Limiti al riconoscimento dell’errore scusabile e dei suoi effetti

sentenza 07/04/11
Scarica PDF Stampa

È opinione condivisa in giurisprudenza quella secondo cui la mancata apposizione in calce al provvedimento amministrativo della formula recante il termine e l’autorità presso cui impugnarlo, sancita dall’art. 3, comma 4, l. n. 241 del 1990, può implicare sì, in caso di eventuale ritardo nell’impugnazione di quest’ultimo, il riconoscimento dell’errore scusabile e dei suoi effetti, ma solo quando ne sussistano i presupposti.

Tali presupposti, in particolare, vanni rinvenuti in una situazione normativa obiettivamente inconoscibile o confusa, e cioè in uno stato di obiettiva incertezza, per le oggettive difficoltà di interpretazione di una norma, per la particolare complessità di una fattispecie concreta, per i contrasti giurisprudenziali esistenti o per il comportamento dell’amministrazione idoneo, perché equivoco, ad ingenerare convincimenti non esatti.

N. 01983/2011REG.PROV.COLL.

N. 06488/2005 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 6488 del 2005, proposto da***

contro***

nei confronti di***

per la riforma***

 

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca e del Provveditorato agli studi di Vicenza (C.S.A. di Vicenza);

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 3 dicembre 2010 il Cons. **************** e uditi per le parti l’Avv. Bottai per delega dell’Avv. ****** e l’Avvocato dello Stato Palmieri;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

 

FATTO

L’appellante prof. ************** riferisce di essersi trasferito sin dal 1975 in Francia, dove aveva acquisito la cittadinanza, nonché specifici titoli di studio universitari abilitanti all’insegnamento della lingua italiana e della lingua francese.

Egli riferisce di avere prestato attività di insegnamento in scuole francesi:

– dapprima (1980-1985) come docente di Educazione tecnica, Storia e Geografia e *******;

– successivamente (1990-1995) come docente di ruolo di lingua straniera italiana.

Nel marzo del 1995, essendo in procinto di ritornare in Italia, il prof. ****** chiedeva di essere inserito nella graduatoria provinciale per insegnante tecnico-pratico negli istituti di istruzione secondaria (triennio 1995-1998) e, a tal fine, chiedeva che fossero valutati i titoli di studio e di servizio maturati all’estero.

Il competente Provveditore agli studi di Vicenza predisponeva le graduatorie, ma non vi computava i titoli allegati dal prof. ******, il quale perciò (senza agire in sede giurisdizionale contro tale mancato computo) chiedeva mediante ricorso gerarchico (istanza in data 7 settembre 1995) il riesame del punteggio assegnato.

Il Provveditore agli studi, con atto del 4 ottobre 1995, accoglieva l’istanza solo per ciò che riguardava i titoli culturali (riconoscendo il punteggio richiesto), mentre per ciò che riguardava i titoli di servizio ne disconosceva la spettanza, assumendo che il richiesto punteggio aggiuntivo spettava solo per l’insegnamento svolto in scuole o istituti di istruzione secondaria italiani, conformemente alle previsioni dell’o.m. 29 dicembre 1994, n. 371.

Conseguentemente, venivano approvate dapprima le graduatorie provvisorie e poi le graduatorie definitive per il triennio 1995-98. Il ************ non insorgeva avverso tali graduatorie.

Nel 1998 l’****** reiterava la domanda di valutazione dei titoli di servizio maturati in Francia. Il Provveditore agli studi, con atto del 2 aprile 1998, respingeva nuovamente l’istanza, osservando che la valutazione dei titoli a suo tempo effettuata era conforme alle previsioni dell’o.m. 29 dicembre 1994, n. 371 (sul conferimento al personale docente delle supplenze nelle scuole materne, elementari e negli istituti di istruzione secondaria ed artistica).

Pertanto, con ricorso proposto al Tribunale amministrativo regionale per il Lazio (n. 1692/98) il prof. ****** domandava l’annullamento:

– del provvedimento 2 aprile 1998 di rigetto del ricorso gerarchico ;

– della presupposta o.m. 371 del 1994 (per la parte in cui consentiva di attribuire il punteggio aggiuntivo unicamente per gli anni di insegnamento prestati presso scuole italiane);

– della graduatoria provinciale per l’anno scolastico 1997-98 relativa alle supplenze nella classe di concorso 203/C (‘Conversazione in lingua straniera’);

– del provvedimento con cui erano state a suo tempo approvate le graduatorie triennali provvisorie per il triennio 1995-1998 per gli aspiranti a supplenze nella scuola secondaria;

– del provvedimento in data 4 ottobre 1995, con cui il Provveditore agli studi aveva respinto l’istanza di riesame delle graduatorie da ultimo richiamate. Con riferimento all’impugnazione di quest’ultimo atto, il prof. ****** chiedeva la rimessione in termini per errore scusabile, dal momento che il provvedimento negativo non aveva indicato i rimedi esperibili.

Con la sentenza oggetto del presente gravame, il Tribunale amministrativo regionale per il Veneto dichiarava inammissibile il ricorso, considerando:

– che non poteva essere accolta la censura per cui gli atti oggetto di impugnazione erano nulli per violazione di norme imperative di legge (art. 1418 Cod. civ.), in relazione alla violazione dell’art. 48 del Trattato istitutivo della Comunità europea e del Regolamento (CE)1612/68 relativo alla libera circolazione dei lavoratori all’interno della Comunità. Infatti gli atti di approvazione delle graduatorie sono ordinari provvedimenti, che giungono all’esito di procedimenti amministrativi e vanno impugnati entro l’ordinario termine di decadenza;

– che, nel merito, la domanda risarcitoria non poteva trovare accoglimento. Ciò, in quanto la giurisprudenza amministrativa ha, nel tempo, superato la tesi della piena autonomia fra giudizio di annullamento e giudizio risarcitorio, aderendo alla tesi della c.d. pregiudizialità necessaria fra giudizio di annullamento e pronuncia risarcitoria;

– che, anche ad ammettere l’illegittimità de iure communitario degli atti con cui era stato negato nel corso degli anni (segnatamente, nel 1995) il riconoscimento dei richiamati titoli di servizio, il regime di impugnazione degli atti restava comunque quello della disciplina processuale nazionale propria degli ordinari atti amministrativi (e dunque si rendeva applicabile il termine di decadenza);

– che il prof. ****** non aveva impugnato in sede giurisdizionale le graduatorie definitive per il triennio 1995-1998 (pubblicate il 19 ottobre 1995), e si era limitato ad impugnare le sole, successive, graduatorie per le supplenze per l’anno scolastico 1997-98 (peraltro, in modo tradivo, dal momento che le graduatorie in parola erano state impugnate solo alla fine dell’anno scolastico di riferimento: giugno 1998 );

– che non si poteva affermare l’ammissibilità del ricorso solo avendo riguardo all’impugnazione del provvedimento in data 2 aprile 1998 (con il quale il Provveditore aveva respinto l’istanza di riesame delle successive graduatorie per le supplenze nell’a.s. 1997-98). Ciò in quanto quell’atto era meramente confermativo del precedente operato dell’amministrazione e, di conseguenza, non era di suo impugnabile.

