Licenziamento ed esclusione del socio lavoratore: l’art. 441 ter c.p.c. tra nuove questioni processuali, evoluzione giurisprudenziale e normativa comunitaria. Per approfondire la materia del lavoro subordinato, si consiglia il seguente volume, il quale analizza compiutamente l’intera disciplina del rapporto di lavoro subordinato, così come contenuta nel codice civile (con la sola eccezione delle regole relative al licenziamento e alle dimissioni): Il lavoro subordinato
Indice
- 1. Il socio lavoratore e la disciplina
- 2. Il licenziamento illegittimo del socio lavoratore: l’evoluzione giurisprudenziale ed i criteri risarcitori e restitutori
- 3. Il licenziamento discriminatorio e la normativa comunitaria
- 4. L’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2 L. n 142 del 2001
- 5. L’art. 441 ter c.p.c. ed il mancato coordinamento dei termini di decadenza
1. Il socio lavoratore e la disciplina
La disciplina, sostanziale e processuale, applicabile alla figura del socio-lavoratore è questione di principi. Lo affermano le Sezioni Unite della Suprema Corte nella nota sentenza 27436 del 2017 che, nei fatti, costituisce la presa d’atto del fallimento dell’art. 45 della Costituzione evidentemente strumentalizzato per fini estranei e – per molti aspetti – contrari alla ratio ed alla volontà dell’Assemblea Costituente.
Il modello “mutualistico puro” immaginato nella Carta (migliori condizioni di lavoro conseguenti al fenomeno cooperativistico dove il rapporto è, per definizione, paritario e non sbilanciato) è stato completamente destrutturato dalla realtà economica. Questo attraverso la progressiva erosione (fino all’assoluto annullamento) di quella parità che si è, nella realtà, trasformata, senza alcuna distinzione, nell’ordinario modello della subordinazione (con tutele ancora più ridotte per la parte debole). Le Sezioni Unite (già nel 2017) hanno efficacemente rappresentato il fenomeno: “È dunque dalla ricostruzione dei principi che occorre partire. Il cospicuo contenzioso alimentato dalla progressiva sotto-protezione cui si sono trovati esposti i soci lavoratori, e l’espansione del fenomeno della cooperativa spuria o fraudolenta hanno evidenziato l’insufficienza dell’impostazione tradizionale”
L’oggettività di tale distorsione trova espressione nella normativa e negli approdi giurisprudenziali, entrambi caratterizzati da una insufficienza nel garantire al socio lavoratore una adeguata estensione delle tutele proprie del lavoratore subordinato almeno nelle ipotesi di licenziamento illegittimo. La l. 3 aprile 2001, n. 142, ha previsto l’applicazione ai soci – lavoratori delle garanzie dello Statuto dei lavoratori ( con esclusione di quella di cui all’art. 18 l. 300/1970) «ogni volta che venga a cessare, col rapporto di lavoro, anche quello associativo» (art. 2); il rapporto di lavoro si estingue automaticamente al venir meno del rapporto sociale, per recesso o esclusione (art. 5, comma 2); il giudice ordinario è competente a conoscere delle controversie tra socio e cooperativa attinenti al rapporto mutualistico (art. 5, comma 2).[1]
Questo apparato normativo ha lasciato un vuoto per gli aspetti risarcitori e restitutori nei casi di licenziamento illegittimo e ciò ha dato vita ad una giurisprudenza assai ondivaga ed incerta. Invero, la previsione costituzionale era destinata al recupero ed al riconoscimento della cooperazione pura, quella mossa da uno scopo esclusivamente mutualistico e solidaristico, senza scopo di lucro. La successiva legislazione in materia ha tuttavia cercato di recuperare taluni elementi della cooperativa spuria, soprattutto per permettere l’esistenza delle cooperative stesse, altrimenti destinate al tracollo finanziario. All’interno di questa categoria il d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, di riforma del diritto societario ha fatto emergere il modello delle cooperative a mutualità prevalente che si distingue dagli altri modelli puri. Ma il risultato esegetico, rispetto all’ibrida figura del socio lavoratore, è risultato equivoco: il rapporto di lavoro del socio lavoratore è “un po’ meno subordinato” di quello, per così dire ordinario. Una specie di “attenuazione” delle tutele priva, però, di un concreto “controaltare”. Come se, in astratto, il rapporto associativo fosse solo “un po’ meno” paritario dell’originale modello costituzionale
