Lealtà, etica sportiva e attaccamento alla maglia e ai colori sociali

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Ultimamente negli impianti sportivi italiani assistiamo a calciatori che, dopo una sconfitta si dirigono verso il settore occupato dai propri tifosi, dove subiscono, offese, ingiurie ed invettive di ogni genere, a parere dello scrivente del tutto gratuite e frutto di una singolare esasperazione.

Non si trattata di un confronto finalizzato a comprendere le difficoltà del momento e/o a sostenere la squadra, ma di un processo sommario in cui i calciatori, il più delle volte in silenzio e passivamente, si sottopongono alle minacce, agli insulti o lanci di oggetti; mentre in altre occasioni, si assiste a un colloquio tra i protagonisti in campo ed alcuni esponenti del tifo, tra cui spiccano interlocutori con il volto travisato che pretendono, con modi discutibili e a tutti i costi, la vittoria o il mantenimento della posizione in classifica, promettendo ritorsioni nell’ipotesi di sorpasso in graduatoria ad opera della squadra rivale.

Episodi, come quelli sopra richiamati, andrebbero evitati perché denigrano, umiliano e calpestano i valori dello sport (lealtà, correttezza e probità sportiva) e minano la sana competizione, che contempla anche la sconfitta.

E’indubbio che un atleta scenda in campo per vincere la partita, si tratta di un principio che è insito nel DNA di ogni calciatore professionista e non professionista, così come è indubbio l’attaccamento alla maglia e ai colori sociali.

Orbene, se da un lato il tifoso – che paga il biglietto – ha il diritto di criticare, rimproverare e contestare, con toni meno belligeranti, la prestazione sportiva offerta dai propri beniamini, quando questa è stata deludente ed apertamente in contrasto con le sue aspettative, dall’altro lato è pur vero che la diffusa “processione” – a capo chino – verso il settore “più caldo” dello stadio, inscenata dai calciatori quando si perde e che si esaurisce in incivili manifestazioni di dileggio, stride con i valori fondanti dello sport.

Recentemente la Giustizia Sportiva Federale è stata chiamata a decidere su avvenimenti molto più gravi di quelli appena commentati, accaduti al termine di una partita del campionato di serie B della scorsa stagione, disputata nello stadio di Latina il giorno 28.02.14.

La Corte Federale D’Appello si è pronunciata sul reclamo proposto da alcuni calciatori del Padova Calcio (compagine all’epoca militante nel campionato cadetto), considerati responsabili – in primo grado – dal Tribunale Federale Nazionale, per essersi sfilati le proprie casacche e per averle poi abbandonate accanto al settore ove erano stipati i loro tifosi (in trasferta), assecondando così una pretesa illegittima ed antisportiva proveniente dagli spalti (nel provvedimento si legge: “i sostenitori del Padova intimavano ai calciatori di togliersi le maglie e di abbandonarle a terra, in quanto indegni di indossarle).

In primo grado, il Tribunale Federale Nazione – Sezione Disciplinare – con la decisione n.16/TFN stagione 2014 – 2015 (pubblicata il 30.10.14), accoglieva il deferimento proposto dalla P.F. con le seguente motivazione: “al termine della gara Latina – Padova, conclusasi con il risultato di 3 – 0 in favore dei locali, quasi tutti i calciatori patavini, unitamente al proprio allenatore, si recavano sotto il settore ospiti occupato da un gruppo di 30- 40 loro sostenitori, ove venivano da questi pesantemente contestati ed ingiuriati. Sta di fatto che, giunti sotto il detto settore: veniva loro richiesto di togliersi la maglia; aderivano a tale richiesta incondizionatamente, nella consapevolezza, pure a fronte di una richiesta ritenuta illegittima, di porre in essere un comportamento umiliante ed antisportivo.”

Importante è il motivo con cui l’organo di giustizia endofederale di prime cure ha valutato la condotta degli incolpati, ravvisando un profilo di responsabilità disciplinare, ex art.1 comma 1 C.G.S. (ora 1 bis comma 1) ed escludendo la presenza dello stato di necessità:“questo Tribunale ritiene che spogliarsi della maglia di gioco su richiesta dei propri tifosi, per abbandonarla sul terreno di gioco per una presunta accusa di indegnità, equivale al venir meno dei valori a base dello sport, tra cui rientrano sicuramente anche l’attaccamento alla maglia ed ai colori sociali. Spogliarsi della propria maglia, pertanto equivale a rinnegare quei valori e non può non essere valutato in termini negativi, specie quando, come verificatosi nel caso de quo, siano del tutto assenti atti di violenza o minacce concrete per la propria ed altrui incolumità.”

Sulla base delle conclusioni sopra esposte, il T.F.N. condannava gli incolpati; siffatta decisione veniva poi confermata dalla Corte Federale d’Appello, con il C.U. n.36/CFA (2014 – 2015) del 19.03.15, che interveniva solamente per riformare in melius il quantum delle sanzioni ascritte agli incolpati in primo grado, escluso il calciatore Rocchi, che si vedeva confermata la sanzione inflitta dal Tribunale Federale in quanto capitano.