La sentenza è stata impugnata in appello dal prof. ******, il quale ne chiede l’integrale riforma articolando i seguenti motivi di doglianza:

1) (circa la) palese violazione del diritto comunitario;

2) (circa l’) autonomia dell’azione risarcitoria rispetto a quella di annullamento;

3) (circa la) nullità/inefficacia dei provvedimenti contrastanti con la normativa comunitaria per la prevalenza della normativa comunitaria e per il principio di effettività del diritto comunitario;

4) (circa la) inapplicabilità del principio della necessaria pregiudizialità del giudizio di annullamento alle violazioni del diritto comunitario attesi la prevalenza della normativa comunitaria e il principio di effettività del diritto comunitario – Violazione dell’art. 5 del Trattato che istituisce la Comunità europea;

5) (circa la) violazione delle sentenza della Corte di giustizia;

6) (circa la) violazione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e ribadito dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, nonché degli artt. 24 e 113 Cost.;

7) (circa l’) obbligo di rinvio;

8) (circa l’) impugnatura delle graduatorie definitive;

9) (circa l’) interesse al ricorso derivante dall’automatica caducazione delle graduatorie definitive del triennio 1995-98 derivante dall’annullamento del provvedimento di rigetto del ricorso gerarchico avverso le graduatorie provvisorie e/o dell’o.m. 371/94 di cui le stesse costituiscono applicazione;

10) (circa il) diritto alla rimessione in termini per errore scusabile;

11) (circa la) natura non meramente confermativa del provvedimento n. 12173/98;

12) (circa il) potere-dovere della p.a. di intervenire per porre rimedio ai propri atti illegittimi contrastanti con il diritto comunitario;

13) (circa il) diritto al risarcimento dei danni subiti per violazione dell’art. 164 del Trattato che istituisce la Comunità europea e dell’articolo 41 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo del 4 novembre 1950;

14) (circa la) situazione del ricorrente;

15) (circa la) violazione dell’art. 49 del Trattato che istituisce la Comunità europea, dell’art. 12 in relazione agli artt. 39, 43 e 149 del Trattato – Violazione dell’obbligo di interpretare ed applicare la normativa interna in senso conforme all’ordinamento comunitario;

16) (circa il) diritto al risarcimento dei danni in base al diritto comunitario;

17) (circa la) violazione grave e manifesta del diritto comunitario desumibile dalla chiara interpretazione fornita dalle sentenze della CGCE del 23 febbraio 94, 12 marzo 98 e 30 novembre 2000;

18) (circa il) diritto al risarcimento dei danni in base alla normativa italiana.

Si costituiva in giudizio il Ministero dell’Istruzione, dell’università e della ricerca, il quale concludeva nel senso della reiezione del gravame.

All’udienza pubblica del giorno 3 dicembre 2010, presenti gli avvocati come da verbale d’udienza, il ricorso veniva trattenuto in decisione.

DIRITTO

1. Giunge alla decisione del Collegio il ricorso in appello proposto dal docente prof. **************, il quale aveva maturato numerosi titoli culturali e di servizio in Francia presso scuole francesi, avverso la sentenza del Tribunale amministrativo regionale per il Veneto con cui è stato dichiarato inammissibile il suo ricorso,volto a: a) ottenere l’annullamento di alcune graduatorie provinciali per supplenze relative agli anni 2005-2008 (per la mancata valutazione dei titoli di servizio maturati in Francia) e b) ottenere il risarcimento dei danni patiti in conseguenza di tale mancato riconoscimento.

2. L’appellante osserva che le questioni di diritto da affrontare nell’esame dell’appello sono sostanzialmente le seguenti:

a) se sussista tuttora la c.d. ‘pregiudiziale di annullamento’ (espressamente richiamata dalla sentenza che impugna) ai fini dell’ammissibilità della sua domanda di risarcimento dei danni;

b) se la violazione dell’art. 48 del Trattato che istituisce la Comunità europea (TCE) (poi – per il Trattato di Amsterdam del 2 ottobre 1997, reso esecutivo con l. 16 giugno 1998, n. 209 – art. 39 del Trattato sull’Unione Europea (TUE); poi ancora – per il Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007, reso esecutivo con l. 2 agosto 2008, n. 130 – art. 45 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE)), sulla libera circolazione dei lavoratori, comporti la nullità dell’atto amministrativo per contrasto con norme imperative ai sensi dell’art. 1418 Cod. civ., ovvero la sua annullabilità;

c) se, nel caso di atto amministrativo che viola il diritto comunitario e produce un danno risarcibile, la proposizione della domanda risarcitoria presupponga necessariamente la previa impugnazione, nel termine di decadenza, dell’atto stesso e l’accertamento giudiziale della sua invalidità; oppure se dal principio di effettività del diritto comunitario consegua senz’altro il diritto al risarcimento del danno per equivalente pecuniario, indipendentemente dall’impugnazione e dall’accertamento giudiziale, e dunque la domanda risarcitoria possa essere proposta anche dopo l’inutile decorso del termine per l’impugnazione dell’atto;

d) se il cittadino residente in un diverso Paese dell’Unione abbia diritto alla rimessione in termini per errore scusabile per mancata indicazione, nell’ambito dell’atto, del termine e dell’autorità cui ricorrere;

e) se il provvedimento negativo del 2 aprile 1998 (con cui il Provveditore agli studi aveva confermato la non spettanza dei reclamati titoli didattici) abbia natura meramente confermativa del precedente diniego espresso in data 4 ottobre 1995, ovvero se sia autonomamente impugnabile;

f) se si possa ritenere che le graduatorie definitive per il triennio 1995-1998 siano state effettivamente impugnate con il ricorso di primo grado, anche alla luce di un esame in senso sostanziale della documentazione in atti;

g) se l’annullamento dell’o.m. n. 371 del 1994 (che comportava la limitata valutabilità dei titoli di servizio conseguiti all’estero) comporti l’automatico annullamento di tutti gli atti consequenziali o applicativi, quand’anche non espressamente impugnati;

h) se l’accoglimento dell’impugnazione del rigetto del ricorso gerarchico avverso le graduatorie provvisorie del 1995 possa determinare anche l’effetto di travolgere le graduatorie definitive, ovvero se debba vi sia necessità di un’autonoma impugnazione avverso le medesime graduatorie definitive.

3. Riguardo alle questioni sub a) (pregiudiziale di annullamento) e c) (necessità, per effetto della pregiudiziale di annullamento, del previo annullamento di atti anche a fronte di invalidità per violazione del diritto comunitario), il Collegio osserva che non appaiono qui rilevanti ai fini del decidere, in quanto l’appello va comunque respinto (fermo restando che la c.d. pregiudiziale di annullamento è oggi comunque superata dall’art. 30 Cod. proc. amm.).