Pare davvero inevitabile che – in un simile contesto normativo -la Giurisprudenza di legittimità (e non meno quella di merito) potessero mostrarsi gravemente incerte e lacunose. Per approfondire la materia del lavoro subordinato, si consiglia il seguente volume, il quale analizza compiutamente l’intera disciplina del rapporto di lavoro subordinato, così come contenuta nel codice civile (con la sola eccezione delle regole relative al licenziamento e alle dimissioni): Il lavoro subordinato
Il lavoro subordinato
Il volume analizza compiutamente l’intera disciplina del rapporto di lavoro subordinato, così come contenuta nel codice civile (con la sola eccezione delle regole relative al licenziamento e alle dimissioni). L’opera è stata realizzata pensando al direttore del personale, al consulente del lavoro, all’avvocato e al giudice che si trovano all’inizio della loro vita professionale o che si avvicinano alla materia per ragioni professionali provenendo da altri ambiti, ma ha l’ambizione di essere utile anche all’esperto, offrendo una sistematica esposizione dello stato dell’arte in merito alle tante questioni che si incontrano nelle aule del Tribunale del lavoro e nella vita professionale di ogni giorno. L’opera si colloca nell’ambito di una collana nella quale, oltre all’opera dedicata alla cessazione del rapporto di lavoro (a cura di C. Colosimo), sono già apparsi i volumi che seguono: Il processo del lavoro (a cura di D. Paliaga); Lavoro e crisi d’impresa (di M. Belviso); Il Lavoro pubblico (a cura di A. Boscati); Diritto sindacale (a cura di G. Perone e M.C. Cataudella). Vincenzo FerranteUniversità Cattolica di Milano, direttore del Master in Consulenza del lavoro e direzione del personale (MUCL);Mirko AltimariUniversità Cattolica di Milano;Silvia BertoccoUniversità di Padova;Laura CalafàUniversità di Verona;Matteo CortiUniversità Cattolica di Milano;Ombretta DessìUniversità di Cagliari;Maria Giovanna GrecoUniversità di Parma;Francesca MalzaniUniversità di Brescia;Marco NovellaUniversità di Genova;Fabio PantanoUniversità di Parma;Roberto PettinelliUniversità del Piemonte orientale;Flavio Vincenzo PonteUniversità della Calabria;Fabio RavelliUniversità di Brescia;Nicolò RossiAvvocato in Novara;Alessandra SartoriUniversità degli studi di Milano;Claudio SerraAvvocato in Torino.
A cura di Vincenzo Ferrante | Maggioli Editore 2023
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2. Il licenziamento illegittimo del socio lavoratore: l’evoluzione giurisprudenziale ed i criteri risarcitori e restitutori
La Suprema Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, n. 27436 del 20 novembre 2017 ha precisato che, in capo al socio-lavoratore di cooperativa, la perdita della qualità di socio genera necessariamente anche la perdita della qualità di lavoratore: qualora il socio lavoratore abbia impugnato soltanto il licenziamento, ma non la delibera di esclusione (nel termine di 60 giorni previsto dall’art. 2533, comma 3, c.c.), la definitività dell’esclusione deliberata rende impossibile, anche in caso di dichiarata illegittimità del licenziamento, dare seguito ad una tutela reintegratoria, stante la non ricostituibilità del rapporto di lavoro del socio-lavoratore in assenza della qualifica di socio. Al contrario in caso di tempestiva e vittoriosa impugnazione del provvedimento di esclusione, il lavoratore, pur in assenza di applicazione dell’art. 18 l. 300/1970, ha diritto ad una tutela restitutoria di diritto comune «che consegue all’invalidazione della delibera, dalla quale deriva la ricostituzione sia del rapporto societario, sia dell’ulteriore rapporto di lavoro e che, quindi, ripete genesi e fisionomia della dinamica del rapporto sociale. Essa risulta quindi del tutto estranea ed autonoma rispetto alla tutela reale prevista dall’art. 18 dello statuto dei lavoratori, di matrice, appunto, lavoristica».
