Le teorie nella riforma del diritto di famiglia

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Progetti Precedenti

Già nel progetto elaborato dalla Commissione Reale per la riforma dei codici era prevista la comunione per tutti gli acquisti fatti dai coniugi nel corso del matrimonio. Preoccupazione della Commissione era di rendere accessibile a tutti la comunione, senza spese e formalità, con una semplice dichiarazione degli sposi all’ufficiale di stato civile all’atto della celebrazione del matrimonio.

L’esigenza prospettata nel progetto di riforma era la medesima che, più consapevolmente, sarebbe stata alla base del progetto del 1975 l’: “assoluta necessità di tutelare la situazione economica delle donne che prestano totalmente o parzialmente lavoro domestico, o che svolgono la loro attività in aziende a conduzione familiare. Il regime della separazione (…) ha misconosciuto completamente qualsiasi valore all’attività delle donne prestata in casa o nell’azienda familiare, ed ha costituito così una grave remora al processo di emancipazione della donna costretta ad una posizione di subordinazione a causa di un pesante ricatto economico” (proposta di legge On. IOTTI e altri, RELAZIONE).

Ma la proposta della Commissione Reale fu respinta dal comitato di giuristi presieduto dal ministro Guardasigilli e la comunione conservò il suo carattere convenzionale.

La decisione fu presa senz’altro sotto la spinta prevalente della ideologia fascista che prevedeva uno Stato “forte” dalle istituzioni gerarchizzate, in cui l’istituzione base della famiglia non poteva sottrarsi a tale principio senza compromettere l’intero edificio.

Infatti occorre tenere presente che, in tutti gli Stati autoritari esaltanti il culto della superiorità nazionale, la cementizzazione della società inizia dall’inquadramento nella famiglia sotto la figura del capo famiglia, il quale, più che padre e marito, diviene un pater familias dalle caratteristiche arcaiche, rappresentante dell’autorità dello Stato nei rapporti familiari. Da quanto detto può chiaramente dedursi che l’istituto della comunione nel codice del ’42 nacque in contrasto con la visione democratica dell’Italia repubblicana.

Le caratteristiche dell’istituto erano date dall’appartenenza di alcuni beni in comunione e dalla loro destinazione alle esigenze familiari, ma altre caratteristiche che lo rendevano già superato rispetto ad una nuova visione della famiglia, che si stava formando a seguito degli sconvolgimenti economici e bellici di quegli anni ed ai successivi influssi culturali anglosassoni del dopo guerra.

Tali caratteristiche erano la limitazione del potere di chiedere lo scioglimento della comunione, l’indisponibilità della quota, ma soprattutto, l’amministrazione affidata al marito, elementi che, oltre a denunciare chiaramente la matrice anteguerra, intralciavano, piuttosto gravemente, lo svolgimento economico degli affari familiari. Per tutte queste ragioni l’istituto ebbe nella pratica un infelice esito e fu disatteso quasi completamente negli anni che vanno dal ’42 alla riforma del ’75.

Intervento della Corte Costituzionale

Ancora prima della legge del ’75 la Corte Costituzionale era intervenuta, sotto la spinta sociale, per svecchiare le strutture del diritto di famiglia e per attenuare le punte di maggiore contrasto tra il rapporto patrimoniale familiare previsto nell’ordinamento giuridico e quello emerso dal nuovo concetto di famiglia, nato dall’evoluzione sociale del dopo guerra.

Facendo forza sugli artt. 3, comma 1° e 2°, 29, comma 2, e 24 Costituzione, la Corte interveniva con ben tre distinte sentenze sulla normativa del codice del ’42 concernente le relazioni patrimoniali tra coniugi.

La prima sentenza in ordine cronologico è quella del 13 luglio del 1970, n. 133, in cui venne abrogato l’art. 145 CC per contrasto con l’art. 29 Cost., nella parte in cui obbligava il marito a somministrare alla moglie il necessario ai bisogni della vita senza subordinarlo all’indigenza della moglie, veniva in tal modo vietato di distinguere tra coniugi in tema di obbligazioni di mantenimento e di alimenti.