Il Collegio, in particolare, ritiene dirimente, ai fini dell’esclusione del risarcimento per equivalente pecuniario, dal punto di vista dello stesso diritto al risarcimento del danno, la mancata tempestiva impugnazione delle graduatorie definitive per le supplenze relative al triennio 1995-1998 (e dell’atto del 4 ottobre 1995 che respingeva, sul punto, il suo ricorso gerarchico). Questa circostanza, che l’Asiani non può che imputare a se stesso, era per i suoi effetti ostativa al risarcimento del danno, indipendentemente da ogni pregiudiziale di annullamento.

Si rileva al riguardo:

– che in primo grado il prof. ****** si è limitato ad impugnare: a) il provvedimento di rigetto del ricorso gerarchico avverso le graduatorie provvisorie per il triennio 1995-1998; b) l’o.m. 29 dicembre 1994, n. 371, che aveva fissato le regole per la predisposizione delle graduatorie provvisorie e definitive; c) gli atti con cui, in relazione all’a.s. 1997-98 (ossia all’ultimo anno del triennio) era stata nuovamente negata la sua pretesa al riconoscimento del punteggio aggiuntivo per il servizio prestato all’estero;

– che il prof. ****** non ha impugnato, neppure tardivamente,le graduatorie definitive relative al triennio 1995-1998, nonostante l’evidente loro carattere di autonomia formale e strutturale rispetto alle successive graduatorie del 1997-1998;

– che, a parte ogni questione circa la latitudine della domanda in appello, la mancata impugnazione delle graduatorie definitive per il triennio 1995-1998 ha determinato il consolidamento della situazione da quelle implicate (la mancata valutazione dei suoi titoli di servizio maturati all’estero), sulla quale l’Amministrazione non poteva più tornare se non contraddicendosi. Così, per l’inerzia dell’interessato nel curare il proprio interesse, si è consolidato un suo deteriore posizionamento in graduatoria.

Insomma, quelle graduatorie definitive 1995-1998 (che andavano, per loro natura, a sostituire le impugnate graduatorie provvisorie) erano divenute inoppugnabili. Dunque legittimamente il giudice di primo grado, con la gravata sentenza, ha dichiarato inammissibile il ricorso nei loro confronti per quanto concerne la tardiva azione impugnatoria.

Alla luce di questi elementi che caratterizzano la vicenda in esame, si deve esaminare la questione dell’autonoma spettanza, indipendentemente dall’annullamento delle medesime graduatorie, di un titolo al risarcimento dei danni a favore dell’******.

Preliminare è il tema se le graduatorie in questione fossero davvero illegittime per attività colpevole (per violazione delle regole di imparzialità, correttezza e buona amministrazione) della p.a.: aspetto che, alla luce della giurisprudenza (per tutte: Cass., SS.UU., 22 luglio 1999, n. 500) realizza il titolo, ove ne sussistano gli elementi, di una tutela risarcitoria.

Al riguardo, si deve osservare che le graduatorie in questione erano illegittime per la parte in cui non tenevano in adeguata considerazione, per ciò che riguarda la posizione del Prof. ******, lo svolgimento presso istituzioni scolastiche francesi di attività di servizio che – al contrario – sarebbero state certamente valutate laddove prestate, a simili condizioni, presso istituzioni scolastiche italiane.

Ci si riferisce, in particolare:

– al documentato servizio di insegnamento presso scuole francesi del distretto di ***** nelle materie ‘Educazione tecnica’, ‘Storia, Geografia e Lettere’ per il periodo compreso fra il 1980 e il 1985;

– al documentato servizio di insegnamento di ruolo presso scuole francesi dei distretti di *****, Marsiglia e Nizza nella materia di ‘Lingua straniera Italiana’ per il periodo compreso fra il 1990 e il 1995.

Al riguardo, si osserva che la mancata valutazione dei richiamati titoli di servizio era – come viene lamentato dall’interessato – illegittima per violazione del principio di libera circolazione dei lavoratori di cui all’art. 39 del TCE (nella formulazione allora vigente), nonché del regolamento (CE) 1612/68 del Consiglio del 15 ottobre 1968, relativo alla libera circolazione dei lavoratori all’interno della Comunità.

Sotto tale aspetto, può metter conto richiamare la pronuncia della Corte di giustizia delle Comunità europee, II, 12 maggio 2005, in causa C-278/03 con cui è stato affermato che la Repubblica italiana, non tenendo conto o, quantomeno, non tenendo conto in maniera identica, ai fini della partecipazione dei cittadini comunitari ai concorsi per l’assunzione di personale docente nella scuola pubblica italiana, dell’esperienza professionale acquisita da questi cittadini nelle attività di insegnamento a seconda che queste attività siano state svolte nel territorio nazionale o in altri stati membri, è venuta meno agli obblighi che ad essa incombono in forza delle pertinenti disposizioni del diritto comunitario primario e derivato. Per quanto affermato nel diritto comunitario, un tale giudizio può essere senz’altro valevole anche nel diritto interno, non solo per un’esigenza generale di coerenza tra i due ordinamenti, ma soprattutto perché – come qui si dirà poi – un siffatto contrasto con precetti di diritto comunitario è possibile titolo di annullamento per illegittimità dell’atto amministrativo interno.

Sussiste qui anche l’elemento soggettivo del comportamento che presiede a un tale atto illegittimo e dà luogo al risarcimento del danno.

Al riguardo occorre svolgere alcune considerazioni. Per consolidato orientamento della giurisprudenza comunitaria, per la risarcibilità del danno da atto illegittimo de iure communitario non è necessario dimostrare l’elemento soggettivo del dolo o della colpa in capo all’organo statale, in quanto l’elemento in questione è in re ipsa a fronte della violazione grave e manifesta delle disposizioni del diritto comunitario e in quanto una siffatta violazione sussiste comunque nel caso di violazione delle disposizioni del Trattato (Corte di giustizia, sentenze 19 novembre 1991, **********; 5 marzo 1996, Brasserie du Pêcheur e Factortame; 26 marzo 1996, British Telecommunications).

Un tale orientamento, per quanto autorevole, non consente di derogare ai criteri che presiedono nell’ordinamento interno all’identificazione – quanto a colpevolezza – del titolo al risarcimento dei danni da atto amministrativo illegittimo (il danno deriva del resto dall’azione amministrativa interna, non da quella di istituzioni o uffici comunitari). A questo proposito, va allora rammentato che la colpa dell’amministrazione va ricondotta – sia secondo la ricordata sentenza n. 500 del 1999, sia in base alla giurisprudenza successiva – alla violazione dei canoni di imparzialità, correttezza e buona amministrazione, ovvero a negligenza, omissioni o anche errori interpretativi di norme, ritenuti non scusabili. Siffatta colpa dunque non può essere ritenuta presente in re ipsa (cioè riferire alla mera illegittimità dell’atto), ma va dimostrata in riferimento alla condotta amministrativa in relazione ai suoi parametri generali in ragione dell’interesse, giuridicamente protetto, di chi correttamente instaura un rapporto con l’Amministrazione.