In ogni caso resta ferma per il socio-lavoratore la tutela risarcitoria-indennitaria qualora il licenziamento sia comunque dichiarato illegittimo: in particolare, il socio-lavoratore avrà diritto all’applicazione dell’art. 8 l. 6 luglio 1966, n. 604, che si fonda sulla sola illegittimità del licenziamento e non è in alcun modo impedita dall’omessa impugnazione della delibera di esclusione e dunque dalla mancata ricostituzione del rapporto associativo, che rende impossibile soltanto la ricostituzione del rapporto di lavoro ma non il riconoscimento di una diversa tutela.
La giurisprudenza successiva si è conformata a tale principi (Cass., 22 marzo 2019, n. 8223; Trib. Velletri, 1° dicembre 2020, n. 1314), con l’eccezione di Cass., 15 gennaio 2020, n. 707 (e conforme Trib. Bologna, sez. imprese, 25 maggio 2020), ove viene affermata l’applicabilità della tutela reale di cui all’art. 18 l. 300/1970, nella versione vigente ratione temporis, in caso di illegittimità del licenziamento accompagnata da annullamento della delibera di esclusione da socio.
In senso parzialmente differente è poi nuovamente tornata ad esprimersi la Suprema Corte, con sentenza del 16 novembre 2021, n. 34721. Ivi si è innanzitutto evidenziato che l’impugnazione della delibera di esclusione e del provvedimento d’irrogazione del licenziamento, fondati sul medesimo fatto, fa sì che l’accertamento della illegittimità della delibera per insussistenza del fatto determini, con efficacia ex tunc, sia la ricostituzione del rapporto associativo, sia quella del rapporto di lavoro. Conseguentemente, tale effetto pienamente ripristinatorio dei rapporti di lavoro e associativo (tutela di diritto comune) non lascia spazio alla tutela reintegratoria (art. 18 St. lav. – artt. 2-3 d.lgs. 23/15), ma solo a quella risarcitoria. Impostazione interpretativa seguita anche dalla pronuncia n. 31469/2023[1]
Rebus sic stantibus è possibile cosi sintetizzare gli effetti del licenziamento del socio lavoratore di cooperativa:
- In caso di impugnazione del licenziamento e della delibera di esclusione, la domanda del lavoratore potrà avere ad oggetto la tutela restitutoria (di diritto comune), ma non quella reintegratoria ex art. 18 St. lav. – artt. 2 e 3 D.lgs 23/2015), fermo restando la tutela risarcitoria – indennitaria dell’art. 8 l. 6 luglio 1966, n. 604
- In caso di omessa impugnazione della delibera di esclusione, la domanda del lavoratore potrà avere ad oggetto la sola tutela risarcitoria – indennitaria dell’art. 8 l. 6 luglio 1966, n. 604
In questo contesto si inserisce la sentenza n. 35678/2022 che configura un gruppo di ipotesi di operatività della tutela restitutoria ex art. 18, L. n. 300/1970: essa può trovare applicazione solo se la delibera di esclusione (esistente e puntualmente comunicata) dovesse poggiare su ragioni differenti e non sovrapponibili rispetto a quelle poste a fondamento del licenziamento e, al contempo, sia stata ottenuta la rimozione giudiziale della stessa delibera di esclusione.