La seconda sentenza è sempre del ’70 e precisamente del 16 dicembre, n. 188, in essa la Corte abolisce l’art. 164, comma 1°, per contrasto con gli artt. 3 e 24 cost., in quanto non consentiva al terzo la prova della simulazione delle convenzioni patrimoniali, in deroga alle regole comuni in materia di simulazione.

Il SACCO, nel commentare la sentenza, prende spunto dall’esistenza nel codice “di una categoria generale del contratto”, insieme a centinaia di articoli riguardanti i contratti speciali per affermare che: “la Corte ha ritenuto che l’art. 3 Cost. ponga freni al dirottamento, non sufficientemente motivato, dai principi di cui agli articoli 1321 e ss. E’ vero che, nella decisione, è confluita altresì la volontà di reprimere un diniego di giustizia che parve insito nel divieto di provare una data circostanza di fatto. Ma è anche vero che … anche in futuro le regole specifiche, destinate alle convenzioni patrimoniali tra coniugi, e divergenti dalle regole comuni sui contratti, potranno subire più o meno penetranti sindacati di costituzionalità”.

La terza sentenza è del 27 giugno 1973, n. 91, in essa l’art. 781 CC, che sanciva il divieto di liberalità fra coniugi, è dichiarato in contrasto con l’art. 3 Cost.

Riguardo a quest’ultima sentenza, piuttosto semplice  nel suo contenuto, SACCO ha rilevato le conseguenze di politica giurisprudenziale a cui può dare origine la medesima, in una sottile analisi che vale la pena di riportare per linee generali attraverso le testuali sue parole.

La Corte, affermando incostituzionale la disparità di trattamento fra chi è coniuge; … e chi non è coniuge … e rivendicando in materia la libertà dell’iniziativa economica dei coniugi, ha disseminato, fra le regole che vincolano il legislatore ordinario, criteri normativi capaci dei più ampi e impensati sviluppi, ogni qualvolta un soggetto giuridico dovrà invocare una norma che lo gratifica in quanto coniuge, o che inceppa le ragioni della controparte in quanto coniuge. – Il divieto (…) fa sorgere situazioni palesemente ingiuste e anche moralmente aberranti (…); porta a considerare valide le donazioni fra coniugi fatte in pendenza di matrimonio putativo o di matrimonio successivamente annullato, e nulle quelle fatte in pendenza di matrimonio sciolto in seguito di sentenza di divorzio (…) – Il divieto costituisce una palese ineguaglianza giuridica di coloro che sono uniti in matrimonio legittimo (…) rispetto ad altri casi (…) quali il matrimonio putativo (…), la convivenza more uxorio (…), il concubinato ed altre. – La norma denunziata viola il principio di uguaglianza fra cittadini in quanto stabilisce che la condizione di coniugato con una data persona costituisce un elemento discriminatorio rispetto alla capacità del non coniugato o del coniugato con altre persone di donare e correlativamente di ricevere per donazione”.-

Abbiamo letto queste disposizioni, vergate dalla Corte Costituzionale a condanna del defunto art. 781 CC”.

Constatiamo ora che il senso logico del discorso correrebbe benissimo se, in luogo della donazione, fosse sotto giudizio la comunione legale dei beni. Anche di essa si potrebbe dire che crea una palese ineguaglianza tra coniuge putativo  coniuge divorziato, tra coniuge, concubino, convivente more uxorio (e, per acquisti rapidi, del tipo vincita al totocalcio, si può menzionare anche colui che convive il tempo di una breve vacanza) ”.