Fatta questa precisazione, qui si deve comunque ritenere esser presente una tale colpa dell’Amministrazione, la quale nella specie ha versato in un non scusabile errore interpretativo di norme; errore che l’Amministrazione stessa, su cui incombeva l’onere, non ha dimostrato non essere tale; cioè, non ha dimostrato essere scusabile: ad es. per oggettiva oscurità o rilevante complessità della fattispecie, per sovrabbondanza o repentino mutamento delle norme, per formulazione incerta di norme recenti, per contrasti giurisprudenziali, per influenza determinante di comportamenti di terzi, per illegittimità da successiva dichiarazione di incostituzionalità.

Nel caso in esame nessuno di questi elementi scusanti è stato in concreto addotto dall’Amministrazione, la quale si è limitata sul punto a ribadire il proprio convincimento (contrario al diritto comunitario) circa la non computabilità in sé dei periodi di servizio prestati in Francia.

Ritenuta dunque incidentalmente, sin da un primo approccio, alla luce dell’ordinamento italiano l’illegittimità della mancata valutazione dei titoli in questione dell’******, e l’illiceità della corrispondente condotta dell’Amministrazione, e dunque ritenuto ipotizzabile un danno risarcibile, si deve passare a valutare se egli ha in concreto, malgrado la mancata tempestiva impugnazione, un titolo al risarcimento del danno stesso, derivante dalla lesione dell’interesse al bene della vita (gli effetti del computo dei titoli di servizio in questione sulla sua condizione lavorativa) cui la sua pretesa al legittimo comportamento amministrativo si correlava.

Occorre allora passare alla questione della sua condotta volta ad evitare, o a ridurre, usando dell’ordinaria diligenza, il danno risarcibile.

Al riguardo il Collegio ritiene di richiamare il condiviso orientamento per cui, anche se la domanda risarcitoria è proponibile in via autonoma, il giudice amministrativo deve tener conto, nel merito, dell’imputabilità, alla condotta colpevole del danneggiato, della mancata proposizione di una domanda giudiziale di annullamento dell’atto che, incidentalmente, qui si è visto dover essere qualificato come illegittimo e colposamente causativo di danno ingiusto.

Invero, la questione si concentra sul tema se, nella condotta positiva richiesta al danneggiato per ordinaria diligenza (art. 1227, cpv., Cod. civ.: “Il risarcimento non è dovuto per i danni che il creditore avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza”) rientra anche l’onere di un’azione giudiziale di annullamento avverso quell’atto amministrativo.

Il Collegio – sottolineato che la vicenda presente è regolata ratione temporis dalle norme precedenti il Codice del processo amministrativo – , ritiene che vi rientri. E, l’inclusione di siffatto onere nell’ordinaria diligenza cui è tenuto l’avente diritto al risarcimento, comporta l’esclusione della responsabilità dell’Amministrazione, se emerge che il danno avrebbe potuto essere contenuto o evitato attraverso la diligente cura, anche giudiziale, delle posizioni di costui.

La regola si fonda sul canone generale di correttezza e di buona fede oggettiva, che riguarda non solo le relazioni tra consociati, ma anche, seppur in modo particolare, le loro relazioni con la p.a.: dove – diversamente da quanto avviene di base nei giudizi civili – l’ordinamento, per riparare le lesioni inferte, appronta una specifica e generale tutela (restitutoria o satisfativa a seconda del tipo di interesse), dove l’intervento del giudice giunge ad annullare l’atto lesivo.

Questa regola ridonda sull’esistenza e sull’entità dello stesso diritto al risarcimento del danno da atto illegittimo, cioè alla riparazione essenzialmente per equivalente: nel senso che non spetta se l’interessato, non assolvendo a quel canone generale, non ha fatto quanto poteva per giungere alla riparazione della lesione, finanche attraverso l’azione di annullamento.

Ne viene che il principio generale dell’art. 1227, cpv., Cod. civ. in tema di “danno evitabile”, qui applicabile in quei termini ed oggi (per l’art. 30 Cod. proc. amm.) estensibile alla valutazione dell’entità del danno (danno contenibile), comporta che il danneggiato da un atto amministrativo illegittimo, per accampare il risarcimento dei danni che ne derivano, ha l’onere di tempestivamente attivarsi fino a domandarne l’annullamento giudiziale. Non bastano ad integrare un suo comportamento attivo di ordinaria diligenza, l’invito e la messa in guardia dell’Amministrazione sull’ingiustizia dei danni che l’atto causa; né basta esperire un rimedio amministrativo interno, come un ricorso gerarchico, se poi viene respinto (come è avvenuto nella specie). Occorre una vera e propria domanda di giustizia, cioè che l’interessato si spinga al rimedio giustiziale disponibile contro l’atto amministrativo illegittimo per ottenerne l’annullamento e dunque la cessazione della produzione degli effetti dannosi (oggi l’art. 30, comma 4, Cod. proc. amm. analogamente riconduce all’ “ordinaria diligenza” del danneggiato “l’esperimento degli strumenti di tutela previsti”).

Consegue da questa regola, immanente alla posizione del danneggiato, che la previa operosa impugnazione giustiziale dell’atto illegittimo è presupposto dell’utilità e del fondamento stesso dell’azione risarcitoria (piuttosto che dalla consequenzialità da ultimo prevista dall’art. 7 l. 6 dicembre 1971, n. 1034; o da esigenze generali di certezza delle situazioni giuridiche di diritto pubblico, cui il termine breve di impugnazione è funzionale; o dall’impossibilità per il giudice amministrativo di disapplicare l’atto amministrativo; o dall’incoerenza che risulterebbe tra una intervenuta condanna al risarcimento e un provvedimento che le sopravviverebbe).

Perciò il risarcimento del danno non è dovuto dalla p.a. in caso di mancata impugnazione dell’atto illegittimo foriero di danno (in tal senso Cons. Stato, V, 31 dicembre 2007, n. 6908; IV, 3 maggio 2005, n. 2136; VI, 19 giugno 2008, n. 3059; VI, 22 ottobre 2008, n. 5183, secondo cui non spetta il risarcimento del danno quando derivi da un provvedimento amministrativo riguardante un terzo ed il ricorrente non si sia attivato impugnandolo tempestivamente; VI, 21 aprile 2009, n. 2436; contra Cons. Stato, V, 19 maggio 2009, n. 3066).