Allorquando, al contrario, una delibera di esclusione vi sia stata e sia stata comunicata al socio lavoratore in un contenuto minimo necessario a specificarne le relative ragioni, non può trovare applicazione la tutela restitutoria lavoristica di cui all’art. 18, L. n. 300/1970 in tutte le ipotesi in cui esclusione e licenziamento si fondino sulle medesime motivazioni.[1]
3. Il licenziamento discriminatorio e la normativa comunitaria
Un tale approdo interpretativo – largamente insoddisfacente nei suoi aspetti sostanziali e processuali – presta il fianco a numerose critiche ed osservazioni. Innanzitutto, viene così stabilita un’unica disciplina risarcitoria – indennitaria (di natura giuslavoristica e non viene operato alcun distinguo sul motivo che determina l’illegittimità o l’illiceità del licenziamento irrogato: dalla insussistenza dei presupposti di un azione disciplinare o della cessazione per giusta causa o ancora per giustificato motivo soggettivo per giungere fino al licenziamento nullo, ivi comprese le ipotesi discriminazione. [1]
Proprio con riferimento a tale ultima ipotesi emerge, in tutta la sua inadeguatezza, la disciplina dettata per il socio lavoratore e, nondimeno, gli stessi principi interpretativi in merito ai criteri risarcitori applicabili alla figura del socio-lavoratore
Le quattro note direttive comunitarie[2], che costituiscono il complesso della normativa antidiscriminatoria , vietano tanto le discriminazioni palesi quanto quelle indirette e dissimulate ovvero qualsiasi trattamento deteriore in materia di occupazione e condizioni di salute fondato su sesso, razza ,religione, convinzioni personali, handicap ,età e tendenze sessuali. Per quanto di rilievo ai fini del presente lavoro l’Italia ha dato attuazione alla Direttiva Comunitaria 2000/78 CE con la Legge n 216 del 2003
A loro volta le sanzioni devono soddisfare i criteri stabiliti dalla della Corte di Giustizia Europea e codificati nella legislazione europea: art. 15 Direttiva sul principio di parità di trattamento tra le persone indipendentemente dalla razza 2000/43/CE, art. 17 Direttiva per parità di trattamento in materia di occupazione 2000/78/CE, art. 25 Direttiva su rifusione 2006/54 (sanzioni effettive, dissuasive e proporzionate). Da tale impianto normativo sono derivati precisi indirizzi interpretativi della Corte di Giustizia:
- Le sanzioni non possono essere puramente simboliche(ACCEPT, C-81/12)
- La legislazione non dovrebbe stabilire nessun limite massimo (Marshall, C-271/91)
- Le sanzioni devono avere un reale effetto deterrente (Decker,C-177/88)
- Le sanzioni possono prevedere un elemento di risarcimento punitivo al di là del danno subito (María Auxiliadora Arjona Camacho v Securitas Seguridad España, SA; C-407/14)
- La gravità delle sanzioni dev’essere proporzionata alla gravità delle violazioni per le quali vengono imposte (caso ACCEPT, C-81/12)
- La sanzione è proporzionata se assicura una massima protezione dei valori riconosciuti legalmente senza causare un inutile onere. (caso von Colson e Kamann C-14/83)
All’evidenza la disciplina risarcitoria indennitaria prevista dall’art 8 L.604/66, ma pure quella dalla Legge n 23 del 2015 (nei suoi profili di natura indennitaria) non sono certo conformi al diritto comunitario. Risultano gravemente carenti i principi di effettività e proporzionalità. Sebbene, in linea generale, possa ritenersi ammissibile un’ astratta tutela risarcitoria di natura indennitaria le sanzioni devono essere effettive ,proporzionate e dissuasive, cioè l’indennizzo previsto dalla legge nazionale deve essere adeguato al danno subito dal lavoratore , non può avere un valore simbolico e non deve contenere un limite massimo, fissato a priori , dell’importo risarcitorio conseguibile dal medesimo a seguito di licenziamento discriminatorio, stante la necessità di garantire la personalizzazione del danno subito.
