luogo, sulla considerazione che mentre l’art. 56 c.p., è claris verbis applicabile ai soli delitti e non anche alle contravvenzioni, l’art. 49 c. 2 c.p. trova invece applicazione a qualunque reato con la conseguenza che sarebbe palesemente irragionevole ritenere penalmente irrilevanti gli atti (tentativo idoneo) diretti a commettere un reato contravvenzionale e contemporaneamente prevedere, in caso di inidoneità degli stessi (e dunque di un comportamento che è sicuramente meno “grave”), l’applicazione di una misura di sicurezza; in secondo luogo, sul fatto che, mentre l’art. 56 c.p. è testualmente riferito all’idoneità ed all’univocità degli “atti”, l’art. 49 c. 2 c.p. attiene invece l’azione o l’oggetto del reato con la conseguenza che, nelle due disposizioni, il concetto di “evento” deve essere inteso in modo differente: in senso naturalistico per il tentativo idoneo, ed in senso prettamente giuridico (riguardo all’evento dannoso, ossia come offesa dell’interesse tutelato) nella disciplina del reato impossibile.

Une teoria intermedia fra le due appena esaminate tenta di rendere compatibili la concezione realistica del reato ed il principio di offensività con il rispetto del principio di legalità precisando che l’interesse offeso deve essere individuato dal giudicante non nel novero dei generici valori morali e sociali ma, piuttosto, fra gli “elementi tipici” interni alla fattispecie penale; conseguentemente l’offesa deve essere prevista come elemento costitutivo (seppure implicito) di questa; tale previsione implicita, in ogni caso, non potrebbe tuttavia essere invocata oltre il suo “limite ragionevole” in modo che le fattispecie criminose costruite dal legislatore in assenza di una qualunque lesione, anche solo potenziale, di un interesse giuridicamente tutelato non potrebbero comunque essere considerate rispettose del dettato costituzionale.

L’esistenza del principio di offensività è stata numerose volte riconosciuta dalla giurisprudenza di merito e di legittimità nonché, soprattutto, dalla giurisprudenza costituzionale e proprio per tale ragione si può affermare che si tratti ormai di un principio fondamentale pacificamente riconosciuto del nostro sistema penale.

La Corte Costituzionale, in numerose pronunce, ha introdotto una chiara distinzione – anche ai fini dell’esercizio delle proprie prerogative di “giudice delle leggi” – fra “offensività in astratto” ed “in concreto”.

La nozione di offensività in astratto, ricavabile dall’art. 25 c. 2 Cost. ed intesa come la necessità che le condotte penalmente perseguite siano astrattamente suscettibili di ledere o porre in pericolo un bene o un interesse di rilievo costituzionale; sotto questo profilo, il principio di offensività è una specificazione del principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost., che si pone come limite di rango costituzionale alla libertà del legislatore ordinario con la conseguenza che una norma primaria che vìoli tale principio sarebbe da considerare costituzionalmente illegittima;

L’offensività in concreto, costituente invece un criterio interpretativo imposto al giudice di merito il quale è chiamato a verificare se il fatto astrattamente qualificato come reato (e per il quale il soggetto viene tratto a giudizio) ha effettivamente leso o messo in pericolo il bene tutelato dalla norma che si assume violata; con la conseguenza che, in mancanza, nessuna pena potrà essere comminata e, dunque, alcuna responsabilità penale potrà essere riconosciuta in danno dell’imputato (salva, sempre, l’eventuale applicabilità delle misure di sicurezza qualora previste).

A differenza del caso precedente, questo giudizio “in concreto” è un accertamento di fatto rimesso al giudice ordinario e, pertanto, se congruamente motivato – e con motivazione né carente né affetta da vizi di illogicità – non potrà essere fatto oggetto di alcuna censura di legittimità nanti la Corte di Cassazione.

Numerose sono le sentenze che sono state pronunciate sul punto. Vediamo di seguito, a puro titolo di esempio, alcune confidando nella loro esaustività.

Con la sentenza n. 519 del 21/11/2000 la Corte Costituzionale ha dichiarato incostituzionale il reato di mendicità (cfr. art. 670 c.p.) evidenziando che “non è conforme ad un canone di ragionevolezza e travalica i limiti assegnati dalla Costituzione al legislatore, il ricorso non necessitato alla tutela penale in difesa di beni giuridici, quale la tranquillità e l’ordine pubblico, che non sono posti in pericolo da manifestazioni non invasive di mera mendacità, consistenti nella semplice richiesta di aiuto”.

Già in precedenza, con la sentenza n. 78 del 16/03/2007, la Corte Costituzionale aveva provveduto a dichiarare contraria alla costituzione una particolare interpretazione di alcune disposizioni delle Norme sull’ordinamento penitenziario che non consentivano allo straniero irregolare di avere accesso alle misure alternative alla detenzione. La Corte ha motivato la propria decisione in base alla considerazione che l’ingresso e l’irregolare presenza sul territorio del clandestino non sono in sé fatti lesivi di interessi meritevoli di tutela penale ma, piuttosto, espressione di una condizione individuale che “in sé, non è univocamente sintomatica di una particolare pericolosità sociale”;

Con la sentenza n. 249 del 08/07/2010, ha invece dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 61 n. 11-bis c.p. che prevedeva un’aggravante per i fatti commessi da chi si trovava illegalmente sul territorio dello Stato, in quanto così facendo si sarebbe punito più gravemente un soggetto solo in base alle sue qualità personali (la condizione di straniero irregolare) anziché sulla base della condotta tenuta.

Con la sentenza n. 263 del 11/07/2000, resa in tema di reati previsti dal c.p.m.p. (violata consegna aggravata), la Corte ha – nel solco di quanto già affermato con la precedente sentenza n. 360/1995 – ha ribadito:  “La norma penale censurata risponde al requisito, invocato dal remittente, della offensività in astratto, che va intesa come limite di rango costituzionale alla discrezionalità legislativa in materia penale e che spetta indubbiamente a questa Corte rilevare. Una volta accertato che il bene giuridico protetto dall’art. 120 del codice penale militare di pace è la funzionalità e l’efficienza di servizi determinati, che il legislatore ha inteso garantire rendendone rigide e tassative le modalità di esecuzione da parte del militare comandato, non vi è ragione di dubitare che la violazione della consegna sia di per sé suscettibile di ledere interessi di rilievo costituzionale riconducibili ai valori espressi dall’art. 52 della Costituzione.  L’accertamento in concreto della sussistenza dei presupposti che identificano la consegna è invece compito dell’autorità giudiziaria militare, alla quale spetta altresì valutare se tutte le prescrizioni impartite siano, nei singoli casi, finalizzate al corretto svolgimento del servizio comandato; se, cioè, l’eventuale inadempimento del militare ad alcuna di esse sia idoneo a pregiudicare l’integrità del bene protetto ed abbia quindi carattere di offensività anche in concreto. L’articolo 25, quale risulta dalla lettura sistematica a cui fanno da sfondo, oltre ai parametri indicati dal remittente, l’insieme dei valori connessi alla dignità umana, postula, infatti, un ininterrotto operare del principio di offensività dal momento della astratta predisposizione normativa a quello della applicazione concreta da parte del giudice, con conseguente distribuzione dei poteri conformativi tra giudice delle leggi e autorità giudiziaria, alla quale soltanto compete di impedire, con un prudente apprezzamento della lesività in concreto, una arbitraria ed illegittima dilatazione della sfera dei fatti da ricondurre al modello legale”.

