Le Sezioni Unite sull’estinzione della pena per decorso del tempo

Le Sezioni Unite Penali intervengono sull’articolo 172 c.p. affermando il seguente principio: il decorso del tempo ai fini dell’estinzione della pena detentiva ha inizio il giorno in cui la condanna è divenuta irrevocabile e si interrompe con la carcerazione del condannato ed esso comincia nuovamente a decorrere se il condannato, una volta iniziata la esecuzione della pena mediante la carcerazione, vi si sottragga volontariamente con condotta di evasione.

Indice:

  1. Il fatto
  2. I motivi addotti nel ricorso per Cassazione
  3. La posizione assunta dalla Procura generale presso la Corte di Cassazione
  4. Le questioni prospettate nell’ordinanza di rimessione
  5. Le valutazioni giuridiche formulate dalle Sezioni Unite
  6. Conclusioni

Il fatto

Il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, in funzione di giudice dell’esecuzione, rigettava l’opposizione proposta dal Procuratore della Repubblica avverso l’ordinanza con cui lo stesso Giudice aveva dichiarato l’estinzione per decorso del tempo della pena di anni due di reclusione ed euro 3.000 di multa.

Il Pubblico Ministero aveva emesso ordine di esecuzione e contestuale decreto di sospensione, ai sensi dell’art. 656, comma 5, cod. proc. pen., il 16 maggio 2013 mentre il provvedimento era stato notificato al difensore del condannato nei giorni successivi, mentre la notifica nei confronti del condannato era intervenuta solo il 6 marzo 2017, quando egli era rientrato in Italia, da cui era stato espulso fin dal 2006.

Il condannato, nei trenta giorni successivi alla notifica del provvedimento, non aveva presentato istanza di concessione di una misura alternativa alla detenzione e il Pubblico Ministero, in data 9 maggio 2017, aveva revocato il decreto di sospensione dell’esecuzione.

Peraltro, le ricerche del condannato avevano avuto esito negativo per sua irreperibilità fino al suo rintraccio, avvenuto il 12 febbraio 2020, quando lo stesso era stato tradotto in carcere.

Secondo il Giudice per le indagini preliminari, la pena inflitta si era estinta il 21 dicembre 2017 in applicazione dell’art. 172, primo comma, cod. pen..

Il Giudice negava che la notificazione dell’ordine di esecuzione e del decreto di sospensione segnasse l’inizio dell’esecuzione, che era determinato soltanto dalla carcerazione del condannato e, di conseguenza, la notificazione non integrava un fatto interruttivo della prescrizione della pena, mentre la successiva irreperibilità del condannato non poteva essere qualificata come sottrazione volontaria all’esecuzione già iniziata della pena ai sensi dell’art 172, quarto comma, cod. pen..

Ciò posto, non si riteneva nemmeno configurabile l’ipotesi contemplata dall’art. 172, quinto comma, cod. pen. in quanto le cause di sospensione del termine di estinzione della pena per decorso del tempo sono esclusivamente quelle riferibili alla sentenza di condanna e non quelle relative all’attività posta in essere dagli organi deputati all’esecuzione; in particolare, era ininfluente la circostanza che il condannato fosse stato espulso dal territorio nazionale fin dal 2006 e fosse rientrato in Italia solo nel

A seguito dell’espulsione dal territorio nazionale, non poteva trovare applicazione la sospensione dell’esecuzione della pena prevista dall’art. 7, comma 12-quater d.l. 30 dicembre 1989, n. 416 convertito, con modificazioni, dalla legge 28 febbraio 1990, n. 39; norma, peraltro, abrogata dalla legge n. 40 del 1998.

Leggi anche l’articolo In che termini l’art. 172, c. 7, c.p. è applicabile in relazione ai recidivi, di Antonio Di Tullio D’Elisiis, 10 febbraio 2021.

I motivi addotti nel ricorso per Cassazione

Avverso il provvedimento summenzionato proponeva ricorso per Cassazione il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere il quale deduceva i seguenti motivi:

1) violazione degli artt. 172 cod. pen. e 656, comma 5, cod. proc. pen. poiché la notifica al condannato dell’ordine di esecuzione e contestuale decreto di sospensione, operata in forza dell’art. 656, comma 5, cod. proc. pen., segna l’inizio dell’esecuzione, in quanto manifesta la volontà punitiva dello Stato e, di conseguenza, la successiva irreperibilità del condannato, ad avviso del ricorrente, dimostrava la volontà di sottrarsi all’esecuzione già iniziata della pena e comporta l’applicazione dell’art. 172, quarto comma, cod. pen., con nuova decorrenza del termine di estinzione della pena per decorso del tempo;