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4. L’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2 L. n 142 del 2001
In questo quadro si impone, almeno da un punto di vista sostanziale, una lettura costituzionalmente orientata delle disposizioni dettate in materia di licenziamento del socio – lavoratore
Una prima considerazione deve essere operata proprio con riferimento all’interpretazione dell’art. 2 , primo periodo, L. n. 142/2001 i n ragione del progressivo mutamento delle tutele risarcitorie a fronte del licenziamento illegittimo: dalla c.d. Legge Fornero per giungere al Jobs Act.
Il D.lgs 23 del 2015 ha provveduto, come noto, a disegnare un nuovo sistema di tutele per quei soggetti assunti dopo l’entrata in vigore delle relative disposizioni, rimanendo del tutto immutato il solo divieto di “operatività” dell’art. 18 Statuto dei Lavoratori (L. n 142 del 2011). All’evidenza non trova alcuna giustificazione l’inapplicabilità della tutela restitutoria giuslavoristica disciplinata dall’art. 2 del c.d. Jobs Act. Nemmeno si volesse accedere ad una interpretazione analogica che, nel caso di specie, risulterebbe inammissibile. Invero, l’art. 2 primo periodo della L. 142/2001 – disciplinando l’applicazione dello Statuto dei Lavorati ai soci lavoratori ad eccezione dell’art. 18 – deroga (appunto in via di eccezione) alla regola generale (riconoscimento al lavoratore subordinato della L. n. 300 del 1970 in tutte le sue parti). Ai dell’art. 14 delle preleggi l’interpretazione analogica non è consentita per la legge che, in via di eccezione, deroga alle norme generali.
Per altro verso l’art. 2 del D.lgs n. 23 del 2015 assume in considerazione il licenziamento nullo in tutte le forme di legge che ne prevedono la nullità ed, in particolare, richiama l’art. 15 dello Statuto in materia di licenziamento discriminatorio (norma sicuramente applicabile al socio lavoratore).
In questo quadro il sistema di tutele delineato dalla legge, così come interpretato dalla Giurisprudenza di legittimità (tutele restitutorie di diritto comune e/o tutele indennitarie giuslavoristiche), risulterebbe causa di una lesione ai principi costituzionali.
Innanzitutto, un vulnus all’art. 3 della Costituzione: la diseguaglianza di trattamento, fra soci lavoratori e lavoratori subordinati tout court, non essendo possibile rinvenire “situazioni differenti” di protezione o posizione giuridica tali da giustificare “trattamenti differenti” in ipotesi di licenziamento del socio lavoratore rispetto al lavoratore subordinato tout court.
Ma, pure con riferimento al licenziamento discriminatorio, si pone un rilevante tema di lesione rispetto ai principi di cui è espressione l’art. 117 della Carta. L’inadeguatezza e l’insufficienza della tutela restitutoria di diritto comune e/o quella indennitaria di matrice giuslavoristica è, per così dire, testimoniata dalla sua palese contrarietà alle previsioni del diritto comunitario in materia di sanzioni e risarcimento per atti o fatti idonei ad integrare le diverse figure di discriminazione.
5. L’art. 441 ter c.p.c. ed il mancato coordinamento dei termini di decadenza
In una prospettiva, quasi esclusivamente processuale, la c.d. riforma Cartabia ha inserito, nella disciplina del processo del lavoro, l’art. 441 ter c.p.c.
Trattasi di norma con la quale il legislatore della riforma ha voluto razionalizzare e unificare le norme processuali regolanti le controversie in materia di licenziamenti, risultando “consacrata” la competenza del giudice del lavoro e l’applicabilità delle norme del rito del lavoro con riferimento alle controversie aventi ad oggetto il licenziamento di soci di cooperative e l’impugnazione del provvedimento di esclusione
Il principio, in se, è ormai stato ampiamente riconosciuto dalla giurisprudenza, in conformità all’art. 40, comma 3 c.p.c.; ora risulta sancito dall’art. 441 ter c.p.c.