Di notevole rilievo è anche la sentenza n. 360 del n. 24/07/1995, n. 360 resa in tema di coltivazione di stupefacenti, con cui la Corte ha affermato che “La verifica del rispetto del principio dell’offensività come limite di rango costituzionale alla discrezionalità del legislatore ordinario nel perseguire penalmente condotte segnate da un giudizio di disvalore implica la ricognizione della astratta fattispecie penale, depurata dalla variabilità del suo concreto atteggiarsi nei singoli comportamenti in essa sussumibili. Operata questa astrazione degli elementi essenziali del delitto in esame, risulta una condotta (quella di coltivazione di piante da cui sono estraibili i principi attivi di sostanze stupefacenti) che ben può valutarsi come <pericolosa>, ossia idonea ad attentare al bene della salute dei singoli … Si tratta quindi di un tipico reato di pericolo, connotato dalla necessaria offensività proprio perché non è irragionevole la valutazione prognostica (sottesa alla astratta fattispecie criminosa) di attentato al bene giuridico protetto. E non è incompatibile con il principio di offensività la configurazione di reati di pericolo presunto; nè nella specie è irragionevole od arbitraria la valutazione, operata dal legislatore nella sua discrezionalità, della pericolosità connessa alla condotta di coltivazione. Diverso profilo è quello dell’offensività specifica della singola condotta in concreto accertata; ove questa sia assolutamente inidonea a porre a repentaglio il bene giuridico tutelato, viene meno la riconducibilità della fattispecie concreta a quella astratta, proprio perché la indispensabile connotazione di offensività in generale di quest’ultima implica di riflesso la necessità che anche in concreto la offensività sia ravvisabile almeno in grado minimo, nella singola condotta dell’agente, in difetto di ciò venendo la fattispecie a rifluire nella figura del reato impossibile (art. 49 cod. pen.). La mancanza dell’offensività in concreto della condotta dell’agente non radica però alcuna questione di costituzionalità, ma implica soltanto un giudizio di merito devoluto al giudice ordinario”.

Anche la giurisprudenza di legittimità è più volte intervenuta confermando l’esistenza del principio di offensività e, anzi, riconoscendolo come uno dei principi immanenti del nostro sistema di repressione crminale.

Nel 2006[4], è stato infatti chiarito che il sistema penale italiano richiede in ogni caso, affinché possa ritenersi integrato un illecito penale, che sia stato leso o posto in pericolo il bene giuridico protetto, a meno che la norma non preveda espressamente una fattispecie tipica di natura formale che consenta di affermare che la legge ha voluto “riaffermare un’inidoneità lesiva normativamente presunta”[5].

In relazione al momento al quale deve essere fatto risalire l’apprezzamento del giudice per stabilire l’effettiva esistenza della “offensività in concreto” del comportamento tenuto dal soggetto agente, la giurisprudenza assolutamente maggioritaria ritiene che debba essere esperito un giudizio ex ante. Nelle decisioni della Suprema Corte si può leggere: “perché un’azione possa considerarsi inidonea, ai sensi dell’art. 49 cod. pen., è necessario che la sua incapacità a produrre l’evento sia assoluta, intrinseca, originaria, e tale risulti sulla base di una valutazione oggettiva da compiersi risalendo al momento iniziale dell’azione” (Corte Cass., Sez. V, 17/05/1983, n. 4417 Iandelli); “si ha giudizio impossibile soltanto in caso di inefficienza causale originaria, che va valutata in concreto con un giudizio ex ante” (Corte Cass., Sez. I, 21/05/1983, n. 4685, Tino; conformi sul punto anche: Corte Cass., Sez II, 18/10/1984 n. 8754, Orientale; Corte Cass., Sez. I, 16/04/1987, n. 4805, Perrone); “ai fini della configurabilità del reato impossibile, ai sensi dell’art. 49 c. 2 c.p., la inidoneità dell’azione va valutata in rapporto alla condotta originaria dell’agente, la quale per inefficienza strutturale o strumentale del mezzo usato ed indipendentemente da cause estranee o estrinseche, deve essere priva in modo assoluto di determinazione causale nella produzione dell’evento. L’accertamento di tale requisito, che non può prescindere dalla considerazione del caso concreto e dal riferimento alla fattispecie legale, deve, perciò, avere riguardo all’inizio dell’azione la cui inidoneità deve essere assoluta, nel senso che rispetto ad essa il verificarsi dell’evento si profili come impossibile e non soltanto come improbabile” (Corte Cass., SS.UU., 04/07/1983, Bandinelli; conformi sul punto: Corte Cass., Sez. II, 27/03/1984 n. 2826, Scalone; Corte Cass., Sez. II, 20/04/1985, n. 3692, Marangon; Corte Cass., Sez. V, 29/04/1985, n. 4043, Pagetti).

Il fatto che la valutazione del giudice debba essere “retrodatata” al momento in cui viene posta in essere la condotta criminosa da parte del reo, è confermata anche dalle decisioni di legittimità che hanno chiarito come nessuna incidenza possa assumere al riguardo il fatto che l’evento non si è prodotto a cagione del tempestivo intervento delle forze dell’ordine o della Polizia Giudiziaria. Sul punto, di interesse sono – fra le molte – le seguenti sentenze: “in tema di tentativo, il mancato raggiungimento del risultato voluto, dovuto alla presenza della Polizia, che, preventivamente informata, abbia adottato le opportune misure per impedire il delitto e nel contempo scoprirne gli autori, non porta a qualificare impossibile l’evento a causa della inidoneità dell’azione o della inesistenza del suo oggetto, poiché le misure preventive predisposte sono accertabili <ex post> e nulla tolgono all’intrinseca adeguatezza e pericolosità dell’azione stessa né tanto meno rendono l’oggetto assolutamente mancante fin dall’origine” (Corte Cass., Sez. VI, 20/07/1989, n. 8727, Alberici); “la valutazione della idoneità dell’azione che rende impossibile il reato va compiuta con giudizio <ex ante>, che tenga conto cioè delle conoscenze conosciute e conoscibili dall’agente al momento della condotta in relazione al raggiungimento del risultato perseguito. Risponde pertanto del reato di violazione di corrispondenza, a norma degli artt. 616 e 619 cod. pen. l’addetto al servizio delle Poste che apre un plico civetta – inviato peraltro a un destinatario effettivamente esistente – e sottrae le banconote ivi contenute, i cui numeri di serie erano stati preventivamente registrati dall’Amministrazione postale” (Corte Cass., Sez. VI, 28/10/1988, n. 11360, Merloni).