L’organo di appello Federale condivideva sia la qualificazione dei fatti formulati dal T.F.N. e sia l’interpretazione antisportiva e diseducativa che era stato attribuito al grave gesto compiuto dai calciatori patavini – che senza esitare, probabilmente nella errata convinzione di non meritare di rappresentate la città di Padova e aderendo ad una proposta antisportiva – avevano mostrato uno scarso attaccamento alla maglia e ai colori sociali; detto gesto veniva giudicato come una condotta disciplinarmente rilevante, perché integrante l’ipotesi prevista dall’art.1 c.1 vecchio C.G.S. (ora art. 1 bis comma 1 nuovo C.G.S.) [1 – 2], quindi da censurare.

La Corte Federale, dunque confermava la decisione di primo grado, precisando che: “non può considerarsi meritevole di apprezzamento favorevole da parte di questa Corte Federale d’Appello perché il comportamento posto in essere dai deferiti ha costituito una piana ed acritica esecuzione di quanto preteso dai sostenitori della squadra del Padova ed in nessun caso può essere considerato l’espressione di un gesto spontaneo dei calciatori (quale ad esempio può ritenersi il consueto lancio delle maglie verso il pubblico a fine gara).”

La decisione assunta dalla Giustizia Sportiva, in ordine ai fatti di Latina – Padova è in linea con un precedente insegnamento espresso, in un episodio analogo, dagli organi endofederali all’indomani della partita Genoa – Siena, disputata in data 22.04.12 allo stadio L. Ferraris di Genova. 

In quella occasione i tifosi rossoblu, delusi per un’altra prestazione incolore della propria squadra e dal risultato negativo maturato in quel momento, decisero di interrompere la partita, pretendendo la consegna delle maglie da parte del capitano genoano, richiesta che veniva esaudita.

La gravità dei fatti – assolutamente inediti per il calcio italiano e su cui non esisteva un precedente indirizzo giurisprudenziale – faceva scattare l’azione disciplinare da parte della Procura Federale che culminava con l’accoglimento del deferimento in primo grado (cfr. C.U. n.66/CDN 2012/13 – pubblicato il 12.02.13), confermato poi in secondo grado (cfr. C.U. n.268/CGF 2012/13 – pubblicato il 13.05.13), e con la condanna degli incolpati (i calciatori per violazione ex art.1 comma 1 vecchio C.G.S. e la società Genoa Calcio per responsabilità oggettiva ex art. 4 C.G.S.).

La Giustizia Sportiva motivava così i fatti avvenuti durante l’incontro Genoa – Siena:“togliersi di dosso la maglia di gioco durante una gara costituisce il venir meno ai valori dello sport; non a caso il comune sentire esalta l’attaccamento ai colori sociali, tanto è vero che l’atleta che interpreta in modo particolare tale attaccamento viene definito, non solo dai propri tifosi, la bandiera. In questa precisa ottica tradire siffatto valore travalica il significato etico del principio di lealtà, probità e correttezza di cui all’art. 1 comma 1 CGS, perché tradisce il senso di appartenenza ed offende chi (tifosi, dirigenti, calciatori) in tale appartenenza crede e confida” .

L’orientamento all’epoca dedotto per affermare la responsabilità dei calciatori liguri, che ha fatto giurisprudenza, è stato poi ripreso – per alcuni tratti – dagli organi della Giustizia Federale per giudicare e condannare il comportamento posto in essere dai calciatori patavini al termine della partita con il Latina.

In conclusione, per l’Ordinamento Sportivo assume rilevanza la ragione che spinge l’atleta a togliersi la casacca: il calciatore che si leva la maglietta di gioco e la lancia verso i tifosi, per festeggiare e condividere una vittoria conquistata sul campo di gioco (frutto di un’iniziativa spontanea), rappresenta una condotta che rispecchia ed esalta i principi dello sport, ma quando lo stesso gesto (aggravato dall’abbandono sul terreno gioco della stessa maglia di gioco) è sorretto da una motivazione (o soddisfa una pretesa) antisportiva, che travalica la lealtà, la probità sportiva ed esclude lo stato di necessità, formulata da sedicenti tifosi all’esito di un risultato negativo o di una prestazione poco incisiva, la condotta di sfilarsi la maglia è disciplinarmente rilevante per la Giustizia Sportiva (si pensi ad esempio all’art. 2 – principio di lealtà – del Codice di Comportamento Sportivo del C.O.N.I.), perché lesiva dei valori dello sport, tra cui si annovera l’attaccamento alla maglia da gioco e ai colori sociali.

                                                                                                     

[1]: art. 1 comma 1 bis nuovo C.G.S.: “Le società, i dirigenti, gli atleti, i tecnici, gli ufficiali di gara e ogni altro soggetto che svolge attività  di carattere agonistico, tecnico, organizzativo, decisonale o comunque rilevante per l’ordinamento federale , sono tenuti all’osservanza delle norme e degli atti federali e devono comportarsi secondo i principi di lealtà, correttezza e probità in ogni rapporto comunque riferibile all’attività sportiva”.

[2]: l’art. 1 c.1 del CGS è una regola di chiusura posta per contrastare ogni condotta riconducibile all’attività federale, a tutela e a presidio dei valori dello sport, finalizzata a disciplinare la condotta positiva od omissiva dei tesserati e non, in campo e fuori dal campo di gioco. Come affermato dalla C.D.N., la norma in esame si configura a contenuto libero, non vincolato, con la conseguenza che può realizzarsi una violazione del precetto in essa contenuto con una molteplicità di comportamenti non altrimenti tipizzabili (cfr. CU 2.4.2012 n.78/CDN).

Lanzalonga Fabrizio

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