La norma è stata oggetto di alcune prime analisi e, innanzitutto, si è posta la domanda se con riguardo alle controversie aventi ad oggetto l’esclusione del socio possano trovare applicazione le prescrizioni di priorità stabilite dall’art. 441 – bis c.p.c.[1]
Secondo una prima opinione, l’applicabilità sarebbe da escludere, perché tale norma si riferisce letteralmente al licenziamento, e non all’esclusione, mentre se viene impugnato il solo licenziamento e non anche l’esclusione, al socio di cooperativa, come ricordato, spetta una tutela di carattere unicamente indennitario.
Secondo un’altra interpretazione, invece, al quesito bisognerebbe dare risposta affermativa sia quando si tratta di impugnazione del licenziamento del socio con richiesta di reintegrazione, sia quando venga impugnata la delibera di esclusione (che determina la cessazione oltre che del rapporto associativo anche del rapporto di lavoro) perché anche in tal caso la tutela richiesta, se non reintegratoria, è comunque tale da ripristinare il rapporto. Peraltro, il problema – come è stato osservato – sarebbe facilmente superabile con un uso oculato della discrezionalità del giudice nel valutare l’urgenza delle cause e la priorità delle une rispetto alle altre.[2]
Sul punto è, poi, interessante e di rilievo una delle prime pronunce di merito, Trib. Civitavecchia, 16 maggio 2024, n. 234, conseguenti all’entrata in vigore dell’art. 441 ter c.p.c.. ove viene, innanzitutto, precisato che la competenza del giudice del lavoro a decidere sia sul licenziamento sia sull’esclusione del socio-lavoratore, finora affermata dalla giurisprudenza, come sopra ricostruito, sulla base di un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 40, comma 3, c.p.c., diviene ora invece competenza principale e autonoma, dettata da una specifica norma di legge. [3]
Altrettanto di rilievo il tema sull’ammissibilità e/o sulla rilevanza delle clausole compromissorie spesso contenute nello Statuto delle società cooperative. Proprio in virtù dell’art. 441 ter c.p.c. il Giudice ha affermato la competenza del giudice del lavoro ed escluso la possibilità di devolvere ad arbitri della controversia in applicazione della clausola compromissoria contenuta nello statuto sociale, ma non nel contratto collettivo applicabile.
Residua, però, un tema di rilevante importanza rispetto al corretto coordinamento delle diverse ipotesi di decadenza previste dalla legge. L’impugnazione della delibera di esclusione (a valere come cessazione del rapporto di lavoro) ha natura processuale: la decadenza viene esclusivamente impedita dalla proposizione dell’azione giudiziaria nel termine dei 60 giorni dalla comunicazione della decisione dell’Organo Amministrativo o dell’Assemblea dei Soci. L’impugnazione del licenziamento è invece soggetta ad un termine decadenziale extraprocessuale (60 giorni) ed alla proposizione della domanda giudiziale nei successivi 180 giorni.
In tutte le ipotesi in cui esclusione e licenziamento si fondino sulle medesime motivazioni – come del resto accade nella maggioranza dei casi – esiste una “asincronia” sui tempi dell’azione. L’art. 441 ter c.p.c. nello stabilire l’attrazione al Giudice del Lavoro della competenza a decidere non interviene sulla questione , se non per un richiamo agli artt. 409 e segg.