In futuro, la Corte troverà quanti motivi vorrà, se le piacerà giustificare le differenze di trattamento fra coniuge, il concubino e il compagno allegro di una vacanza. Poiché ciò che pare interessarla è piuttosto il risultato che non la motivazione, farà prova di duttilità nel ricorrere a motivazioni che giustificherebbero di volta in volta il risultato voluto”. (1)

La Corte Costituzionale non si è limitata a questi interventi abrogativi ma ha sollecitato gli organi legislativi ad intervenire in materia, riformando l’istituto dei rapporti patrimoniali.

E’ il caso della sentenza n. 187 del 26 giugno 1974, nella quale la Corte aveva respinto l’eccezione d’incostituzionalità, ma aveva affermato che “la vigente disciplina dei rapporti patrimoniali tra coniugi può dare luogo a situazioni di inadeguatezza di tutela giuridica”, invocando l’intervento del legislatore che, unico, poteva colmare tale “lacuna”.

La legge 19 maggio 1975, n. 151

La legge 19/05/75, n. 151, intervenuta dopo anni di traversie, ha comportato notevoli mutamenti nel settore dei rapporti patrimoniali familiari i più notevoli dei quali sono, a prima vista, il divieto della costituzione di dote (divieto solo parziale in quanto non prevede lo scioglimento delle doti esistenti), la soppressione del patrimonio familiare e la sua sostituzione con il fondo familiare, l’introduzione della comunione quale regime legale e la parallela retrocessione della separazione a regime convenzionale o giudiziale, l’eguaglianza delle quote della comunione e l’amministrazione dei beni da parte di entrambi i coniugi.

La condizione della donna risulta notevolmente migliorata anche sul piano giuridico, il che lo si deduce chiaramente dall’art. 243 CC. In cui, tra i doveri dei coniugi , è inserito quello della collaborazione. Ma è con la sostituzione del regime di separazione con quello di comunione che risalta con evidenza la diversa posizione acquisita dalla donna nei rapporti familiari.

Tuttavia “bisogna fin d’ora avvertire che il problema della eguaglianza tra coniugi non risiede tanto nella scelta tra i possibili regimi patrimoniali”, in quanto “né separazione, né comunione sono per loro natura strumenti di promozione dei diritti della donna ( …) In realtà ogni regime appare più o meno egualitario in funzione del sistema di distribuzione  dei poteri all’interno della famiglia” (M. BESSONE – G. ALPA – A. D’ANGELO – G. FERRANDO – La famiglia nel nuovo diritto). (2)

Vediamo quali sono le differenze fra il nuovo istituto della comunione e quello precedente alla riforma. Oltre al fatto di essere legale, il nuovo istituto prevede l’amministrazione congiunta o disgiunta, a seconda dei casi, da parte di entrambi i coniugi; lo scioglimento della comunione oltre i casi previsti dagli artt. 191 e 193, rispecchianti quelli indicati negli abrogati artt. 225 e 226 CC del ’42, anche per volontà dei coniugi i quali, inoltre, potranno, nel corso del matrimonio, modificare il regime patrimoniale con apposita convenzione; infine le quote della comunione non potranno non essere egualitarie, essendo vietato ogni patto contrario.

Tesi del compenso al lavoro casalingo

La ratio della comunione quale regime legale patrimoniale secondo una prima tesi, sostenuta anche in alcune relazioni parlamentari, risiederebbe nella volontà di assicurare un compenso al lavoro casalingo femminile. Ma tale affermazione risulta piuttosto paradossale, se si pensa che il regime di comunione si applica automaticamente, senza stipulare una convenzione matrimoniale, e indipendente dall’effettuazione di un lavoro casalingo o di un qualsiasi altro lavoro da parte della donna.

Per di più un intervento in tal senso, secondo una propria logica interna, avrebbe dovuto portare a differenziare il compenso in proporzione alla “quantità e qualità del lavoro prestato”, secondo quanto si rileva nel progetto approvato dalla Camera e modificato dal Senato.