Solo di recente, alcune sentenze – facenti comunque parte di un orientamento largamente minoritario – hanno tentato un revirement aprendo una breccia a possibili forme di concreta carenza di tutela penale anche a fronte di fatti connotati da particolare gravità ed efferatezza e che non hanno portato al conseguimento del risultato originariamente voluto non per l’inidoneità “genetica” dell’azione ma solo per circostanze fortuite e del tutto estranee alla percezione del soggetto agente. I giudici di legittimità, infatti, hanno così stabilito: “l’inidoneità dell’azione che rende impossibile il verificarsi dell’evento dannoso o pericoloso va accertata alla stregua delle circostanze obiettive del caso concreto, secondo un giudizio <ex post>, poiché l’art. 49 c. 2 del c.p. afferma il principio dell’offensività del reato, per cui non è punibile, ma eventualmente può dar luogo alla misura di sicurezza, il comportamento conforme alla fattispecie legale penale che tuttavia non manifesti obiettivamente, nel caso concreto, l’attitudine causale a ledere o porre in pericolo il bene giuridico protetto. (Nella fattispecie erano stati esplosi colpi di pistola contro una persona che si trovava dietro un vetro antiproiettile)” (Corte Cass., Sez. I, 14/06/1989, n. 8527, Lungaro); “l’aspetto che maggiormente interessa è il principio di necessaria offensività del reato, come criterio guida per l’interprete onde valutare la tipicità della condotta. … La mera aderenza del fatto alla norma di per sé non integra il reato essendo necessario anche che la condotta sia effettivamente lesiva di un bene giuridico protetto dalla norma: non solo quindi nullum crimen sine lege, ma anche nullum crimen sine iniuria. Secondo i sostenitori della <concezione realistica>, la previsione del reato non mira a punire la mera disobbedienza alla norma, ma la condotta effettivamente lesiva del bene protetto: in tale ottica, il reato non può che essere un <fatto tipico offensivo>. Il principio di offensività deve ritenersi essere stato costituzionalizzato dal nostro ordinamento …. La necessaria offensività del reato si desume, inoltre, dalla disposizione di cui all’art. 49 c. 2 c.p. che prevede la non punibilità del reato impossibile: tale norma, lungi dall’essere un inutile duplicato dell’art. 56 c.p. (laddove non prevede la punibilità del tentativo inidoneo) ha una sua propria autonomia se interpretata nel senso di ritenere non punibili quelle condotte solo apparentemente consumate e quindi aderenti al tipo, ma in realtà deficitarie di lesività secondo una valutazione effettuata ex post”.

Anche la giurisprudenza di legittimità, dunque, riconduce il principio di offensività alla disciplina del reato impossibile (cfr. art. 49 c. 2 c.p.) e – salvo qualche più recente pronuncia – sposa in pieno la teoria dell’inidoneità dell’azione in forza della quale, come visto, quest’ultima deve essere valutata sulla base degli stessi criteri (giudizio ex ante ed in astratto) previsti per la figura del tentativo.

 

La rilevanza dell’errore sul fatto che costituisce reato

Diversa rispetto al reato impossibile – che, come visto, costituisce la positivizzazione di rango sub costituzionale del principio di offensività ricavabile dagli artt. 13, 25 c. 2 e 3 e 27 Cost. – è la disciplina dell’errore (latu sensu inteso, ossia comprendente anche l’ignoranza) contenuta negli artt. 5, 47 e 48 del c.p..

In linea generale, l’errore è sempre causato da un fatto e può consistere o in una errata interpretazione di un fatto o di una situazione (errore sul fatto) o in una errata interpretazione o addirittura nell’ignoranza di una norma giuridica (errore di diritto); allo stato non è ancora necessario sindacare a quale plesso normativo tale disposizione appartenga.

In base al suo oggetto immediato, si possono distinguere: l’errore che cade su un divieto (errore sul precetto o error iuris), che è sempre un errore di diritto indipendentemente dalla sua derivazione dall’ignoranza di una disposizione o dalla sua errata interpretazione e che, in linea generale (vedi oltre), è del tutto indifferente ai fini dell’applicazione della legge penale, nel senso che non incide sull’elemento soggettivo del dolo o della colpa; l’errore che cade sul fatto (error facti), che può avere ad oggetto o direttamente un fatto (“errore di fatto sul fatto”) inteso come accadimento fenomenico, eventualmente anche derivante da una errata percezione sensoriale, o una norma giuridica (diversa dal precetto penale) posta alla base del fatto (“errore di diritto sul fatto”). Questo, ricorrendo talune condizioni, incide sul dolo del soggetto agente[6].

Ricordiamo, per mero tuziorismo, che ai sensi dell’art. 43 del c.p. gli elementi costitutivi del dolo sono due, logicamente e temporalmente concatenati fra di loro: la rappresentazione, ossia la visione del fatto che costituisce il reato (“momento conoscitivo o rappresentativo”) e la risoluzione, ossia lo sforzo del volere (“momento volitivo”)[7].

Ai fini della presente trattazione, l’errore che rileva è quello incidente sul momento rappresentativo di un determinato fatto, e non quello che attiene la fase di esecuzione del reato (ossia l’azione umana che ne costituisce estrinsecazione fenomenologica), quest’ultimo, infatti: è alla base dei c.d. “reati aberranti”, caratterizzati dal fatto che il soggetto agente realizza – per errore nei mezzi di esecuzione – o il fatto-reato che egli effettivamente ha voluto ma in danno di una persona diversa rispetto a quella che voleva offendere (c.d. aberratio ictus, disciplinata dall’art. 82 del c.p.) ovvero un fatto-reato diverso da quello originariamente programmato (c.d. aberratio delicti, disciplinata dall’art. 83 del c.p.); potrebbe, in talune condizioni, determinare l’applicazione della disciplina del reato impossibile ex art. 49 c. 2 del c.p., qualora l’erroneità nell’utilizzo dei mezzi sia tale da rendere il comportamento concretamente inidoneo a porre in pericolo l’interesse tutelato dalla norma (si pensi al caso di un soggetto che tenta di uccidere un suo rivale mediante utilizzo di un’arma con munizionamento a salve o tenta di percuoterlo a morte con uno sfollagente in gommapiuma, circostanze queste che egli ignora).

L’errore sulla legge penale è disciplinato dall’art. 5 del c.p. in forza del quale “nessuno può invocare a propria scusa l’ignoranza della legge penale”; da ciò consegue che – al di là dei particolarissimi casi indicati dalla Corte Cost. con sentenza 24/03/1988, n. 364 – la mancata conoscenza del precetto penale non può essere addotta a causa di esclusione della colpevolezza da parte del soggetto autore della violazione.