Il tema è di rilievo perché la previsione di termini decadenziali (siano essi di natura extraprocessuali che giudiziali) è funzionale a due precise esigenze: i) la certezza delle situazioni giuridiche che non possono essere rimanere in “pregiudicato” o suscettibili di caducazione per un periodo tempo eccessivamente lungo; ii) il diritto di ciascuno soggetto, eventualmente, leso da quella situazione giuridica di poter reagire in un congruo periodo di tempo. Spetta al legislatore contemperare questi due, per certi versi, opposti interessi. Così, nella fattispecie in esame, la delibera di esclusione deve essere impugnata avanti il Giudice nel termine di 60 giorni (art. 2533 c.c.) perché questo termine appare idoneo a garantire gli assetti societari e nel contempo gli interessi del socio al quale è imposto di agire non oltre un certo periodo di tempo. Del pari il legislatore ha creato un meccanismo di decadenze più ampio e diversificato nell’ipotesi di licenziamento. Ciò considerando gli interessi “in gioco”, le maggiori difficoltà legate alla posizione di parte contrattuale debole del lavoratore e non meno la necessità di una ampia valutazione delle migliore scelte per garantire ed assicurare i propri diritti. Ciò che è testimoniato, ad esempio, dall’efficacia sospensiva (sulla decadenza) delle procedure di conciliazione non obbligatorie.
Sarebbe certamente stato opportuno prevedere una disposizione (anche eventualmente nell’alveo dell’art. 2533 c.c. o comunque all’interno dell’art. 441 ter c.p.c. ) che estendesse i termini di decadenza per l’impugnazione del licenziamento anche all’impugnazione della delibera con la quale viene, contestualmente, disposta la cessazione del rapporto associativo e del rapporto di lavoro.
In questo contesto vi è poi da domandarsi se, in virtù del nuovo art. 441 ter c.p.c., possa comunque trovare applicazione, anche con riferimento all’impugnazione della delibera di esclusione, la previsione di cui all’art. 410 II comma c.p.c laddove si dispone che “la comunicazione della richiesta di espletamento del tentativo di conciliazione interrompe la prescrizione e sospende, per la durata del tentativo di conciliazione e per i venti giorni successivi alla sua conclusione, il decorso di ogni termine di decadenza” . La soluzione positiva appare assai ardua, atteso che in sede di conciliazione è comunque in discussione il licenziamento impugnato e non la delibera di esclusione. D’altra parte l’art. 441 ter c.p.c. – nel suo tenore letterale – rimanda all’art. 409 e segg solo “il licenziamento del socio lavoratore”, ma non la delibera di esclusione della quale viene solo disposta l’attrazione della competenza a decidere.
La soluzione negativa andrebbe a ledere non solo i principi già esposti in merito alla “ratio” che sorregge la previsione di termini di decadenza, ma soprattutto l’efficacia concreta e l’applicabilità dei contratti collettivi che disciplinano i rapporti di dipendenza dei soci lavoratori. Gli stessi replicano e regolano , infatti, le disposizioni in materia di conciliazione non obbligatoria già previsti dagli artt. 410 c.p.c. che nei fatti diventerebbero lettera morta.
In termini processuali la soluzione – evidentemente in conflitto con gli intenti del legislatore – parrebbe essere quella della proposizione autonoma dell’impugnativa del licenziamento (avanti il Giudice del lavoro) e della delibera di esclusione (avanti il tribunale delle imprese). Conseguentemente si dovrebbe disporre il simultaneus processus innanzi al Giudice del Lavoro in forza dello stesso art. 441 ter c.p.c. e non più in ragione di quanto previsto dall’art. 40 comma 3 c.p.c. [4] In realtà si tratterebbe di un escamotage che, nei fatti, priverebbe di contenuto lo stesso art. 441 ter c.p.c. portando indietro le lancette del tempo alla giurisprudenza di legittimità che aveva già statuito, in via interpretativa, la competenza esclusiva del Giudice del Lavoro proprio in virtù dell’art. 40 comma 3 c.p.c.
Bene evidenziare che gli effetti di un simile impasse hanno precise conseguenze di natura sostanziale in ordine alla tutela risarcitoria accordabile nell’ipotesi di esclusiva impugnazione del licenziamento, attesi i principi (ormai anacronistici) stabiliti da una consolidata Giurisprudenza di legittimità che pare ignorare una realtà economica e contrattuale nella quale non è rinvenibile alcuna reale o concreta diversità tra socio-lavoratore di cooperativa e lavoratore subordinato tout court; con una prevalenza della forma rispetto alla sostanza.
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