In tale progetto era contemplato il caso in cui uno dei coniugi avesse contribuito in misura notevolmente superiore alla formazione del patrimonio. Vi era in questo caso la possibilità per il coniuge di chiedere all’autorità giudiziaria, in caso di divisione, la formazione di quote diverse ma con una differenza non superiore ai ¾.

Il progetto divise la dottrina in due campi avversi, in cui una parte favorevole al progetto sosteneva la necessità di tutelare i principi della personalità, dell’iniziativa privata e del lavoro, procedendo altrimenti ad una sorte di espropriazione dei beni di un coniuge a favore dell’altro.

Contro si schierò la restante dottrina affermando la impossibilità di seguire il criterio indicato nel progetto, perché non assicurata la parità giuridica e morale dei coniugi e perché il lavoro della donna non può essere quantificabile; comunque sia, il progetto fu modificato con l’eliminazione del principio innanzi descritto, oltretutto fu osservato che non sempre vi è un lavoro casalingo da retribuire.

Altra tesi è quella secondo cui la ratio andrebbe ricercata nella volontà di dare attuazione al principio di eguaglianza, sancito dall’art. 29 Cost., ma a parte l’osservazione che la soddisfazione di tale principio può attuarsi mediante soluzioni diverse da quella prescelta (SCHLESINGER), deve osservarsi che, se nella stragrande maggioranza vi è una certa eguaglianza tra il lavoro domestico e il lavoro extradomestico, non può negarsi che in alcune ipotesi tale rapporto di eguaglianza non sussiste.

Questo è il caso in cui uno dei coniugi per la sua industria o per la sua professione abbia un reddito molto elevato, l’altro coniuge vedrà ridursi il proprio lavoro con l’introduzione di collaboratori familiari, se esercita un lavoro domestico, fino al limite di avere come unica attività quella di spendere il reddito prodotto dal coniuge.

Altra motivazione, invocata quale ratio in regime di comunione è quella che fa leva sulla volontà di elevare la posizione della donna rispetto alla posizione di subordinazione economica al marito, previgente al nuovo regime.

Senz’altro uno dei fini della riforma del diritto di famiglia e in particolare della sostituzione del regime di comunione a quello di separazione è l’emancipazione della donna, ma questo non esaurisce il rilievo che l’istituto della comunione assume verso la singola copia, ponendo piuttosto l’attenzione   sulle finalità globali della riforma (SCHLESINGER) –( 4).

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Le tutele legali nelle crisi di famiglia

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Tesi dell’obbligo di contribuzione

Altri autori hanno individuato la spinta della riforma, in particolare per quanto riguarda i rapporti patrimoniali, nell’obbligo di contribuire alle cure familiari gravanti su entrambi i coniugi secondo le proprie forze. Uno dei più coerenti assertori di tale teoria di cui seguiremo l’evolversi del ragionamento è stato FALZEA (5).

Egli inizia con l’osservare che “La famiglia, in quanto fenomeno sociale unitario, è concepita dalla novella come società di eguali. Unità ed eguaglianza confluiscono in primo luogo nei rapporti personali e si realizzano nella conduzione congiuntiva della vita familiare, dove “ai coniugi” è riconosciuta la competenza a operare disgiuntamente per l’attuazione dell’indirizzo concordato (art. 144, c. 2°). A questo ordinamento della famiglia su piano personale deve corrispondere, perché l’operazione paritetica possa svolgersi compiutamente, un ordinamento correlativo sul piano patrimoniale”.

Lo strumento giuridico che vale a integrare nei rapporti patrimoniali l’ordinamento solidale, (…), è costituito dal dovere di contribuzione”, il quale serve a dare la miglior attuazione nell’ambito dei rapporti patrimoniali ai valori fondamentali  “dell’unità della famiglia e dell’uguaglianza dei coniugi”.