Sul punto, però, bisogna dare atto di una corrente giurisprudenziale che, in tempi recenti, ha cercato di erodere il dogma di cui all’art. 5 cit., sovente riconoscendo la sostanziale impossibilità per il consociato, quantunque attento e proattivo, di interpretare correttamente il precetto penale. La Suprema Corte ha, nel corso del tempo, così deciso: “in materia contravvenzionale, è configurabile la cosiddetta buona fede ove la mancata coscienza dell’illiceità derivi non dall’ignoranza dalla legge, ma da un elemento positivo e cioè da una circostanza che induce nella convinzione della sua liceità, come un provvedimento dell’autorità amministrativa, una precedente giurisprudenza assolutoria o contraddittoria ovvero un’equivoca formulazione del testo della norma” (Corte Cass., Sez. III, n. 21/04/1989, n. 6160, Greco); “in materia contravvenzionale – pur avendo il vigente codice penale accolto una concezione naturalistica dell’elemento soggettivo del reato, non esigendo né la coscienza dell’antigiuridicità della condotta né l’intenzione di violare la legge – non è sufficiente la semplice volontarietà dell’azione, essendo pur sempre necessaria quantomeno la colpa. In tale ambito la buona fede acquista giuridica rilevanza solo se si traduce, a causa di un elemento positivo estraneo all’agente, in uno stato soggettivo che esclude anche la colpa. Ad escludere la colpa non è sufficiente l’errore dipeso da ignoranza non scusabile, nella quale rientra l’erronea interpretazione o l’ignoranza della legge penale. Va tuttavia valutata l’attività della Pubblica Amministrazione, capace di determinare l’erroneo convincimento della regolarità e completezza degli adempimenti a questa spettanti, e quindi la buona fede per fatto estraneo all’agente, che incide sulle stesse condizioni sulle quali fondare la necessaria rimproverabilità della violazione ritenuta” (Corte Cass., Sez. I, 20/05/1991, n. 5533, Rocco); “si può ritenere inevitabile l’ignoranza della legge penale, quando l’agente sia incorso nella trasgressione nonostante che si sia attenuto correttamente e con l’ordinaria diligenza all’obbligo d’informazione e di conoscenza dei precetti normativi, posto a carico in generale di tutti i consociati quale esplicazione dell’ampio dovere di solidarietà sociale, ed in particolare di quelli professionalmente inseriti in un determinato settore di attività al quale inerisce la disciplina predisposta dalle norme violate” (Corte Cass., Sez. III, 07/12/1991, n. 12407, Lisci); “deve ritenersi inevitabile l’ignoranza della legge penale, quando l’agente sia incorso nella trasgressione nonostante si sia attenuto correttamente e con l’ordinaria diligenza all’obbligo di informazione e di conoscenza dei precetti normativi, posto a carico di tutti i consociati quale esplicazione dell’ampio dovere di solidarietà sociale e l’accertamento di tale diligenza deve essere particolarmente approfondito per chi esercita professionalmente in un determinato settore un’attività alla quale inerisce la disciplina predisposta dalle norme violate, sicché non è sufficiente ad integrare gli estremi della scriminante un comportamento meramente passivo dell’agente, mentre è necessario che si tratti di un reato di creazione legislativa e non di una norma corrispondente ad un’esigenza morale universalmente avvertita” (Corte Cass., Sez. III, 03/05/1996, n. 4464, Stefanelli).

Come si nota da questa breve carrellata di sentenze, gli ermellini sono diverse volte intervenuti ammettendo la possibilità, principalmente per i reati contravvenzionali, di una ignoranza della legge penale da parte del consociato che non eserciti una particolare professione che presuppone una particolare conoscenza della specifica materia e specie laddove il comportamento sia stato di fatto indotto dal comportamento della Pubblica Amministrazione.

E’ da osservare che mai può essere considerato connotato da ignoranza inescusabile della legge penale il comportamento del soggetto che si sia profilato il dubbio sulla liceità del proprio comportamento (“in tema di ignoranza inescusabile della legge penale, su coloro che esercitano professionalmente un’attività incombe il dovere, nell’ipotesi di dubbio sulla liceità dell’azione, di astenersi dal compierla”, cfr. Corte Cass., Sez. III, 23/06/1994 n. 7287), neppure se a seguito della presenza di specifici contrasti giurisprudenziali aventi ad oggetto l’individuazione del perimetro applicativo di una norma (“l’incertezza che potrebbe derivare da contrastanti indirizzi giurisprudenziali, nell’interpretazione ed applicazione di una norma, non abilita da sola ad invocare la condizione soggettiva di ignoranza inevitabile della legge penale. Al contrario, il dubbio sulla liceità o meno, così originato, deve indurre il soggetto ad un atteggiamento più attento, fino, cioè all’astensione dall’azione, se, nonostante tutte le informazioni assunte, permanga l’incertezza sulla liceità dell’azione stessa; e ciò, perché il dubbio, non essendo equiparabile allo stato di inevitabile ed invincibile ignoranza, non esclude la consapevolezza dell’illiceità”, cfr. Corte Cass., Sez. III, 02/07/1994 n. 7550, Cherubini; in senso sostanzialmente conforme: Corte Cass., Sez. III, 24/06/2004 n. 28397).

Altra corrente giurisprudenziale, invece, sembra più che altro mirare a costituire una sorta di “zona franca culturale” all’interno della quale non trova applicazione l’art. 5 del c.p.: in questo caso, l’actio finium regundorum è operata attraverso lo strumento del c.d. relativismo culturale, ossia ritenendo che – in relazione a taluni specifici reati (purtroppo, anche quelli “naturali”) – taluni possano essere effettivamente non a conoscenza delle disposizioni precettive nazionali con conseguente inconfigurabilità, a loro carico, dell’elemento soggettivo del dolo.

Si veda sul punto la sentenza Corte Cass., Sez. VI, 24/11/2001, n. 43646 con cui è stata mandata assolta una cittadina nigeriana per concorso nel reato ex art. 348 c.p. per avere favorito la sottoposizione del proprio figlio a circoncisione da parte di un soggetto non abilitato alla professione medica.