2) analoga violazione di legge non avendo il Giudice considerato che l’inutile decorso del termine di trenta giorni per la presentazione della richiesta di concessione di misure alternative alla detenzione, a seguito della notificazione del decreto del pubblico ministero, e la consequenziale emissione dell’ordine di carcerazione integravano la fattispecie regolata dall’art. 172, quinto comma, cod. pen. in quanto l’esecuzione della pena è subordinata alla scadenza di un termine, da cui decorre la prescrizione della pena;

3) violazione dell’art. 172 cod. pen. con riferimento alla omessa applicazione della sospensione del termine di prescrizione della pena tra la data dell’espulsione dello straniero dal territorio nazionale e il ripristino della detenzione a seguito del rientro in Italia.

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La posizione assunta dalla Procura generale presso la Corte di Cassazione

Il Sostituto Procuratore generale, nella requisitoria scritta depositata per l’udienza dell’Il dicembre 2020 e in quella depositata in udienza, concludeva per l’annullamento con rinvio dell’ordinanza impugnata.

Secondo il Sostituto Procuratore generale, infatti, mentre nel disegno originario del codice di rito l’esecuzione della pena detentiva coincideva con l’arresto e la concreta detenzione del condannato, a seguito dell’introduzione della procedura di cui all’art. 656, comma 5 cod. pen. ad opera della legge 27 maggio 1998, n. 165 (Modifiche all’articolo 656 del codice di procedura penale ed alla legge 26 luglio 1975, n. 354, e successive modificazioni), l’esecuzione delle pene detentive brevi ha inizio con l’ordine di esecuzione e la sua contestuale sospensione mentre la sospensione temporanea, finalizzata a consentire al condannato di presentare richiesta di applicazione di una misura alternativa alla detenzione, per il periodo di trenta giorni o comunque sino a che intervenga la decisione sulla richiesta, non rientra nelle ipotesi previste dall’art. 172, quinto comma, cod. pen.

Il Sostituto Procuratore generale, infine, riteneva manifestamente infondato il terzo motivo di ricorso, basato su una norma dettata per un’ipotesi specifica e, comunque, successivamente abrogata.

Le questioni prospettate nell’ordinanza di rimessione

La Prima Sezione penale rimetteva la decisione alle Sezioni Unite.

L’ordinanza ricordava a tal proposito che l’estinzione della pena per decorso del tempo, regolata dagli artt. 172 e 173 cod. pen., risponde alla finalità di porre un limite temporale alla realizzazione della potestà punitiva dello Stato nei confronti dei soggetti condannati per la commissione di reati, sul presupposto che il decorso del tempo dal passaggio in giudicato della sentenza di condanna fa venire meno l’interesse alla esecuzione della sanzione e, al tempo stesso, rende irrealizzabile la finalità rieducativa della pena nei confronti di chi, a distanza di un lungo periodo di tempo dalla condotta illecita, può presentare una positiva evoluzione della personalità, rilevandosi al contempo che la disciplina de qua persegue anche una finalità preventiva, tanto che l’estinzione della pena è esclusa in presenza delle condizioni ostative di cui all’art. 172, settimo comma, cod. pen.

Ciò posto, a sua volta il termine per la prescrizione della pena decorre dalla data di irrevocabilità della sentenza di condanna, salvi i casi previsti dal quarto comma dell’art. 172, cod. pen. (volontaria sottrazione all’esecuzione già iniziata della pena) e dal quinto comma (esecuzione della pena subordinata alla scadenza di un termine o al verificarsi di una condizione).

Orbene, terminata questa disamina di ordine preliminare, la Sezione rimettente segnalava un contrasto relativo all’individuazione del momento in cui ha inizio il decorso del termine di estinzione della pena con riferimento alla ipotesi dell’art. 172, quarto comma, seconda parte, cod. pen. e cioè quella della “volontaria sottrazione alla esecuzione della pena già iniziata”.

Invero, per un primo orientamento, l’inizio dell’esecuzione della pena detentiva si verifica solo con la carcerazione del condannato, cosicché la sua irreperibilità non integra una volontaria sottrazione all’esecuzione già iniziata e il dies a quo per la decorrenza del termine di estinzione della pena per decorso del tempo coincide con la data di irrevocabilità della sentenza di condanna (Sez. 1, n. 4060 del 10/06/1997) fermo restando che tale principio è stato ribadito anche dopo l’introduzione, ad opera della legge n. 165 del 1998, della procedura relativa all’esecuzione delle pene detentive brevi, che prevede la notifica, al condannato ancora libero, dell’ordine di carcerazione e del contestuale decreto di sospensione dell’esecuzione emesso dal pubblico ministero al fine di permettergli di presentare al tribunale di sorveglianza la domanda di concessione di misure alternative alla detenzione senza fare ingresso in carcere (Sez. 1, n. 21963 del 06/07/2020; Sez. 1, n. 49747 del 26/06/2018; Sez. 1, n. 31196 del 17/06/2004; Sez. 5, n. 32021 del 14/04/2003).