Non disconosce il Collegio che questo approccio presenta aspetti critici, a fronte dell’osservazione per cui la presentazione di una domanda di tutela giustiziale è comportamento che implica – per il costo e l’alea del giudizio – un apprezzabile sacrificio a carico del danneggiato; sicché per taluno non può essere ricondotta al canone dell’‘ordinaria diligenza’ e si tratta piuttosto di attività di straordinaria diligenza, ovvero gravosa od eccezionale (sul punto, Corte cost., 4 luglio 1999, n. 308; Cass., 22 marzo 1991, n. 3101; 14 gennaio 1992, n. 320). Nemmeno il Collegio disconosce l’obiezione che così si reintrodurrebbe in via surrettizia una sorta di pregiudiziale di annullamento, ormai abbandonata, e si negherebbe di fatto l’autonomia dell’azione risarcitoria (l’impugnazione giurisdizionale quale previo onere per l’attivazione della domanda risarcitoria equivarrebbe in pratica a un nuovo nesso di pregiudizialità necessaria fra l’azione di impugnazione dell’atto e l’utile esperibilità dell’azione risarcitoria stessa).

Nondimeno, la previa impugnazione giudiziale dell’atto è richiesta dai ricordati canoni generali di correttezza e di buona fede oggettiva (non dal principio generale di solidarietà: non è da solidale con la p.a. l’impugnarne gli atti): e questi nel rapporto amministrativo si atteggiano diversamente che nel rapporto interprivato, anche quanto al ricorso agli strumenti di tutela in giustizia. Né si può opporre la particolare onerosità dell’azione di annullamento, posto che è esperibile anche con ricorso straordinario al Presidente della Repubblica (Cons. Stato, VI, 22 ottobre 2008, n. 5183). Quanto all’autonomia dell’azione risarcitoria, non ne è negata, perché a ben vedere qui si fa questione non dell’esperibilità dell’azione (la quale è ammissibile anche in assenza della previa azione di annullamento) ma, in termini sostanziali, del diritto al risarcimento del danno come ulteriore strumento di soddisfazione, stavolta per equivalente, dell’interesse dell’amministrato, che è oggetto di quella azione (cfr. Cons. Stato, VI, 19 giugno 2008, n. 3059; VI, 21 aprile 2009, n. 2436; Corte cost., 6 luglio 2004, n. 204; 11 maggio 2006, n. 191), rispetto a quella classica demolitoria.

Diversamente, del resto, si dovrebbe ammettere l’indifferenza – per un ordinamento che a tutela del cittadino appronta tramite la giustizia amministrativa l’eccezionale e specifica tutela demolitoria degli atti – dell’azione demolitoria stessa e dell’azione risarcitoria. Il che non solo causerebbe irragionevolmente una duplicazione di offerta di tutele a fronte di un atto illegittimo, alternative o concorrenti a piacimento e con scelta rimessa alla mera scelta di convenienza del destinatario dell’atto (consentita fino al malizioso lucro di utilità ulteriori, rispetto alla corretta soddisfazione circa il bene della vita; o fino a dar spazio a indebite disposizioni dell’interessato con terzi, in frode della p.a.), ma innalzerebbe l’azione risarcitoria a rimedio facilmente prescelto per neutralizzare gli effetti di un atto lesivo, svilendo così lo strumento preminente di tutela contro le illegittimità amministrative, che è l’apposita azione di annullamento.

Più in generale, vale considerare che il risarcimento dei danni da atto amministrativo illegittimo ha la finalità di rendere piena e completa, ma non già di duplicare, e a discrezione, la tutela giurisdizionale restitutoria o satisfatoria dell’interessato.

La duplicazione di offerta di azioni, perciò, sarebbe di suo irrazionale se non fosse che la tutela risarcitoria (cioè per equivalente) va assunta come sussidiaria rispetto a quella demolitoria (preferenziale perché specifica, direttamente satisfativa e costituzionalmente prevista ad hoc: art. 113 Cost.): cioè come volta a riparare le conseguenze patrimoniali negative non eliminabili con la rimozione giustiziale degli atti.

In definitiva, va dato comunque rilievo, per configurare l’esistenza del pieno obbligo risarcitorio, alla previa presentazione di una domanda di tutela in giustizia contro l’atto, dalla quale possa derivare un obiettivo ostacolo o l’attenuazione delle conseguenze pregiudizievoli discendenti dall’illegittimo operato dell’amministrazione.

Va però evidenziato – proprio per la richiamata ‘ordinaria diligenza’ – che, in un tale quadro, non una qualunque mancata presentazionedella domanda di tutela giustiziale contro l’atto risulterà rilevante per escludere l’obbligo risarcitorio. Ma rileverà solo una mancata presentazione di carattere qualificato, connotata da colpevolezza e inescusabilità in capo al danneggiato, la quale non farà sorgere, o persistere, il diritto al risarcimento.

Se si negasse rilievo, ai fini risarcitori, alla colpevolezza della pretermissione delle domande di giustizia contro l’atto, si incorrerebbe in una sorta di vizio ‘pendolare’ (e, per così dire, ‘speculare’) rispetto alle conseguenze più estreme (e maggiormente criticate) della teorica della pregiudiziale di annullamento.

Insomma, se per un verso il dovere di evitare il danno e il suo aggravamento ricade anzitutto sull’amministrazione che agisce, per un altro ha rilievo negativo sul diritto al risarcimento il comportamento di chi si stima danneggiato, ma che abbia a suo tempo pretermesso in modo colpevole di attivarsi, anche in giustizia, per contenere gli effetti dannosi della condotta della controparte.

In definitiva, ritiene il Collegio, la pretermissione, da parte del danneggiato da un atto dell’amministrazione, della previa domanda di giustizia contro l’atto stesso non costituisce sempre e comunque una violazione del canone di ordinaria diligenza ai sensi dell’art. 1227, cpv., Cod. civ.. Una tale pretermissione può impedire, o limitare, il sorgere del diritto al risarcimento se, in concreto, emerge che: a) la mancata azione giudiziale è caratterizzata da colpevolezza (secondo una concreta e ordinaria esigibilità); b) fra la pretermissione e l’insorgenza del danno sussiste un nesso di conseguenzialità diretta, perché il secondo non si sarebbe verificato se l’interessato avesse debitamente svolto l’azione di annullamento .

È utile aggiungere che l’onere si limita all’impugnazione ed è indipendente da qualsiasi esito di quell’azione.

Conducendo queste considerazioni al caso qui in esame, il Collegio ritiene che la risarcibilità del danno lamentato dal prof. ****** vada esclusa, perché nel caso di specie appaiono presenti numerosi indici di una pretermissione qualificata e contrastante con l’ordinaria diligenza da lui esigibilenell’esercizio dell’azione di annullamento e dunque – in via riflessa – un suo concorso causale diretto nella determinazione del danno.

