Legge 104: come cambiano i permessi dopo la sentenza della Cassazione?

Redazione 20/01/17
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La recente sentenza della II sezione penale della Corte di Cassazione ha consolidato l’interpretazione data negli ultimi tempi alla ratio legis contenuta nella Legge n. 104/92 in materia di disabilità.

La sentenza in questione è la n. 54712/2016, avente ad oggetto il delitto di cui all’art. 640 n°2 del c.p., ovvero truffa ai danni dello Stato. L’imputata era una donna che godeva dei benefici assistenziali forniti dalla citata legge perché assistente la madre gravemente disabile. La condotta contestata era l’aver utilizzato i tre giorni di permesso retribuiti dall’Inps a scopo feriale: la stessa, infatti, si era recata all’estero, omettendo completamente di prestare assistenza al parente disabile.

 

Legge 104: il caso della sentenza

Questo è il caso in merito al quale la Corte di Cassazione si pronuncia, ribadendo i principi di diritto già enunciati nella precedente sentenza n. 4106/2016. La questione di diritto è la seguente: i giorni di permesso retribuiti, riconosciuti dall’Inps al lavoratore, autonomo o dipendente, che presti assistenza ad un parente disabile grave, come sono da intendersi?

In particolare, il monte ore, usufruibile anche in maniera frazionata, è previsto nell’interesse della persona handicappata, al fine di garantirle una assistenza con ancora maggiore continuità, oppure è posto a beneficio di coloro che assistono i parenti disabili, permettendo loro di recuperare le energie psico-fisiche, e perciò assimilando i permessi a giorni di ferie?

 

Legge 104: qual è la normativa di riferimento?

Prima di giungere alla soluzione del quesito, la Suprema Corte compie un excursus sulla normativa di riferimento. L’articolo in cui sono regolati i permessi retribuiti del lavoratore è il 33 comma 3 della già citata L. 104/92; questo ha subito modifiche nel tempo, dapprima con la L. 53/00, che ha previsto che i benefici assistenziali riconosciuti dal Legislatore fossero riservati solo a coloro i quali assistessero i parenti disabili gravi in via “continuativa ed esclusiva”. I requisiti di nuovo conio, poi,  sopravvissero fino al 2010, anno in cui la L. 183/10 ne ha determinato la scomparsa (sulla stessa scia, il d.lgs. 119/11).

Questo in quanto si riteneva potenzialmente pericoloso un istituto così restrittivo: in questo modo, tutte le volte in cui si fosse contestato a un lavoratore di non prestare assistenza “continua ed esclusiva” al parente disabile, si sarebbe potuto configurare il reato di truffa di cui all’art. 640 n. 2 c.p. Nel frattempo, era intervenuta anche la Corte Costituzionale, che con sentenza n. 213/2016 decretò l’illegittimità dell’art. 33 comma 3 della L. 104/92, così come successivamente modificato, nella parte in cui non prevedeva che beneficiario delle agevolazioni socio-assistenziali fosse anche il convivente, oltre che il coniuge.

 

Disabilità grave e Legge 104: la ratio legis

L’unico modo per dare soluzione al caso di specie, oltre che a tutti i potenziali conflitti futuri, è partire dall’analisi di quella che è la ratio legis della norma. Alla luce della stessa, infatti, l’istituto de quo appare configurabile come uno “strumento di politica socio assistenziale” teso a “valorizzare le relazioni di solidarietà interpersonale e intergenerazionale”.

Non solo: il Legislatore sceglie di supportare le famiglie che si aggravano dell’impegno che comporta l’assistenza a un parente disabile, sia da un punto di vista economico che assistenziale, anche attraverso l’istituto in commento. Il loro apporto all’interno della società è infatti – secondo la Corte – “insostituibile” (sentt. 203/13, 19/09, 158/07, 233/05).

Già nella sentenza n. 4106/16, la Cassazione aveva sottolineato come tale istituto fosse da interpretare a favore sia dei disabili gravi sia di coloro che li assistono in via continuativa, come se entrambi i soggetti fossero un unicum, da valorizzare e supportare congiuntamente.

In concreto, quindi, i permessi retribuiti erano da utilizzarsi sia al fine di conferire una maggior continuità nell’assistenza del parente disabile, sia allo scopo di assicurare ritagli di tempo al lavoratore, per lo svolgimento di esigenze personali e di quel “minimo di vita sociale” di cui gli è impedito godere durante i normali giorni lavorativi.

 

Permessi 104: il diritto ad un “minimo di vita sociale”

Nello specifico, l’innovazione che aveva apportato quest’ultima sentenza consisteva in quanto segue. Secondo la Corte, il lavoratore assente con permesso dal lavoro, in quei giorni non avrebbe dovuto prestare assistenza continua nelle stesse ore in cui avrebbe dovuto svolgere la prestazione lavorativa.

Di conseguenza, non può ritenersi illegittimo lo svolgimento di altre attività durante il suddetto arco temporale: sarebbe irragionevole, infatti, vincolare il momento dell’assistenza dovuta al parente disabile a una fascia oraria non necessariamente indicata per i casi di specie, soprattutto se si riflette sul fatto che, durante quelle ore, nel resto dei giorni il parente è sempre privo di assistenza.

L’unico criterio con cui indirizzare i momenti dell’assistenza da fornire è l’effettivo giovamento alla persona affetta da disabilità.

 

Il fine della norma è la migliore assistenza continua del disabile

A partire dall’ultimo caso pervenutole, la Cassazione ha espressamente escluso che sia possibile interpretare, alla luce della ratio legis dell’art.33 comma 3, nonché della L. 104/92 complessivamente intesa, i tre giorni mensili riconosciuti ai lavoratori che assistano parenti disabili gravi come occasione di ristoro psico-fisico che prescinda dal continuare a prestare assistenza a questi ultimi. Figuriamoci, poi, se il riposo preteso dal lavoratore sia trascorso addirittura all’estero.

Secondo la giuria nomofilattica è inammissibile un impiego del beneficio in questi termini da parte dei lavoratori, che hanno a loro disposizione istituti ad hoc disciplinati dai contratti di lavoro (ferie, permessi, malattia).

In conclusione, dunque, i permessi riconosciuti dai beneficiari della Legge 104/92 devono essere utilizzati per fornire al disabile grave una migliore assistenza in termini di continuità e presenza, nonché per garantire al dipendente un tempo sufficiente, nell’arco mensile, a curare la propria persona e a coltivare quel “minimo di vita sociale” fortemente limitato dal suo dedicare i restanti giorni del mese al parente assistito e al lavoro.

 

Sabina Grossi

Redazione

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