Oltre a ciò, era fatto altresì presente come siffatto orientamento neghi anche che, nel caso di sospensione dell’esecuzione delle pene detentive brevi ai sensi dell’art. 656, comma 5, cod. proc. pen., ricorra il caso dell’esecuzione della pena subordinata alla scadenza di un termine o al verificarsi di una condizione previsto dall’art. 172, quinto comma, cod. pen.: di conseguenza, si afferma l’applicabilità della regola generale sul decorso del termine di prescrizione della pena, negando ogni ipotesi di sospensione.

Invece, un secondo orientamento postula, al contrario, che l’emissione dell’ordine di carcerazione, ancorché sospeso temporaneamente, realizza la potestà punitiva dello Stato: la irreperibilità del condannato successiva alla notifica del provvedimento integra, di conseguenza, una volontaria sottrazione all’esecuzione della pena già iniziata, determinando la nuova decorrenza del termine di cui all’art. 172, quarto comma, cod. pen. (Sez. 1, n. 9854 del 29/04/2007).

Secondo lo stesso indirizzo interpretativo, inoltre, in caso di sospensione dell’ordine di esecuzione ex art. 656, comma 5, cod. proc. pen., ricorre la fattispecie contemplata dall’art. 172, quinto comma, cod. pen., in quanto, a seguito della notifica del decreto del pubblico ministero, l’esecuzione della pena è subordinata alla scadenza del termine di trenta giorni previsto per la presentazione della richiesta di concessione delle misure alternative alla detenzione.

Il Collegio rimettente rimarcava tra l’altro che l’individuazione dell’inizio dell’esecuzione riguarda tutte le pene detentive temporanee, e non solo quelle brevi, e aderiva al primo orientamento, ritenendo che la sottrazione volontaria all’esecuzione già iniziata di una pena sia possibile solo se vi sia stata privazione della libertà personale del condannato, pur ammettendo che tale impostazione mal si adatti a situazioni in cui il condannato è già sottoposto a forme di privazione della libertà personale e presenti l’inconveniente pratico di consentire ai condannati di sfruttare i tempi di decisione della magistratura di sorveglianza, spesso lunghi.

L’ordinanza menzionava per di più la sentenza della Corte costituzionale n. 32 del 2020 che, nel dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 6, della legge n. 3 del 2019 in quanto interpretato nel senso che le modificazioni introdotte all’art. 4-bis, primo comma, della legge 26 luglio 1975, n. 354 si applichino anche ai condannati che abbiano commesso il fatto anteriormente all’entrata in vigore della legge, ha esteso gli effetti della pronuncia al divieto di sospensione dell’ordine di esecuzione previsto dall’art. 656, comma 9, lett. a), cod. proc. pen., associando l’inizio dell’esecuzione all’emissione dell’ordine di carcerazione, così implicitamente ammettendo che tale inizio possa realizzarsi anche in ambito non detentivo.

L’ordinanza di rimessione segnalava infine come il contrasto evidenziato assumesse rilievo anche nel diverso contesto normativo che disciplina la procedura estradizionale in quanto l’estradizione non può essere accordata se la pena è prescritta secondo la legge della Parte richiesta, e sottolineava la necessità che la soluzione assicuri sul piano sistematico unità e coerenza per l’esecuzione di qualsiasi pena detentiva temporanea e anche con riferimento al meccanismo di esecuzione delle pene pecuniarie.

Il Collegio rimetteva, quindi, alle Sezioni Unite i quesiti relativi all’individuazione dell’inizio dell’esecuzione della pena detentiva breve e dell’applicabilità, nel caso previsto dall’art. 656, comma 5, cod. proc. pen., della disciplina dettata dall’art. 172, quinto comma, cod. pen..