Ha Suprema Corte ha infatti ritenuto che: “una società multietnica, che accetta più o meno consapevolmente il multiculturalismo, non può ignorare una certa dose di relativismo culturale, che consenta di guardare ad altre civiltà senza giudicarle secondo i propri parametri. … Non può omettersi di considerare, però, che il significato della circoncisione non terapeutica è spesso riconducibile a motivazioni che esulano da esigenze religiose e identitarie e affondano le loro radici soltanto in tradizioni culturali ed etniche, assolutamente estranee alla cultura occidentale e non sempre compatibili, sul piano operativo, con la nostra legislazione. Non può essere ignorato, infatti, che in molti casi l’esecuzione dell’intervento cruento, a differenza di quanto accade nel mondo ebraico, è affidata a persona non qualificata, nondotata cioè di adeguata e riconosciuta competenza, che vi procede in modo empirico e senza alcuna concreta garanzia circa la sua corretta effettuazione, lo scrupoloso rispetto dell’igiene e dell’asepsi, la continuità dell’assistenza anche dopo l’intervento, con conseguente intuibile pericolo per la salute del bambino, alla quale invece il nostro ordinamento impone di dare maggior peso rispetto ai contingenti fattori culturali ed etnici che ispirano, in certi contesti sociali, la pratica di cui si discute. Tanto è riscontrabile nella vicenda che vede coinvolta la nigeriana … L’imputata affidò il compito di eseguire l’intervento circoncisorio ad una non meglio identificata donna nigeriana, certamente priva, per ammissione implicita della stessa imputata, di qualsiasi professionalità adeguata al caso, se vero che il bambino, subito dopo l’intervento, evidenziò <un’emorragia cospicua e irrefrenabile con necessità di ospedalizzazione e trattamento terapeutico complesso>, per superare la fase di criticità che aveva addirittura posto in pericolo la sua vita. Né, nella situazione in esame, che attiene – come si è precisato – alla circoncisione motivata da tradizioni etniche, soccorre, a differenza di quanto previsto per il rito religioso ebraico, una qualche previsione legislativa del nostro ordinamento, che legittimi una tale pratica, sganciata da ogni regola.Assume, pertanto, concretezza, almeno in astratto, il precetto di cui all’art. 348 cod. pen., la cui violazione è contestata all’imputata in termini di concorso. Si è in presenza, sotto il profilo della materialità, di un reato, per così dire, culturalmente orientato, quello che gli americani definiscono cultural offence. Nel reato culturalmente orientato non viene in rilievo il conflitto interno dell’agente, vale a dire l’avvertito disvalore della sua azione rispetto alle regole della sua formazione culturale, bensì il conflitto esterno, che si realizza quando la persona, avendo recepito nella sua formazione le norme della cultura e della tradizione di un determinato gruppo etnico, migra in un’altra realtà territoriale, dove quelle norme non sono presenti. Il reato commesso in condizioni di conflitto esterno è espressione della fedeltà dell’agente alle norme di condotta del proprio gruppo, ai valori che ha interiorizzato sin dai primi anni della propria vita. Ciò posto, devesi escludere, tuttavia, alla luce di quanto emerge dalle due sentenze di merito, la sussistenza dell’elemento soggettivo del reato contestato all’imputata. … La rilevanza dell’ignorantia  legis scusabile implica che il giudizio di rimproverabilità del soggetto agente deve necessariamente estendersi alla valutazione del processo formativo della sua volontà, per stabilire se il medesimo soggetto, al momento dell’azione posta in essere, si sia o no reso conto dell’illiceità della sua condotta e del valore tutelato dalla norma violata.… Quanto all’aspetto soggettivo, non possono essere ignorati, anche alla luce della testimonianza del sacerdote …, il basso grado di cultura dell’imputata e il forte condizionamento derivatole dal mancato avvertimento di un conflitto interno, circostanze queste che sfumano molto il dovere di diligenza dell’imputata finalizzato alla conoscenza degli ambiti di liceità consentiti nel diverso contesto territoriale in cui era venuta a trovarsi. Sussistono pertanto, nel caso concreto, gli estremi dell’error iuris scusabile e la conferma indiretta di ciò si coglie nel comportamento post – delictum dell’imputata, che, resasi conto che il figlio necessitava di assistenza medica, non esitò a ricoverarlo in ospedale e a riferire ai sanitari, senza alcuna reticenza e con molta naturalezza, quanto era accaduto”.

La sentenza fa pendant con un’altra più risalente nel tempo che ha riconosciuto l’ignoranza inevitabile della norma penale “per difetto di socializzazione” da parte del soggetto agente, seppure limitatamente ai c.d. reati artificiali[8].

Evidente conseguenza di una simile corrente interpretativa è il rischio di una “applicazione soggettiva” del diritto penale, il quale troverà costante applicazione nei confronti degli italiani ma potrebbe non essere applicabile a carico degli stranieri, siano essi regolari o irregolari (anzi, più probabilmente potrebbe non trovare applicazione nei confronti di questi ultimi), allorché sia dimostrata una loro scarsa integrazione con la società occidentale e con i suoi valori fondanti (che, lo si ricorda per mero tuziorismo, sono tutti sostanzialmente di matrice cristiana).

Peccato solo che il diritto penale sia la extrema ratio con cui l’ordinamento garantisce i propri principi e gli interessi che reputa meritevoli di tutela e non si capisce proprio per quale ragione gli stranieri debbano poter essere considerati, seppure solo a talune condizioni, “esentati” dall’applicazione di questo.

E’ evidente quali possano essere gli effetti non solo giuridici, ma anche e soprattutto “sociali” – scarsa fiducia dei cittadini verso le istituzioni in generale e verso chi amministra la giustizia, in particolare – di una simile deriva interpretativa, specie alla luce del fatto che, nel nostro Paese, la causa di esclusione della difesa legittima è di fatto relegata in confini estremamente stretti.

Cosa ben diversa rispetto all’ignoranza della legge penale (che, come abbiamo visto, comprende anche l’errore sull’estensione del precetto penale) è l’errore che ricade su un fatto (errore in senso percettivo) o sull’ignoranza o l’errata interpretazione di una legge diversa rispetto a quella penale (errore in senso intellettivo), che trova disciplina nell’art. 47 del c.p.. In entrambi i casi, le conseguenze dell’errore sono le medesime, ossia l’esclusione del dolo e la conseguente residua applicabilità del precetto penale conseguente al comportamento nel solo caso in cui la fattispecie sia punita anche a titolo di colpa[9].

L’errore di fatto sul fatto è disciplinato dall’art. 47 c. 1 del c.p., a mente del quale esso “esclude la punibilità dell’agente. Nondimeno se si tratta di errore determinato da colpa, la punibilità non è esclusa quando il fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo”.

Peraltro, ai sensi del successivo c. 2, la circostanza che l’errore determini la non punibilità per un determinato reato non significa che il comportamento in questione, al di là della previsione di uno specifico reato colposo, debba andare sempre esente da punizione; infatti, esso “non esclude la punibilità per un reato diverso” (si intende, a titolo di dolo in quanto, per i reati colposi, soccorre l’ultimo periodo del precedente c. 1).

Come sappiamo, i reati appartengono a due distinte categorie: i delitti, puniti a titolo di dolo e – solo nei casi previsti dalla legge – a titolo di colpa (cfr. art. 42 c. 2 del c.p.); e le contravvenzioni, per le quali è normalmente sufficiente la sola colpa del soggetto agente (cfr. art. 42 c. 4 del c.p.), intesa come “negligenza, imprudenza, imperizia o per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline” (cfr. art. 43 c. 3 del c.p.).

Ebbene, in considerazione del fatto che lo stato soggettivo di errore di cui all’art. 47 c.p. in cui versa il soggetto agente può incidere esclusivamente sul dolo, in tema di reati contravvenzionali questo non avrà alcuna influenza concreta sulla punibilità[10] potendo, doverosamente, essere al più considerato elemento valutativo ai fini della graduazione della pena concretamente irrogata ai sensi dell’art. 133 c. 1 n. 3 e c. 2 del c.p..

L’errore di fatto sul fatto che determina l’esclusione della punibilità è solo quello essenziale[11], ossia che coinvolge uno degli elementi essenziali per la sussistenza del reato e consiste in un’errata percezione della realtà o (come pacifico in dottrina ed in giurisprudenza) nella mancata conoscenza della realtà fattuale.