Si osserva al riguardo:

– che i vizi – anche di ordine comunitario – dell’attività valutativa dell’amministrazione erano ben noti all’Asiani sin dall’ottobre del 1995, avendo egli dimostrato di esserne ampiamente consapevole sin dal momento in cui aveva proposto ricorso gerarchico avverso la graduatoria provvisoria;

– che, nonostante l’evidente conoscenza di detti vizi e dei conseguenti rimedi di tutela e nonostante una prima iniziativa, l’****** aveva poi desistito per quasi tre anni da ogni concreta iniziativa prima di adire la via giudiziaria, così contribuendo in modo determinante al radicarsi delle situazioni di fatto e di diritto connesse all’approvazione delle graduatorie definitive del 1995;

– che vi è consequenzialità diretta fra la pretermessa impugnazione delle graduatorie definitive per il triennio 1995-1998 e il consolidamento di una sua situazione pregiudizievole in termini di carriera, cui non poteva più porre rimedio la (peraltro, tardiva) impugnazione delle sole graduatorie per supplenze relative all’a.s. 1997-1998;

– che il pronto accoglimento giurisdizionale dell’impugnazione proposta (tempestivamente) avverso le graduatorie per l’anno 2000, conferma in via indiretta che l’****** avrebbe potuto ottenere piena soddisfazione anche riguardo al triennio 1995-1998, se solo il suo comportamento non fosse stato negligente.

Concludendo, la domanda risarcitoria del prof. ****** presentata solo nel 1998 non può trovare accoglimento, avendo egli per negligenza pretermesso di domandare tempestiva tutela giudiziale contro l’atto e così impedire la causazione del danno e poi il suo aggravamento.

3.1. Per le medesime ragioni, non rileva qui la questione (di cui al quarto motivo di appello) relativa al se la pregiudiziale di annullamento trovi o meno applicazione nel caso in cui il vizio dell’atto amministrativo derivi dalla violazione del diritto comunitario.

4. Occorre a questo punto domandarsi se queste conclusioni possano essere revocate in dubbio per il fatto che le illegittimità lamentate dall’****** fossero riconducibili a violazioni del diritto comunitario, primario e derivato.

4.1. Il Collegio ritiene che non possa essere condivisa la tesi dell’appellante per cui le graduatorie in parola, in quanto configgenti con il diritto comunitario (segnatamente: con il Regolamento (CE)1612/68 del Consiglio del 15 ottobre 1968, relativo alla libera circolazione dei lavoratori all’interno della Comunità), sarebbero radicalmente nulle per violazione di norme imperative di legge,ai sensi dell’art. 1418 Cod. civ. e perciò non vi sarebbe, per far valere questa nullità, la decadenza propria dell’azione di annullamento.

Posto dunque che, come sopra detto, è ravvisabile questa violazione del Regolamento (CE)1612/68 del Consiglio del 15 ottobre 1968, occorre qualificarla e valutare se essa dà luogo alla nullità dell’atto, come assume il ricorrente, e perciò poteva essere sollevata sine die, ovvero se dà luogo alla sua annullabilità, e perciò è divenuta inoppugnabile una volta trascorso pacificamente il termine decadenziale di impugnazione in giustizia.

Ritiene il Collegio che questo contrasto dia luogo ad un vizio di legittimità dell’atto, cioè alla sua annullabilità, e non alla sua radicale nullità.

Va rammentato infatti il consolidato orientamento per cui la violazione del diritto comunitario implica solo un vizio di legittimità, con conseguente annullabilità dell’atto amministrativo. L’art. 21-septies l. 7 agosto 1990, n. 241, introdotto dalla l. 11 febbraio 2005, n. 15, ha codificato in numero chiuso le ipotesi di nullità del provvedimento amministrativo, e non vi rientra la violazione del diritto comunitario (Cons. Stato, VI, 22 novembre 2006, n. 6831; 31 maggio 2008, n. 2623). Vero è che qui si tratta di norma sopravvenuta, ma il suo carattere è ricognitivo; e comunque la nullità è già da prima ritenuta configurabile nella sola ipotesi – che nella specie non sussiste – in cui il provvedimento nazionale sia stato adottato sulla base di una norma interna attributiva del potere che sia incompatibile con il diritto comunitario (Cons. Stato, V, 10 gennaio 2003, n. 35; IV, 21 febbraio 2005, n. 579; VI, 20 maggio 2005, n. 2566; V, 19 maggio 2009, n. 3072).

Da tanto consegue: a) (sul piano processuale) l’onere dell’impugnazione del provvedimento contrastante con il diritto comunitario, dinanzi al giudice amministrativo entro il termine di decadenza, pena la inoppugnabilità; b) (sul piano sostanziale) l’obbligo per l’Amministrazione di dar corso all’applicazione dell’atto, salva l’autotutela (Cons. Stato, V, 8 settembre 2008, n. 4263).

Poiché questo contrasto con il diritto comunitario, per ciò che riguarda le graduatorie definitive 1995-1998, non è stato fatto valere a tempo debito, l’atto – per quanto fosse annullabile – è ormai, per acquiescenza dello stesso ******, divenuto inoppugnabile. Non vale dunque oggi, da parte dell’interessato, il qualificarlo come affetto da una pretesa, ma inesistente, nullità.

4.2. Occorre quindi esaminare l’ulteriore motivo di appello fondato sulla presunta, erronea applicazione al caso concreto che il Tribunale avrebbe fatto dell’orientamento della Corte di giustizia delle Comunità europee, secondo cui l’obbligo di garantire l’efficacia diretta delle norme del diritto comunitario (rectius: la diretta applicabilità, trattandosi di qui di norme di un regolamento comunitario) comporta l’obbligo – per le amministrazioni e i giudici nazionali – di procedere alla disapplicazione dell’atto interno contrastante con il diritto dell’Unione.

Al riguardo, l’appellante richiama:

– l’orientamento della Corte di giustizia, secondo cui è comunque fatto obbligo agli stati membri di procedere alla disapplicazione dell’atto amministrativo contrastante con il diritto comunitario (sentenza 29 aprile 1999, in causa C-224/97, *****);

– l’orientamento della Corte di giustizia, secondo cui è obbligo degli organi nazionali di disapplicare le disposizioni processuali nazionali circa la decadenza dell’azione, se la loro applicazione rende impossibile o estremamente difficile l’applicazione del diritto comunitario – nel caso di specie, le disposizioni del Regolamento (CE)1612/68 in tema di valutabilità del servizio prestato all’estero – (es. sentenza 27 gennaio 2003, in causa C-327/00, Santex).

In definitiva, l’appellante ****** assume che il principio di primazia del diritto comunitario, e il principio di leale cooperazione di cui all’art. 5 TCE (poi art. 10 dopo il Trattato di Amsterdam, e poi art. 4, par. 3, TUE dopo il Trattato di Lisbona) impongono al giudice nazionale di disapplicare l’atto amministrativo nazionale che contrasta con il diritto comunitario anche se ormai divenuto inoppugnabile (qui: le graduatorie definitive del 1995), ovvero di disapplicare le disposizioni nazionali che sanciscono l’effetto dell’inoppugnabilità dell’atto quale conseguenza della mancata tempestiva impugnazione sede giudiziale.