Le valutazioni giuridiche formulate dalle Sezioni Unite

Prima di entrare nel merito delle questioni, le Sezioni Unite procedevano ad una loro delimitazione nei seguenti termini:

1) Se la notifica dell’ordine di esecuzione con contestuale decreto di sospensione ai sensi dell’art. 656, comma 5, cod. proc. pen., al condannato resosi successivamente irreperibile, integri l’inizio della esecuzione ai sensi dell’art. 172, quarto comma, seconda parte, cod. pen.. 2) Se e entro quali limiti, ai fini del decorso del tempo necessario ad estinguere la pena ai sensi dell’art. 172 cod. pen., la sospensione temporanea dell’esecuzione disposta dal pubblico ministero ai sensi dell’art. 656, comma 5, cod. proc. pen. integri una delle ipotesi previste dall’art. 172, quinto comma, cod. pen., secondo cui, se l’esecuzione della pena è subordinata alla scadenza di un termine o al verificarsi di una condizione, il tempo necessario per l’estinzione della pena decorre dal giorno in cui il termine sia scaduto o la condizione si sia verificata”.

Premesso ciò, per quanto concerne l’estinzione della pena per decorso del tempo, gli Ermellini rilevavano prima di tutto che gli artt. 172 e 173 cod. pen., nell’ambito del Capo II del Titolo VI del Libro I, disciplinano l’estinzione delle pene per decorso del tempo, prevedendo termini differenziati: – limitandosi a quelle detentive, la pena della reclusione si estingue col decorso di un tempo pari al doppio della pena inflitta e, in ogni caso, non superiore a trenta e non inferiore a dieci anni (art. 172, primo comma, cod. pen.),

– mentre quella dell’arresto si estingue nel termine di cinque anni (art. 173, primo comma, cod. pen.).

Una deroga è prevista per i recidivi, nei casi preveduti dai capoversi dell’art. 99 cod. pen., i delinquenti abituali, professionali o per tendenza: nei loro confronti la pena della reclusione (così come quella della multa) non si estingue (art. 172, settimo comma, prima parte, cod. pen.), mentre la pena dell’arresto (così come quella dell’ammenda) si estingue nel termine di dieci anni (art. 173, primo comma, seconda parte, cod. pen.), dall’altro, un’ulteriore previsione impedisce l’estinzione delle pene della reclusione e della multa se il condannato, durante il tempo necessario per l’estinzione della pena, riporta una condanna alla reclusione per un delitto della stessa indole (art. 172, settimo comma, seconda parte, cod. pen.).

Oltre a ciò, veniva inoltre rilevato che, in forza dell’art. 172, quarto comma, cod. pen., il termine per l’estinzione della pena decorre dal giorno in cui la condanna è divenuta irrevocabile, ovvero dal giorno in cui il condannato si è sottratto volontariamente alla esecuzione già iniziata della pena mentre il quinto comma della medesima disposizione prevede che, se l’esecuzione della pena è subordinata alla scadenza di un termine o al verificarsi di una condizione, il tempo necessario per la estinzione della pena decorre dal giorno in cui il termine è scaduto o la condizione si è verificata, rilevandosi al contempo che queste due norme si applicano, in forza del richiamo operato dall’art. 173, comma terzo, cod. pen., anche alle pene dell’arresto e dell’ammenda.

Ebbene, a fronte di tale quadro normativo, i giudici di piazza Cavour osservavano come il legislatore, operando in tal guisa, abbia ricondotto entrambe le ipotesi al paradigma della estinzione con la conseguenza che non sono ad essa applicabili gli istituti della sospensione e dell’interruzione, al contrario regolati in dettaglio per la prescrizione dei reati (cfr. Sez. U, n. 2 del 30/10/2014, dep. 2015) tenuto conto altresì del fatto che, per un verso, a differenza di quanto previsto in tema di prescrizione del reato per l’imputato, al condannato non è consentito di rinunciare alla estinzione della pena, per altro verso, come fatto presente anche nell’ordinanza di rimessione, le previsioni contenute nell’art. 172 cod. pen. si fondano su una duplice ratio: da una parte, l’attenuarsi dell’interesse dello Stato alla punizione di reati risalenti nel tempo per il diminuito ricordo sociale del fatto, dall’altra la necessità di non tenere il condannato per un periodo eccessivo in uno stato di incertezza in ordine all’esecuzione della pena unita alla considerazione che l’esecuzione perde la sua funzione rieducativa se avviene a grande distanza di tempo dalla commissione del reato.

Detto questo, per quanto invece concerne la decorrenza del termine di estinzione della pena per decorso del tempo, si notava che il quarto e il quinto comma dell’art. 172 cod. pen. individuano tre diversi momenti di decorrenza del termine dell’estinzione: il giorno in cui la condanna è divenuta irrevocabile (quarto comma, prima parte), quello in cui il condannato si è sottratto volontariamente alla esecuzione già iniziata della pena (quarto comma, seconda parte) e, infine, quello in cui è scaduto il termine o si è verificata la condizione alla cui scadenza o al cui verificarsi l’esecuzione della pena è subordinata (quinto comma).