Non rileva, all’opposto, l’errore che si traduce in una errata interpretazione tecnica della realtà, che si realizza quando questa viene esattamente percepita nella sua materialità ma, per mancanza delle necessarie conoscenze o anche solo per disattenzione, non è elaborata correttamente dal soggetto agente. Interessanti, sul punto, sono le seguenti pronunce della Suprema Corte, costituenti – peraltro – orientamento giurisprudenziale ormai monolitico: “l‘errore sul fatto costitutivo del reato, per poter essere invocato, deve cadere su un estremo materiale del reato stesso e deve consistere in una difettosa, incolpevole percezione o in una lacunosa ricognizione della percezione della realtà, tale che il lato volitivo del processo psichico risulti inficiato da quello intellettivo, con la conseguenza che il soggetto si determini ed agisca nel presupposto di una realtà non corrispondente a quella effettiva. Ne consegue che nell’ipotesi in cui la realtà sia stata esattamente percepita dall’agente, l’errata interpretazione dei fatti esterni, le impressioni, le oscillazioni di idee o un conflitto di giudizi non costituiscono errore penalmente scusabile” (Corte Cass., Sez. V, 27/09/1984 n. 7654, Limitone; conformi sul punto: Corte Cass., Sez. I, 06/07/1988 n. 7853, Radaelli; Corte Cass., Sez. VI, 05/06/2003 n. 24605, Mazzarella); “ai fini della responsabilità penale ai sensi dell’art. 71 L. 685/1975, la pretesa ignoranza della non modicità della sostanza stupefacente da parte dell’interessato altro non è che errata interpretazione tecnica del fatto-reato, peraltro perfettamente percepito nei suoi elementi concreti, che non è valevole né a diminuire né ad attenuare la responsabilità e perciò non è riconducibile all’errore di fatto disciplinato dall’art. 47 c.p.” (Corte Cass., 13/04/1990, n. 5423);  “l‘errore sul fatto, cui l’art. 47 del c.p. riconosce l’effetto di escludere la punibilità, deve consistere in una difettosa percezione in conseguenza della quale il soggetto si determini ad agire sul presupposto di un realtà diversa da quella effettiva; il processo volitivo deve essere cioè condizionato da un errore intellettivo. Quando invece ogni aspetto della realtà sia stato percepito esattamente dall’agente, la non corretta interpretazione tecnica della realtà stessa o delle norme che la disciplinano non è riconducibile alla fattispecie regolata dall’art. 47 del c.p.” (Corte Cass., Sez. In . 07/07/1998 n. 8053, Chiappetta).

L’errore di diritto sul fatto è invece disciplinato dall’art. 47 c. 3 del c.p., per il quale “l’errore su una legge diversa dalla legge penale esclude la punibilità quando ha cagionato un errore sul fatto che costituisce reato”.

Vi è concordia sul fatto che il semplice dubbio su una circostanza di fatto che costituisce elemento essenziale della fattispecie non è di per sé sufficiente per escludere il dolo; anzi, proprio il fatto che, nonostante la presenza di tali dubbi, il soggetto agente si sia comunque determinato nella commissione dell’azione potrebbe essere indicativo di un suo dolo indiretto o eventuale[12].

Sul punto, la giurisprudenza ha precisato che “sussiste il dolo eventuale quando l’agente, ponendo in essere una condotta diretta ad altri scopi, si rappresenta la concreta possibilità del verificarsi di ulteriori conseguenze della propria azione e, nonostante ciò, agisce ugualmente, accettando il rischio di cagionarlo; quando, invece, l’ulteriore accadimento si presenta all’agente come probabile, non si può ritenere che egli, agendo, si sia limitato ad accettare il rischio dell’evento bensì che, accettando l’evento, lo abbia voluto sicché in tali ipotesi l’elemento psicologico si configura nella forma del dolo diretto, e non in quella del dolo eventuale” (cfr. Corte Cass., SS.UU., 12/04/1996 n. 3571).

Altresì univoca è la considerazione che non ogni norma collocata al di fuori del codice penale debba per ciò solo essere considerata norma extrapenale; il difficile – ed è proprio questo che determina il maggiore iato fra la dottrina e l’applicazione giurisprudenziale dell’art. 47 c. 3 del c.p. – sta nel capire “quando” una disposizione possa essere considerata tale.

Secondo la dottrina tradizionale[13] le norme extrapenali si devono essere distingue in due diverse categorie.

La prima è costituita dalle norme integratrici in senso stretto del precetto penale, la cui caratteristica è di dare una maggiore concretezza ad una figura astratta di reato, concorrendo a delimitarla e precisandone gli elementi costitutivi (esempio lampante è il caso delle norme che integrano i precetti in bianco).

Proprio queste, in considerazione della loro funzione di “colorare” il precetto penale (ossia di concorrere con la norma incriminatrice a descrivere la fattispecie astratta del fatto-reato e, come evidente, presuppongono l’esistenza di una norma penale incompleta o quantomeno necessitante di integrazione), formano un tutt’uno con questo e, di conseguenza, la loro eventuale ignoranza non costituisce un errore di diritto sul fatto rilevante ex art. 47 c. 3 del c.p. ma direttamente un errore sulla legge penale ex art. 5 del c.p..

La seconda è formata dalle norme che non concretizzano il precetto penale, in cui rientrano tutte le altre (si tratta, in sostanza, delle norme già ab origine destinate a regolare rapporti giuridici di carattere non penale) ed alle quali, pertanto, può – ricorrendone le condizioni – trovare applicazione l’art. 47 c. 3 del c.p..

Tale teoria è avversata da numerosi Autori[14] i quali hanno osservato come l’adesione ad essa determinerebbe una interpretazione sostanzialmente abrogatrice dell’art. 47 c. 3 del c.p. in quanto, di fatto, ogni norma che sia richiamata, anche solo implicitamente, da una norma penale ne costituisce un’integrazione e, comunque, non sarebbe concepibile un errore di diritto che abbia quale conseguenza un errore sul fatto e che non riguardi, quindi, una norma che concorre a configurare la fattispecie penale astratta.

Per superare tale impasse, alcuni Autori hanno proposto di distinguere l’errore che coinvolge l’intera fattispecie o la parte centrale di questa da quello che ha per oggetto un elemento normativo della fattispecie, attribuendolo solo a quest’ultimo – ricorrendone le condizioni – efficacia scriminante[15].

Che l’errore di diritto sul fatto sia cosa ben diversa rispetto all’errore sul precetto è innegabile anche perché, in caso contrario, non si spiega per quale ragione il legislatore avrebbe disciplinato tali due istituti con due distinti articoli del codice penale.

Occorre tuttavia osservare che l’attuale costrutto giurisprudenziale solo in linea meramente formale riconosce la differenza fra le due tipologie di errore (e, anzi, considera la disciplina di cui all’art. 47 c. 3 del c.p. come una deroga all’applicazione dell’art. 5 dello stesso) e, quindi, la distinzione fra norme integratici e non integratrici del precetto penale, ma – nella sostanza – di fatto sussume tutte le norme richiamate dalla legge penale tra quelle integratrici del precetto, svuotando così di concrete possibilità applicative la previsione di cui all’art. 47 c. 3 stesso.