Per capire come l’obbligo di contribuzione agisce sui rapporti patrimoniali familiari sarà bene citare le testuali parole di FALZEA:

“(…) nella società familiare si compongono spinte di opposto segno, comunitarie da un verso e individualistiche dal verso opposto. Da ciò consegue che nel sistema di interessi confluenti nella famiglia trovano posto le esigenze dell’insieme e le esigenze dei singoli in un rapporto che di norma vede le prime prevalere sulle seconde, ma col limite inderogabile della tutela di taluni fondamentali interessi individuali. Nella regolamentazione giuridica dei rapporti familiari patrimoniali sono presenti entrambe le matrici.

Gli aspetti comunitari sono rappresentati dal dovere solidale di contribuzione e dagli istituti giuridici che eventualmente lo affiancano, quali il fondo patrimoniale e l’usufrutto legale. I profili individualistici sono espressi, a loro volta, dai restanti regimi previsti nel  capo sesto: la comunione legale, l’impresa familiare, le convenzioni matrimoniali e la separazione dei beni (…)

            Questo orientamento, com’è ovvio, non si risolve in contrapposizioni assolute, (…) E’ anzi da attendersi che negli aspetti comunitari compaiano non trascurabili momenti individualistici (…); e, per contro, che nei profili individualistici siano presenti importanti note comunitarie (…) Ma queste interferenze nulla tolgono alla validità del principio, che ai diversi piani di interessi fa corrispondere le diverse figure dalle quali è costituito il regolamento patrimoniale della famiglia”.

FALZEA, continuando nella sua esposizione, sostiene che “il legislatore della riforma ha affidato la garanzia dell’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi al dovere di contribuzione e che la forma di garanzia prescelta non lascia spazio al meccanismo del mantenimento”, il quale “trova la sua corretta collocazione nel sistema legislativo precedente.”

L’autore si concentra eccessivamente sul principio di eguaglianza, riducendo sostanzialmente la riforma del diritto di famiglia all’attuazione di tale principio, in quanti questi è solo uno dei fini che si è proposto il legislatore. Oltretutto lo sminuire l’importanza dell’introduzione nel regime patrimoniale della comunione legale è una riduzione delle intenzioni del legislatore, che fa venire meno quel collegamento tra riforme e realtà sociale necessaria a dare completezza e vita alla legge.

La comunione legale quale rappresentazione della realtà

I FINOCCHIARO (6) hanno ritenuto l’istituto della comunione legale un tentativo di dare una forma giuridica ad una realtà sociale già esistente nel paese, indipendentemente dalle norme legislative. Il senso di appartenenza dei beni alla famiglia, ossia la comunione, è esistente nella società italiana in misura prevalente ancora prima dell’intervento legislativo.

Del resto vi è la coscienza di questa situazione nel legislatore, lo si deduce da un passo della relazione alla proposta di legge IOTTI ed altri “(…) E’ profondamente presente, anche nelle famiglie in cui entrambi i coniugi prestano attività extracasalinga, la tendenza a considerare comuni gli acquisti ed i risparmi effettuati. Si tratta perciò di recepire questa tendenza, di regolarla, di porla come regime legale (…)

Non deve trarre in inganno il mancato successo della comunione convenzionale prevista dal Codice del 1942, in quanto l’insuccesso pratico è da imputarsi all’antiquata discipline dell’istituto, lontana dal sentire comune.

Anche per quanto riguarda il rilievo della derogabilità del regime di comunione legale, SCHLESINGER ed i FINOCCHIARO non hanno visto in essa una dimostrazione della scarsa importanza della comunione legale riguardo all’economia della riforma del regime patrimoniale della famiglia. Sebbene le conclusioni che ne hanno tratte sono state diverse in quanto, mentre per SCHLESINGER (7) è una incongruenza del legislatore, per i FINOCCHIARO (8) è un correttivo alla riforma per non precorrere i tempi.

