Licenziamento: legittimo se i controlli sono effettuati dall’agenzia investigativa

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In punto di diritto è legittimo il licenziamento basato sull’esito di un’attività investigativa, oggetto anche di prova testimoniale degli investigatori, rientrante nei poteri di controllo datoriale, in quanto esercitata in luoghi pubblici, onde è stato accertato, per 10 giorni, non solo il mancato rispetto dell’orario giornaliero di lavoro ma anche che, in orario di lavoro, al di fuori dell’ufficio, il dipendente non aveva svolto alcuna attività lavorativa.

Il principio è stato affermato dalla Corte di Cassazione, Sezione Lavoro Civile, con la sentenza del 4 aprile 2018, n. 8373, mediante la quale ha rigettato il ricorso e confermato quanto già deciso, nel caso de quo, dalla Corte d’appello di Roma.

La vicenda

La pronuncia in esame ha avuto origine dal fatto che la corte d’appello di Roma, con la sentenza n. 57XX/2015 ha confermato la pronuncia del 2014 emessa dal Tribunale di Roma con la quale era stata respinta la domanda proposta da PLINIO, ex dipendente di una Compagnia di Assicurazioni con qualifica di funzionario di terzo grado, volta ad ottenere l’accertamento della illegittimità del licenziamento intimato al lavoratore nel 2011 ed il suo annullamento, con conseguente reintegrazione nel posto di lavoro e condanna della società al risarcimento del danno, in misura pari alle mensilità di retribuzione maturate dalla data del ricorso fino alla data di riammissione in servizio.

A fondamento del decisum la Corte territoriale ha rilevato, in primis, che la contestazione disciplinare, intervenuta dopo 45 giorni, era tempestiva avendo riguardo alla data della effettiva e certa conoscenza dei fatti, al periodo feriale intercorso e alla complessità della organizzazione aziendale.

Ha ritenuto che la sanzione irrogata era proporzionata rispetto ai fatti contestati.

Ed infine ha rilevato che riguardo alla problematica sulla illegittimità dei controlli svolti dalla agenzia investigativa, in violazione degli artt. 2, 3, e 4 legge n. 300/1970, era una questione nuova perché prospettata per la prima volta in appello e, comunque, infondata perché l’attività investigativa era finalizzata non all’accertamento delle modalità di adempimento dell’obbligazione lavorativa, bensì alla verifica se il dipendente si fosse assentato, senza giustificato motivo o permesso dal luogo di lavoro.

Avverso questa sentenza Plinio ha proposto ricorso per cassazione affidato a sette motivi.

I motivi di ricorso

Per quanto è qui di interesse, il ricorrente Plinio con il secondo motivo sostiene la nullità della sentenza, ex art. 360 n. 4 c.p.c., per violazione dell’art. 437 c.p.c. per la ritenuta novità, da parte della Corte territoriale, della questione processuale riguardante la inutilizzabilità della relazione investigativa a mente degli artt. 2 e 3 St. Lav., nonché la nullità della sentenza per violazione e falsa applicazione dell’art. 437 c.p.c., essendo stata ritenuta, sempre dalla Corte distrettuale, non rilevabile di ufficio la questione di una prova vietata dalla legge.

Con il terzo motivo censura l’ingiustizia della sentenza per violazione e falsa applicazione degli artt. 2, 3 e 4 dello St. lav. in ordine al controllo a distanza del lavoratore nonché degli artt. 2104 e 2106 cpc e consequenziale ulteriore violazione della regola di giudizio dell’onere della prova ex art. 2697Cc circa l’impiego di indagini svolte da agenzie investigative.

Con il settimo motivo il ricorrente lamenta l’ingiustizia della sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione ex art. 360 n. 3 cpc, degli artt. 2119 cc, dell’art. 1 della legge n. 604/1966, degli artt. 1455, 2106, 2119 e 2697 cc, per totale assenza -sia in punto assertivo che dimostrativo- del pregiudizio agli scopi aziendali che la resistente avrebbe subito in conseguenza dell’inadempimento del dipendente.

La decisione

La Corte di Cassazione, mediante la menzionata sentenza n. 8373/2018, ha ritenuto i citati motivi non fondati ed ha rigettato il ricorso.

Sui punti controversi la Suprema Corte precisa che l’attività di Plinio si svolgeva non solo nei locali dell’azienda, ma anche esternamente e che era tenuto al rispetto dell’orario di lavoro di 37 ore settimanali e che doveva attestare la propria presenza al lavoro con un’unica timbratura giornaliera del badge, effettuabile nell’arco della giornata, abitualmente all’uscita del lavoro.

Orbene, la disposizione dell’art. 2 dello Statuto dei lavoratori, nel limitare la sfera di intervento di persone preposte dal datore di lavoro a tutela del patrimonio aziendale, non precludono a quest’ultimo di ricorrere ad agenzie investigative, purché queste non sconfinino nella vigilanza dell’attività lavorativa vera e propria riservata dall’art. 3 dello Statuto direttamente al datore di lavoro e ai suoi collaboratori e giustificano l’intervento in questione non solo per l’avvenuta prospettazione di illeciti e per l’esigenza di verificarne il contenuto, ma anche in ragione del solo sospetto o della mera ipotesi che illeciti siano in corso di esecuzione (cfr. Corte di Cassazione, 14.2.2011 n. 3590).

Inoltre, il suddetto intervento deve limitarsi agli atti illeciti del lavoratore non riconducibili al mero adempimento dell’obbligazione (Corte di Cassazione, 7.6.2003 n. 9167).