In particolare, la giurisprudenza è costante nel ritenere che con il termine di “legge diversa da quella penale” si possa definire solo quella destinata ab origine a regolare rapporti giuridici di carattere non penale, né richiamati né tantomeno esplicitamente o implicitamente incorporati in una norma penale[16]. Interessanti al riguardo sono – ex multis­ – le seguenti pronunce di legittimità: “l’errore scusabile di cui all’art. 47 cod. pen. è quello che cade su norma destinata in origine a regolare rapporti giuridici di carattere non penale e che non sia stata richiamata od inserita in una norma penale; pertanto, va considerato errore su legge penale – e quindi inescusabile – sia quello che cade sulla struttura del reato, sia quello che incide su norme, nozioni e termini propri di altre branche del diritto, introdotti nella norma penale ad integrazione della fattispecie criminosa” (Corte Cass., Sez. III, 19/06/1985, n. 6147; conforme sul punto: Corte Cass., Sez. I, 16/09/1986 n. 9442, Quaranta); “l’erronea convinzione di poter guidare un autoveicolo pur dopo la revoca dell’autorizzazione non costituisce errore di fatto, bensì errore su legge penale, poiché devono considerarsi di carattere penale tutte quelle norme che integrano il precetto penale. Tale carattere riveste l’art. 91 393/1959, col quale viene regolamentato l’istituto della revoca della patente, per cui, in caso di guida di autoveicolo senza patente a qualsiasi titolo, e, quindi, anche se revocata, trova applicazione l’art. 80 c. 13 del dPR citato, norma di evidente natura penalistica” (Corte Cass., Sez. IV, 12/07/1986 n. 7473, Tanda); ai fini della configurabilità del delitto di abusivo esercizio di una professione, data la natura di norma penale in bianco riconosciuta all’art. 348 cod. pen., costituisce ignoranza inescusabile della legge penale la mancata conoscenza dei limiti di attività autorizzati dalla disciplina normativa del titolo professionale conseguito” (Corte Cass., Sez. VI, 10/11/2009 n. 47028, con cui viene dichiarato inammissibile l’appello proposto avvero una sentenza del 04/05/2009 della Corte d’Appello di Torino).

In materia di reati contro la Pubblica Amministrazione (nella fattispecie, di peculato, omissione in atti d’ufficio e di abuso negli stessi) la giurisprudenza si è nel tempo dimostrata particolarmente rigorosa sussumendo nell’ambito della “legge penale” le discipline normative e regolamentari che governano l’agere publicum, in particolare precisando che le disposizioni legislative che disciplinano l’operato e i doveri delle varie tipologie di pubblici ufficiali o incaricati di pubblici servizi non hanno natura di norme extrapenali, poiché l’art. 323 c.p., obbligando al rispetto delle leggi e dei regolamenti nell’esercizio del pubblico ufficio, recepisce le regole riguardanti l’attività dei singoli pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio (cfr. Corte Cass., Sez. VI, 16/06/1998 n. 7817, Benanti).

Sempre in materia di abuso d’ufficio, la giurisprudenza di legittimità ha sancito che “il reato di omissione di atti d’ufficio, riferendosi ad ogni atto <dell’ufficio o del servizio>, che rientri nella competenza funzionale dell’agente, giova a dare rilievo penale alle norme che disciplinano tale competenza. Tali norme, anche se non penali, assumono, ai fini del reato in questione, natura ed efficacia di norme integrative di una norma penale: quella appunto, dell’art. 328 cod. pen., non altrimenti delimitata. Non è, pertanto, ipotizzabile l’efficacia discriminante di un errore sul punto che si risolverebbe in un errore sulla antigiuridicità della condotta, cui soltanto si collega il riferimento normativo al carattere indebito del rifiuto, della omissione o del ritardo nel senso che l’antigiuridicità della condotta non deve trovare alcuna giustificazione nella legge stessa che impone l’obbligo o, comunque, nell’ambito dell’ordinamento giuridico” (Corte Cass., Sez. IV, 05/11/1983 n. 9176, Bruno).

A soluzioni non dissimili si è giunti anche in relazione ad altri reati conto la pubblica amministrazione: “in tema di peculato per ritardato versamento di somme da parte dell’agente contabile, non può essere considerato errore scusabile, atto ad escludere il dolo, quello che investe la norma amministrativa di contabilità che impone un tempestivo versamento, ciò in quanto tale norma è integrativa di quella penale” (Corte Cass., Sez. VI, 22/11/1996 n. 10020, Liuzzo).

Proprio tale rigore ha diverse volte portato la Suprema Corte a sostenere posizioni intrinsecamente contraddittorie, specie laddove (come nel caso del reato di abuso in atti d’ufficio) ha considerato da un lato le norme di legge o regolamento in violazione delle quali è stata posta in essere la condotta quali integratrici del precetto penale (e dunque di fatto irrilevanti ai sensi dell’art. 5 del c.p.) e, dall’altro, a ritenere le medesime disposizioni non integratrici del medesimo nel caso di loro successione nel tempo ai fini dell’applicazione dell’art. 2 del c.p..

In tema di rapporti fra la normativa penale e quella civilistica in materia di proprietà, è interessante l’evoluzione giurisprudenziale intervenuta nel corso del tempo che, partendo da un atteggiamento particolarmente rigoroso, sembra ora dare un certo spazio applicativo all’errore determinato dall’errata applicazione della disciplina extrapenale.

Paladine del richiamato atteggiamento di particolare rigore sono, fra le altre, le seguenti pronunce: “… va considerato errore su legge penale, e quindi inescusabile, sia quello che cade sulla struttura del reato sia quello che incide su norme, nozioni e termini propri di altre branche del diritto, introdotte nella norma penale ad integrazione della fattispecie criminosa, come accade per la nozione di cosa altrui, prevista dall’art. 624 del c.p., in tema di furto. Pertanto, non scusa l’ignoranza dell’agente imputato di furto di materiale ghiaioso estratto dal greto di un fiume senza la prescritta autorizzazione, in virtù della quale egli ritenga che la ghiaia fosse a disposizione di tutti e non già di proprietà del demanio” (Corte Cass. Sez. II, 06/06/1986 n. 5144, Banacu);  “in tema di reato di invasione di terreni o edifici, l’errore sull’altruità dell’immobile da parte dell’agente, fondata sull’erronea interpretazione della legge civile, non esclude la punibilità ex art. 47 c.p. e quindi non esclude l’elemento psicologico del reato …  deve essere considerato errore sulla legge penale, inescusabile, sia quello che cade sulla struttura del reato sia quello che incide su norme, nozioni e termini propri di altre branche del diritto, introdotte dalla norma penale ad integrazione della fattispecie criminosa” (Corte Cass., Sez. VI, 09/09/1994 n. 9767, Filippelli).

Di diverso tenore, invece, una pronuncia del 2002 che qui di seguito, per riassunto, si riporta: “l’errore su legge diversa da quella penale non rileva nel caso di norme da ritenersi incorporate nel precetto penale, fra le quali, tuttavia, non vanno annoverate quelle che, come nel caso di norme privatistiche che disciplinano il trasferimento della proprietà, siano destinate in origine a regolare rapporti giuridici di carattere non penale” (Corte Cass., Sez. II, 08/05/2002 n. 17205, Dessì).

 

 

 

[1]           Roberto Garofoli, “Manuale di Diritto Penale – Parte Generale”, Giuffré, 2008, p.396.

[2]           Roberto Garofoli, “Manuale di Diritto Penale – Parte Generale”, Giuffré, 2008, p.404.