Di tanto il giudice nazionale avrebbe – secondo l’****** – dovuto tener conto quanto meno al fine di ripristinare l’ordine giuridico violato con il riconoscimento del risarcimento del danno conseguente ad atti contrastanti il diritto comunitario (id est: conseguente alla mancata attribuzione del punteggio per il servizio prestato all’estero).

4.2.1. Il motivo, ritiene il Collegio, non merita accoglimento.

La questione è se contrasta con il principio di lealecooperazione e di effettività del diritto comunitario un sistema di tutela giurisdizionale che assoggetta all’ordinario termine decadenziale l’impugnazione dell’atto amministrativo nazionale contrastante con il diritto comunitario; nonché se siffatto sistema renda impossibile o eccessivamente difficile l’applicazione del diritto comunitario.

Ad avviso del Collegio, a entrambi in quesiti occorre fornire risposta negativa.

Al riguardo si osserva:

– che, dal punto di vista generale, per l’ordinamento comunitario è indifferente la qualificazione che il diritto interno conferisce (diritto soggettivo o interesse legittimo) alle posizioni giuridiche nascenti da norme del diritto comunitario, interessandosi piuttosto che il sistema giudiziario nazionale assicuri pienezza ed effettività di tutela giurisdizionale (sul punto, ex plurimis: Corte di giustizia, sentenza 17 settembre 1997, in causa C-54/96, ******);

– che per diritto comunitario vi è autonomia degli Stati membri nell’approntare gli strumenti processuali di tutela giurisdizionale a fronte di posizioni giuridiche di matrice europea, anche perché non ha previsto specifici strumenti processuali a carattere armonizzato (valevoli all’interno dei singoli Stati membri) per tali posizioni. Infatti, nonostante il Trattato CE abbia istituito un certo numero di azioni dirette che possono essere esperite dai singoli dinanzi al giudice comunitario, lo stesso Trattato non ha creato mezzi d’impugnazione esperibili dinanzi ai giudici nazionali per rendere effettivo il diritto comunitario diversi da quelli già contemplati dal diritto nazionale stesso (Corte di giustizia, sentenza 7 luglio 1981 in causa C-158/80, Rewe);

– che le disposizioni di diritto interno volte ad assicurare pienezza ed effettività di tutela processuale al diritto comunitario sostanziale, devono soddisfare due requisiti: a) garantire che le modalità di tutela non siano meno favorevoli di quelle che riguardano analoghi ricorsi di diritto interno (principio di equivalenza); b) garantire che gli strumenti processuali non siano tali da rendere in pratica impossibile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico comunitario (principio di effettività) (ex plurimis: Corte di giustizia, sentenza in data 16 maggio 2000, in causa C-78/98, Preston);

– che, in via generale, il rispetto dei princìpi di parità di trattamento ed effettività non osta a che lo Stato membro assoggetti la tutela di una posizione giuridica di diritto comunitario derivato ad un termine di decadenza, a condizione che la fissazione di tale termine sia equivalente a quella prevista per posizioni giuridiche di diritto interno, e che il termine non sia di esiguità tale da rendere impossibile o estremamente difficile l’esercizio effettivo della tutela delle posizioni giuridiche di matrice comunitaria. Per la Corte di giustizia, la fissazione di termini decadenziali di ricorso ragionevoli, in applicazione del principio della certezza del diritto, risponde in principio all’esigenza che le condizioni (relative ai termini), delle legislazioni nazionali sul risarcimento dei danni da violazioni del diritto comunitario rendano in pratica impossibile o eccessivamente difficile il risarcimento (principio di effettività); e il termine (sufficiente a mettere i beneficiari in condizione di conoscere i loro diritti) non rende particolarmente difficile né, a fortiori, praticamente impossibile la proposizione dell’azione di risarcimento danni. Spetta ai giudici nazionali verificare che il termine controverso rispetti anche il principio che le condizioni stabilite dalle legislazioni nazionali in materia di risarcimento dei danni da violazioni del diritto comunitario non possono essere meno favorevoli di quelle che riguardano reclami analoghi di natura interna(principio dell’equivalenza) (sentenza 10 luglio 1997 in causa C-261/95, Palmesani; cfr anche la evocata sentenza 27 gennaio 2003, in causa C-327/00,Santex).

– che, nel caso di specie, è pacifico che il termine per impugnare il provvedimento di approvazione delle graduatorie definitive per il triennio 1995-1998 fosse quello generale di sessanta giorni. Detto termine – che di suo non rendeva impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio del diritto di azione in questione -non era irragionevolmente limitativo della possibilità di domandare una tutela effettiva delle posizioni giuridiche oggetto di violazione. Certamente infatti va garantita la libertà di circolazione comunitaria dell’******: ma il fatto che egli non abbia tempestivamente curato il suo interesse reagendo in giustizia contro le graduatorie definitive 1995-1998, è elemento che non a che vedere con la circolazione medesima, e che egli non può che imputare a se stesso e alla sua autoresponsabilità.

Non vi è dunque sul punto alcuna violazione, da parte dell’Amministrazione, dei predetti principi sui tempi dell’azione giudiziaria a tutela dei diritti originati dal diritto comunitario.

Concludendo, il Collegio ritiene che la mancata, tempestiva impugnazione da parte del prof. ****** delle graduatorie definitive per il triennio 1995-1998, abbia comportato il consolidamento della sua conseguente posizione e che tale assetto qui non possa essere revocato in dubbio, neppure sub specie di domanda risarcitoria (v. retro, sub 3).

Il Collegio ritiene, altresì, che il sistema di tutela sostanziale e processuale nella specie applicato non mostri violazioni del diritto comunitario per lesione del principio di equivalenza, né per lesione del principio di effettività, anche in considerazione del generale principio dell’autonomia procedurale degli Stati membri.

4.2.1. Per le medesime ragioni (complessiva adeguatezza del sistema di tutela giurisdizionale offerto all’appellante – peraltro equivalente all’analogo sistema di tutela approntato dall’ordinamento comunitario a fronte di impugnazione avverso atti illegittimi delle Istituzioni), non può trovare accoglimento il sesto motivo di appello, fondato sull’asserita violazione del diritto dell’appellante a un processo equo (art. 6 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali), nonché del principio di pienezza ed effettività di tutela giurisdizionale di cui all’art. 24 Cost..

5. Si deve a questo punto esaminare la questione relativa alla accordabilità della rimessione in termini per effetto dell’errore scusabile, a fronte della mancata impugnazione delle graduatorie definitive per il triennio 1995-1998.

Nella tesi dell’appellante, la scusabilità del suo asserito errore deriva dal comportamento dell’amministrazione intimata, la quale, nel respingere il ricorso gerarchico avverso le graduatorie provvisorie, non ha indicato i rimedi di tutela esperibili (in contrasto con l’art. 3 l. 7 agosto 1990, n. 241).