Teoria dei poteri di iniziativa

E’ lo stesso FALZEA che, accorgendosi del “respiro troppo corto” dell’innovazione costituita dal regime della contribuzione, ricorre per arricchirla ai “poteri di iniziativa” che mettono “in grado ciascuno dei coniugi di provvedere con efficacia e prontezza al soddisfacimento dei bisogni della famiglia (…) Il ruolo professionale conferisce al marito, che nella massima parte delle famiglie di oggi ne è l’esclusivo portatore, la diretta disponibilità dei mezzi finanziari e per ciò solo una posizione condizionale, (…) Questo condizionamento genera in fatto una posizione di dipendenza della moglie (…) Di qui la necessità di strumenti giuridici capaci di rimuovere o quanto meno ridurre una tale disparità di posizioni. Tali sono, appunto, i poteri di iniziativa patrimoniale con cui la moglie, disgiuntamente dal marito ma con effetto impegnativo per esso, provvedere ai bisogni familiari attuando l’indirizzo familiare” (9), previsto dall’art. 144, comma 2°.

Si avvicina alla tesi qui esposta anche OPPO il quale afferma che “il titolo della comunione non può essere il solo matrimonio (…) ma dovrebbe essere il concorso alla cura della famiglia e alla  formazione del suo patrimonio (…) la comunione non si forma da sola anche se è “legale”. (10)

E’ la stessa legge di riforma che sembra negare quanto innanzi detto, infatti, rileva SCHLESINGER, non vi è la possibilità della divisione dei beni comuni in parti diseguali, se uno dei coniugi abbia contribuito in misura notevolmente maggiore alla formazione del patrimonio comune e la proposta in tal senso avanzata nel progetto è stata eliminata nel testo definitivamente approvato.

Inoltre la possibilità, riconosciuta a ciascuno dei coniugi, di chiedere la separazione giudiziale dei beni quando uno dei coniugi non contribuisce in misura proporzionale alle proprie sostanze e capacità di lavoro ai bisogni della famiglia (art. 193, comma 2°), “conferma che non il soddisfacimento dell’obbligo di dare tale contributo determina il regime di comunione, ma, al contrario, il suo inadempimento può,(…), legittimare una domanda volta a fare cessare (ex nunc) la comunione, senza mai eliminarla (ex tunc), anche se si sia costituita, o sia durata, per un periodo in cui mancava qualsiasi apporto da parte di uno dei coniugi” (SCHLESSINGER) (11).

Considerando la caratteristica di inderogabilità delle quote egualitarie di partecipare alla comunione legale, i FINOCCHIARO sostengono essere stata realizzata una vera e propria scelta politica, che dà a tutto l’istituto del matrimonio un nuovo contenuto rispetto al passato.

In precedenza era costante la preoccupazione di tenere distinti un aspetto personale da uno patrimoniale, cosicché vi era assoluta incomunicabilità tra i patrimoni, attualmente il legislatore tende a confondere le attività dei coniugi, non solo sul piano personale, ma anche sul piano patrimoniale. La ratio della comunione legale è insita in quella volontà del legislatore, rispecchiante una chiara scelta politica.

Pertanto”, secondo le testuali parole dei FINOCCHIARO, “ si deve parlare non di un esproprio dei risultati dell’attività di un coniuge a favore dell’altro, né, ancora, della retribuzione caso mai differita da una certa attività domestica, ma della volontà politica di vedere nella nuova famiglia che nasce a seguito del matrimonio una convergenza oltreché di affetti, di interessi patrimoniali che, esulando dai principi di eguaglianza e di retribuzione (entrambi malamente invocati), assurgono ad una visione comunitaria della famiglia, anche se, allo scopo di non precorrere eccessivamente i tempi, sono stati introdotti alcuni opportuni temperamenti come ad esempio il principio dell’esclusiva titolarità del reddito prodotta da ciascun coniuge in capo al suo autore e la personalità degli acquisti fatti per donazione o per causa di morte”. (12)

Teoria della comunione spirituale e materiale

Anche SCHLESINGER (13) abbraccia la teoria della individuazione della ratio nella volontà politica del legislatore di fare corrispondere i rapporti patrimoniali al modello di matrimonio previsto per i rapporti personali : ossia una “comunione spirituale e materiale”, come si ricava dall’art. 1 della legge 1 dicembre 1970, n. 898, sullo svolgimento del matrimonio.

