L’equa riparazione

Redazione 29/10/19
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La giurisprudenza della Corte ha espresso vari orientamenti succedutisi nel tempo in ordine alle modalità di calcolo dell’“equa riparazione”, che, come si è visto, è concetto molto distante da quello di “risarcimento del danno” (67). Un esempio sintomatico riguarda le ipotesi di “accessione invertita” e di “espropriazione indiretta” (68). Fermo restando che la soluzione della restitutio in integrum risulta quella più adatta a rimediare agli errori dello Stato, si deve osservare che in un momento iniziale i giudici di Strasburgo avevano ritenuto che la riparazione corrispondesse ad un pieno risarcimento, mentre attualmente si sta assistendo a una revisione dell’originaria impostazione. Tale riparazione avrebbe dovuto tener conto di vari elementi, indicati dalla stessa Corte (69): a) il valore attuale del terreno; b) il mancato godimento dello stesso; c) la perdita di reddito dal momento dell’occupazione d) il deprezzamento dell’eventuale immobile residuo. Inoltre, i giudici europei avevano affermato che deve essere corrisposta una somma a titolo d’indennizzo per i danni morali subiti, anche nel caso in cui la parte lesa sia una persona giuridica (70).

Con una ingiustificata “involuzione”, nel 2009 (71) la Corte europea ha dichiarato che al privato spogliato del bene in ragione di “espropriazione indiretta” debba essere riconosciuto un indennizzo che tenga conto solo del valore del bene al momento della sentenza nazionale che dichiara l’occupazione acquisitiva, oltre alla rivalutazione ed interessi. Quindi, mentre la precedente giurisprudenza faceva riferimento al “valore attuale” del bene, il mutamento di indirizzo rappresenta una soluzione più favorevole allo Stato.

La Corte ha comunque ritenuto che la situazione vissuta dal privato, che si vede di fatto privato di un bene, consenta allo stesso di ottenere il riconoscimento di un danno morale (72). In effetti, la Corte ha anche in passato affermato il principio secondo cui, pur in assenza della possibilità di veder maturati i presupposti che legittimerebbero il riconoscimento di un danno materiale, è possibile accordare i danni morali (73), anche se in misura assai modesta (74). Con riferimento alla violazione dell’art. 6, la Corte ritiene che quando un soggetto sia stato vittima di un procedimento nel quale non siano state rispettate le esigenze espresse dal principio del “giusto processo”, un nuovo processo ovvero la riapertura del procedimento a richiesta dell’interessato costituiscano il mezzo più appropriato per porre rimedio alla violazione.

Spese

Ai sensi dell’art. 41 della Convenzione, la Corte rimborsa le spese del cui ammontare viene provata l’effettività, necessità e ragionevolezza (76). I giudici di Strasburgo, nel richiamare il proprio consolidato orientamento, hanno ricordato che le spese possono essere rimborsate a norma dell’art. 41 solo qualora esse siano certe, risultino necessarie ed il loro.

Il danno non patrimoniale

In tema di equa riparazione ex art. 2 della L. n. 89/2001, il danno non patrimoniale è conseguenza normale, anche se non automatica e necessaria, della violazione del diritto alla ragionevole durata del processo.

Qualora venga accertata l’effettività della violazione relativa alla durata ragionevole del processo, il giudice deve ritenere sussistente il danno non patrimoniale a meno che non ricorrano, nel caso concreto, circostanze particolari che facciano positivamente escludere che tale danno sia stato subito dall’interessato.

In particolare, dalla tutela di cui alla legge 89/2001, devono ritenersi escluse sia le violazioni minime del termine di durata ragionevole, sia quelle di maggior estensione temporale, ma riferibili a giudizi presupposti di carattere bagatellare, in cui la posta in gioco è esigua e sono trascurabili i rischi sostanziali e processuali connessi.

La Corte di Cassazione ha così chiarito nella sentenza n. 26497/2019 (sotto allegata) pronunciandosi sul ricorso di due donne che avevano chiesto la condanna del Ministero dell’Economia e delle Finanze all’equa riparazione per la irragionevole durata di un giudizio amministrativo.

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