[3]           Si rammenta in questa sede che il reato impossibile può essere configurabile non solo per inidoneità dell’azione  ma anche per inesistenza dell’oggetto; alcuni Autori ritengono che rientri nella fattispecie in questione anche il reato ad evento impossibile ma, se si guarda bene, l’impossibilità dell’evento altro non è che una conseguenza (a seconda dei casi) o dell’inidoneità dell’azione o all’inesistenza dell’oggetto materiale su cui si riversa l’attività delittuosa.

[4]           Corte Cass., 20/01/2006, n. 8142 resa sempre in materia di coltivazione domestica di sostanze stupefacenti.

[5]           In tale caso, ovviamente, la norma penale stessa dovrebbe superare il vaglio di compatibilità con il principio di ragionevolezza previsto dall’art. 3 Cost..

[6]           “La mancata o inesatta percezione/rappresentazione di un dato materiale (c.d. error facti), così come l’ignoranza o erronea interpretazione del precetto penale o della legge extra penale richiamata dalla norma incriminatrice (c.d. error iuris) può riverberarsi sull’elemento soggettivo del fatto tipico precludendo all’agente di avere la coscienza e la volontà di porre in essere un fatto materiale conforme ad una data fattispecie criminosa” (Roberto Garofoli, “Manuale di Diritto Penale – Parte Generale”, Giuffré, 2008, p.647).

[7]           Si deve altresì ricordare che costituiscono soltanto oggetto di rappresentazione gli elementi naturalistici, precedenti o concomitanti alla condotta, mentre costituiscono oggetto di rappresentazione e volizione sia la condotta sia l’evento.

[8]           “Il fondamento costituzionale della scusa dell’inevitabile ignoranza della legge penale vale prima di tutto per chi versa in condizioni soggettive di sicura inferiorità e non può certo essere strumentalizzato per coprire omissioni di controllo o atteggiamenti indifferenti di soggetti dai quali, per la loro elevata condizione sociale e tecnica, sono esigibili particolari comportamenti realizzativi di obblighi strumentali di diligenza nel conoscere le leggi penali; l’ipotesi di un soggetto sano e maturo di mente che commetta fatti criminosi ignorandone l’antigiuridicità è concepibile soltanto quando si tratti di reati che, sebbene presentino un generico disvalore sociale, non siano sempre e dovunque previsti come illeciti penali, ovvero di reati che non presentino neppure un generico disvalore sociale. In relazione a tali categorie di reati possono essere prospettate due ipotesi: quella in cui il soggetto si rappresenti effettivamente la possibilità che il suo fatto sia antigiuridico e quella in cui tale possibilità non si rappresenti neppure; mentre nella prima di dette ipotesi esistendo, in concreto, più che la possibilità di conoscenza dell’effettiva illiceità del fatto, la concreta previsione di essa, non può ravvisarsi ignoranza inevitabile della legge penale (dovendo il soggetto risolvere il <dubbio eventuale> attraverso l’esatta conoscenza della specifica norma o, in caso di soggettiva invincibilità di esso, astenersi dall’azione), nella seconda ipotesi è riservato al Giudice il compito di una valutazione attenta delle ragioni per le quali l’agente, che ignora la legge penale, non si è neppure prospettato un dubbio sull’illiceità del fatto e, se l’assenza di simile dubbio risulti discendere – in via principale – da personale ed incolpevole mancanza di socializzazione dello stesso, l’ignoranza della legge penale va, di regola, ritenuta inevitabile” (Corte Cass., Sez. III, n. 12/06/1996, n. 2149, Falsini).

[9]           “L’esclusione del dolo … non significa sempre esenzione da ogni responsabilità. Al diritto penale non è e non può essere indifferente la causa dell’errore, il quale, da questo punto di vista, va distinto in colpevole ed incolpevole. E’ colpevole (o inescusabile) l’errore dipendente da imprudenza o negligenza e cioè l’errore che poteva essere evitato usando le dovute precauzioni; è incolpevole (o scusabile) l’errore che si verifica negli altri casi, e cioè quando nessuno rimprovero può muoversi all’agente. Solo in questo secondo caso l’errore, sempre che sia essenziale … importa l’irresponsabilità … Se l’invece l’errore sia colpevole, sorge una responsabilità per colpa allorché la legge prevede il fatto come reato colposo.” (Antolisei, “Manuale di Diritto Penale – Parte Generale”, Giuffé, 1991, p.367).

[10]          “Nelle contravvenzioni, siccome di regola per la punibilità basta la semplice condotta, l’errore su di un elemento essenziale del reato non elimina la responsabilità quando questo sia dovuto ad imprudenza o negligenza, mentre ha natura esimente qualora sia da considerare incolpevole” (Antolisei, “Manuale di Diritto Penale – Parte Generale”, Giuffé, 1991, p.367).

[11]          “Per errore sul fatto che costituisce il reato si intende l’errore che cade su uno più degli elementi essenziali che sono richiesti per l’esistenza del reato; questo errore si dice essenziale” (Antolisei, “Manuale di Diritto Penale – Parte Generale”, Giuffé, 1991, p.367).

In giurisprudenza: “errore di fatto si ha soltanto per un’errata percezione della realtà, per cui il difettoso processo intellettivo abbia inficiato il lato volitivo del processo psichico, onde il soggetto sia determinato ad agire nel presupposto di una realtà non corrispondente a quella effettiva. L’errata interpretazione tecnica della realtà esattamente percepita nei suoi elementi concreti non vale, invece, a discriminare né ad attenuare la responsabilità” (Corte Cass., Sez. IV, 19/03/1985 n. 2500, Giargia); “l‘ignoranza e l’errore di fatto ex artt. 47 e 48 del. c.p. non scusano quando riguardano semplici modalità dell’evento voluto e giuridicamente considerato” (Corte Cass., Sez. I, 07/12/1990 n. 16264, Ricci).

[12]          Il dubbio su una circostanza di fatto che costituisce elemento essenziale della fattispecie non è di per sé sufficiente ad escludere il dolo in quanto, mentre l’errore determina il convincimento circa l’esistenza di una situazione che non corrisponde alla realtà, chi agisce nel dubbio è invece consapevole di potersi esporre a violare la legge cosìcchè il compimento dell’azione comporta l’accettazione del  rischio della causazione dell’evento, concretizzando così una forma di responsabilità a titolo di dolo eventuale.

[13]          Antolisei, “Manuale di Diritto Penale – Parte Generale”, Milano, 1991, p. 371 e ss.; Manzini, “Trattato di diritto penale italiano”, 1981, p. 47 e ss..

[14]          Gallo, “Il dolo”, Enciclopedia del diritto, p. 761 e ss.

[15]          Delitalia, “Il fatto nella teoria generale del reato”, Padova, 1930, p. 190 e ss.; Grosso, “L’errore sulle scriminanti”, 1961, p. 198; Fiandaca-Musco, “Diritto penale – Parte Generale”, Bologna, 2001, p. 342; Mantovani, “Diritto penale – Parte Generale”, Padova, 1992, p. 372.

[16]          Delpino, “Diritto Penale – Parte Generale”, Simone, 2016, p. 606.

Pittaluga Francesco

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