Le garanzie degli artt. 2 e 3 citati operano, infatti, esclusivamente con riferimento all’esecuzione della attività lavorativa in senso stretto, non estendendosi, invece, agli eventuali comportamenti illeciti commessi dal lavoratore in occasione dello svolgimento della prestazione che possono essere liberamente accertati dal personale di vigilanza o da terzi.

Orbene, nella fattispecie il convincimento della Corte territoriale si è basato sull’esito di un’attività investigativa, oggetto anche di prova testimoniale degli investigatori, rientrante nei poteri di controllo datoriale, in quanto esercitata in luoghi pubblici, onde è stato accertato, per 10 giorni, non solo il mancato rispetto dell’orario giornaliero di lavoro ma anche che, in orario di lavoro, al di fuori dell’ufficio, Plinio non aveva svolto alcuna attività lavorativa.

Deve, pertanto, ritenersi corretto il riferimento dei giudici di seconde cure al fatto che, nel caso in esame, il controllo non era diretto a verificare le modalità di adempimento dell’obbligazione lavorativa, bensì le cause dell’assenza del dipendente dal luogo di lavoro, concernenti appunto il mancato svolgimento dell’attività lavorativa da compiersi anche all’esterno della struttura aziendale.

La ritenuta liceità del controllo rende, altresì, prive di fondamento le doglianze sulla violazione degli artt. 2104 e 2106 cc perché il potere dell’imprenditore di controllare direttamente o indirettamente l’adempimento delle prestazioni lavorative, nei limiti sopra evidenziati, non è escluso dalle modalità di controllo che può legittimamente avvenire anche occultamente, senza che vi ostino né il principio di correttezza e buona fede nell’esecuzione dei rapporti, né il divieto di cui all’art. 4 della legge n. 300/1970 riferito esclusivamente all’uso di apparecchiature per il controllo a distanza (in termini cfr. Corte di Cassazione, 10.7.2009 n. 16196).

I precedenti

In linea con l’orientamento in commento anche Corte di Cassazione, Sezione Lavoro Civile, con la sentenza del 21 settembre 2016, n. 18507, la quale seppur il controllo era stato funzionale alla verifica dello stato di malattia del lavoratore dipendente ebbe ad affermare che “E’ legittimo il ricorso del datore di lavoro ad una agenzia investigativa al fine di accertare e dimostrare, con foto e riprese video, l’insussistenza della malattia o comunque la non idoneità della stessa a determinare uno stato di incapacità lavorativa e quindi a giustificare l’assenza del lavoratore. All’esito di tali accertamenti è legittimo il licenziamento che il datore commina al lavoratore”.

La Corte, nel caso in esame, ha validato il principio di diritto alla quale si era attenuto il giudice del merito, secondo il quale «le disposizioni dell’art. 5 della legge 20 maggio 1970, n. 300, in materia di divieto di accertamenti da parte del datore di lavoro sulle infermità per malattia o infortunio del lavoratore dipendente e sulla facoltà dello stesso datore di lavoro di effettuare il controllo delle assenze per infermità solo attraverso i servizi ispettivi degli istituti previdenziali competenti, non precludono al datore medesimo di procedere, al di fuori delle verifiche di tipo sanitario, ad accertamenti di circostanze di fatto atte a dimostrare l’insussistenza della malattia o la non idoneità di quest’ultima a determinare uno stato d’incapacità lavorativa e, quindi, a giustificare l’assenza».

In un altro caso la Corte di Cassazione, Sezione Lavoro Civile, con la sentenza del 2 maggio 2017, n. 10636, ha affermato il principio di diritto secondo il quale “il datore può adottare i controlli difensivi “occulti”, anche ad opera di personale estraneo all’organizzazione aziendale, in quanto diretti all’accertamento di comportamenti illeciti diversi dal mero inadempimento della prestazione lavorativa, mediante modalità non eccessivamente invasive e rispettose delle garanzie di libertà e dignità dei dipendenti”.

A dire della Suprema Corte correttamente i giudici del gravame hanno, pertanto, ritenuto che ⇒ l’attività di controllo posta in essere dalla parte datoriale non aveva avuto ad oggetto l’attività lavorativa ed il suo corretto adempimento; era stata attuata “con modalità non eccessivamente invasive”; era stata ispirata alla necessità di tutelare il patrimonio aziendale. Quale corollario di tali accertamenti, hanno, quindi, coerentemente concluso che l’attività posta in essere dalla datrice di lavoro si poneva al di fuori del campo di applicazione dell’art. 4 1.300 del 1970.

Infine, la Corte di Cassazione, Sezione Lavoro Civile, con la sentenza del 18 luglio 2017, n. 17723, ha affermato come legittimo il “controllo difensivo” del datore di lavoro attuato mediante un’ agenzia investigativa purché esso sia rispettoso della normativa in materia di privacy e quindi, sia non invasivo, adeguato e proporzionato. ed ha aggiunto che “la tesi, affermata nella sentenza impugnata, per cui eventuali aspetti di violazione della privacy potrebbero solo legittimare pretese di risarcimento del danno nei confronti di soggetti terzi diversi dal datore di lavoro è certamente errata perché la violazione dei principi fissati dal cosiddetto “codice della privacy” del 2003 condurrebbe alla inutilizzabilità processuale ed ancor prima disciplinare dei dati”.

Vai al testo integrale della sentenza

 

Avv. Mancusi Amilcare

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