Inoltre, si dovrebbe riconoscere l’errore scusabile perché il prof. ****** aveva risieduto per molti anni in Francia, sì da giustificare la mancata conoscenza dei termini per l’impugnazione previsti dall’ordinamento processuale amministrativo italiano.

5.1. Il motivo non può essere condiviso.

Al riguardo si osserva:

– che la mancata indicazione dei rimedi di giustizia esperibili riguardava un provvedimento (quello di rigetto del ricorso gerarchico avverso le graduatorie provvisorie per il triennio 1995-1998) diverso e distinto rispetto a quello (l’atto di approvazione delle graduatorie definitive per il medesimo triennio) la cui mancata impugnazione ha indotto il primo giudice ad adottare la pronuncia di inammissibilità qui confermata;

– che, secondo un condiviso orientamento, la mancata apposizione in calce al provvedimento amministrativo della formula recante il termine e l’autorità presso cui impugnarlo, sancita dall’art. 3, comma 4, l. n. 241 del 1990, può implicare sì, in caso di eventuale ritardo nell’impugnazione di quest’ultimo, il riconoscimento dell’errore scusabile e dei suoi effetti, ma solo quando ne sussistano i presupposti, ossia: una situazione normativa obiettivamente inconoscibile o confusa, uno stato di obiettiva incertezza, per le oggettive difficoltà di interpretazione di una norma, per la particolare complessità di una fattispecie concreta, per i contrasti giurisprudenziali esistenti o per il comportamento dell’amministrazione idoneo, perché equivoco, ad ingenerare convincimenti non esatti (Cons. Stato, IV, 19 luglio 2004, n. 5182; 26 luglio 2004, n. 5316);

– che, nel caso di specie, nessuna delle richiamate circostanze giustificative era in concreto adducibile, atteso che nessuna particolare incertezza normativa sussisteva in ordine al termine e alle modalità di impugnazione di ordinari atti a contenuto generale quali le graduatorie del 1995. Oltretutto, la circostanza per cui il prof. ****** avesse puntualmente richiamato in sede di ricorso in opposizione (atto in data 7 settembre 1995) le previsioni di cui all’art. 12, comma 4,. o.m. 371 del 1994, mostra un adeguato livello di conoscenza delle tecniche di difesa esperibili avverso gli atti di approvazione delle graduatorie (peraltro, compiutamente richiamati dagli articoli 12 e 18, o.m. n. 371), sì da rendere inverosimile la mancata conoscenza delle modalità di proposizione del ricorso in sede giurisdizionale avverso i provvedimenti amministrativi asseritamente illegittimi.

Si osserva, poi, che la circostanza per cui l’appellante (cittadino italiano) avesse risieduto per molti anni in Francia è evento non rilevante in ragione della presunzione generale di conoscenza delle leggi e che pertanto non rende plausibile la mancata conoscenza dell’esistenza di un sistema di decadenza dalle impugnazioni.

6. A conclusioni diverse non si può giungere in base all’ottavo motivo di ricorso, con cui si osserva che la mancata impugnazione delle graduatorie definitive non giustifica la sentenza di inammissibilità, atteso che la volontà di contestarne gli effetti sarebbe stata deducibile dal complessivo tenore dell’impugnazione di primo grado.

Il motivo non può essere condiviso, per l’evidente distinzione ed autonomia che caratterizzava le graduatorie definitive del 1995 (mai impugnate dall’appellante, neppure in modo tardivo) da quelle provvisorie (contestate con il solo rimedio giustiziale del ricorso in opposizione). Non si può nemmeno ritenere che l’impugnazione proposta a quasi tre anni di distanza (1998) avverso le graduatorie per supplenze per l’a.s. 1997-1998 valesse a sanare la mancata, originaria impugnazione delle graduatorie permanenti ormai da lungo tempo consolidatesi.

Ai fini che qui rilevano, la sentenza va condivisa dove considera che stessa impugnazione delle graduatorie per supplenze per il 1997-1998 era a sua volta tardiva, perché proposta sul finire dell’anno scolastico di riferimento, mentre le stesse erano state pubblicate all’inizio del medesimo.

Per le medesime ragioni non si può ritenere (nono motivo di ricorso) che dall’eventuale – e comunque denegato – annullamento del provvedimento di rigetto del ricorso gerarchico proposto nel 1995 avverso le graduatorie provvisorie, deriverebbe la caducazione delle graduatorie definitive.

Nemmeno si può ritenere che il preteso effetto caducatorio possa conseguire all’impugnazione dell’o.m. 371 del 1994, atteso che alla tardiva impugnazione dell’atto presupponente (la graduatoria definitiva) non si può porre rimedio neppure invocando la sola impugnativa dell’atto presupposto (l’ordinanza ministeriale).

7. Ancora, non può trovare accoglimento l’undicesimo motivo di appello, con cui il prof. ****** nega che il provvedimento in data 2 aprile 1998 (con cui il Provveditore agli studi aveva confermato la non spettanza dei reclamati titoli didattici) aveva carattere meramente confermativo del precedente diniego in data 9 marzo 1995, configurandosi come atto non direttamente impugnabile.

Il Collegio condivide il consolidato orientamento per cui, al fine di stabilire se un atto sia meramente confermativo (e perciò non impugnabile) o di conferma in senso proprio, occorre verificare se sia stato adottato (o non) senza nuova istruttoria e nuova ponderazione di interessi (Cons. Stato, V, 12 marzo 1988, n. 147).

Ebbene, dal semplice esame dell’atto 2 aprile 1998 emerge che l’Amministrazione si è limitata a semplicemente richiamare le ragioni sottese all’adozione del primo diniego, senza procedere ad alcuna ulteriore valutazione di discrezionalità, né ad alcuna nuova ponderazione di interessi.

8. Per le ragioni sin qui esposte il ricorso in epigrafe va respinto per ciò che attiene la domanda di annullamento degli atti impugnati in prime cure, mentre la domanda risarcitoria – che il primo giudice ha dichiarato inammissibile – deve essere dichiarata infondata.

Le spese seguono la soccombenza e vengono liquidate in dispositivo.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge.

Condanna l’appellante alla rifusione delle spese di lite, che liquida in complessivi euro 2.500,00 (duemilacinquecento/00), oltre gli accessori di legge.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 3 dicembre 2010 con l’intervento dei magistrati:

*****************, Presidente

****************, Consigliere

Bruno **************, Consigliere

******************, Consigliere

Claudio Contessa, ***********, Estensore

 

 

 

L’ESTENSORE

 

IL PRESIDENTE

 

 

 

DEPOSITATA IN SEGRETERIA

Il 31/03/2011

IL SEGRETARIO

(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)

sentenza

Scrivi un commento

Accedi per poter inserire un commento