Tuttavia, a differenza dei FINOCCHIARO, SCHLESINGER non riconosce utilità pratica alle limitazioni introdotte dal legislatore alla comunione legale ma la considera delle contraddizioni alla scelta di fondo operata, probabilmente per timore di una novità eccessiva.

Mentre ritiene pienamente giustificata l’esclusione dei beni di cui il coniuge era proprietario prima del matrimonio (art. 179, lett. a, CC.), considera del tutto arbitraria l’esclusione dalla comunione legale dei beni personali di ciascun coniuge (art. 179)-  (SCHLESINGER) – (14).

Tale incoerenza è stata sostenuta anche da OPPO (15) a causa della mancanza di una compensazione in altro trattamento patrimoniale della rinuncia preventiva e quindi in toto al regime legale.

Conclude FRANZINI affermando che la riforma “ha risentito del lungo periodo trascorso dalla stesura del disegno originario alla promulgazione della legge, si sono infatti trascurate molte delle norme in tal lasso di tempo emanate, mentre è mancato il necessario collegamento con tanta parte di quella normativa pertinente alla materia e che avrebbe potuto fare conseguire una visione più realistica di certi istituti, come l’impresa commerciale, che è stata invece considerata prevalentemente in senso astratto perché avulsa dalla realtà dei rapporti giuridico economici” (16).

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NOTE

  • – SACCO, Regime patrimoniale e convenzioni (COMM. ALLA RIFORMA DEL DIR. DI FAM., PADOVA 1977), Pag. 317-318, vol. I
  • – M. BESSONE- G. ALPA – A. D’ANGELO – G. FERRANDO, La Famiglia nel nuovo diritto (BOLOGNA 1978), pag. 92
  • – SCHLESINGER, Comunione legale (COMM. ALLA RIFORMA DEL NUOVO DIR. DI FAMIGLIA, PADOVA 1977), Pag.363 , vol. I
  • – SCHLESINGER, citato, pag. 363 e seg. Vol.I
  • – FALZEA, Il dovere di contribuzione nel regime patrimoniale della famiglia (RIV. DI DIR. CIV., 1977) pag. 614 e seg.
  • – A. FINOCCHIARO e M. FINOCCHIARO, Riforma del diritto di famiglia. Commentario teorico pratico della Legge 19 maggio 1975, n. 151 (Milano 1977), Pag. 452 vol.III
  • – SCHLESINGER, citato, pag. 366 vol. I
  • – A. FINOCCHIARO e M. FINOCCHIARO, citato, pag. 203 vol. I
  • – FALZEA, citato, pag. 623 – 624

(10)-OPPO, Il regime patrimoniale della famiglia (AL RIF. DEL DIR. DI FAM., ATTI II CONVEGNO DI VENEZIA), pag. 72

(11)-SCHLESINGER, citato, pag. 362 nota 6 vol. I

(12)-A. FINOCCHIARO e M. FINOCCHIARO, citato, pag. 204 vol. I

(13)-SCHLESINGER, citato, pag. 364 e seg. vol. I

(14)-SCHLESINGER, citato, pag. 366 vol. I

(15)-OPPO, Responsabilità patrimoniale e nuovo diritto di famiglia (RIV.DIR.CIV., 1976), pag. 108-109

(16)-FRAZZINI, La riforma del diritto di famiglia: Luci ed ombre sui rapporti patrimoniali tra coniugi (DIR.DI FAM. E DELLE PERS., 1975) pagg. 1555 e seg.

Dott. Sabetta Sergio Benedetto

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