In particolare, il primo momento è coerente con il principio, stabilito dall’art. 650, comma 1, cod. proc. pen., secondo cui «salvo che sia diversamente disposto, le sentenze e i decreti penali hanno forza esecutiva quando sono divenuti irrevocabili», dal momento che il sistema dell’esecuzione penale presuppone la formazione del giudicato che, ai sensi dell’art. 648 cod. proc. pen., si realizza quando contro le sentenze pronunciate in giudizio non è ammessa impugnazione diversa dalla revisione, oppure quando l’impugnazione consentita non è proposta, o, se presentata, è dichiarata inammissibile o rigettata.

Se vi è stato dunque ricorso per Cassazione, la sentenza è irrevocabile dal giorno in cui è pronunciata l’ordinanza o la sentenza che lo dichiara inammissibile o lo rigetta, fermo restando che la consolidata elaborazione giurisprudenziale, i cui esiti sono stati riassunti e valorizzati dalla recente pronuncia delle Sezioni Unite n. 3423 del 29/10/2020, distingue tra autorità di cosa giudicata ed esecutività della decisione giudiziale.

Nel dettaglio, la prima è il risultato conseguente alla conclusione del processo nel suo sviluppo per gradi ed all’esaurimento del potere decisionale sulla regiudicanda in modo tale da impedire che sul medesimo oggetto possa intervenire ulteriore pronuncia. L’autorità di cosa giudicata prescinde dalla concreta realizzabilità della pretesa punitiva dello Stato.

La esecutività, a sua volta, presuppone la formazione del titolo esecutivo e la definitività del provvedimento, che può riguardare tutte le sue componenti, oppure, in caso di annullamento parziale con rinvio della sentenza da parte della Corte di Cassazione, il capo che abbia acquisito autorità di cosa giudicata e sia, quindi, immodificabile nel giudizio di rinvio quanto al giudizio di responsabilità ed alla determinazione della pena principale e che sia autonomo rispetto a quelli attinti dall’annullamento.

Dalla lettura coordinata degli artt. 624, 648 e 650 cod. proc. pen., secondo la Suprema Corte, si desume quindi che, in linea generale, l’esecutività del provvedimento discende dalla sua irrevocabilità, salvo che non sia diversamente disposto.

La correlazione tra irrevocabilità ed esecutorietà del provvedimento, dal canto suo, può però difettare quando esso, sebbene definitivo sul piano formale a seguito della conclusione del procedimento penale per mancata proposizione dell’impugnazione nel termine prescritto o per l’avvenuto esperimento con esito negativo dei mezzi di impugnazione, contiene un comando giurisdizionale non realizzabile.

Difatti, secondo l’insegnamento delle Sezioni Unite, quando l’art. 172, quarto comma, cod. pen. individua come termine di decorrenza per l’estinzione della pena per decorso del tempo il giorno in cui la condanna è divenuta irrevocabile, intende fare riferimento al momento in cui la sentenza sia concretamente utilizzabile come titolo esecutivo (Sez. U, n. 4460 del 19/01/1994) mentre (Sez. U, n. 4904 del 26/03/1997) l’irrevocabilità può non coincidere con la definitività del decisum quando […] si sia formato un giudicato (parziale) sulla responsabilità dell’imputato e non è ancora intervenuta la determinazione della pena e quindi la sentenza non è ancora utilizzabile come titolo esecutivo (arg. ex artt. 624, 648, 650 cod. pen.)  tanto più se si considera il fatto che, esclusa la prescrizione del reato per il giudicato progressivo formatosi, non cominci ancora a decorrere la prescrizione della pena fino all’esaurimento del giudizio di rinvio con l’inflizione della sanzione, dipende dall’inattualità di una condanna irrevocabile per l’impossibilità di dare esecuzione ad una pena non ancora determinata.

In tale ottica, la decisione n. 2 del 30/10/2014, adottata dalle Sezioni Unite, secondo cui, nel caso in cui l’esecuzione della pena sia subordinata alla revoca dell’indulto, il termine di prescrizione della pena decorre dalla data d’irrevocabilità della sentenza di condanna, quale presupposto della revoca del beneficio, si fonda sulla medesima distinzione atteso che da tale data la pena è eseguibile e il pubblico ministero è tenuto a porla in esecuzione, mentre l’ordinanza del giudice dell’esecuzione che revoca l’indulto ha natura meramente formale e ricognitiva.

A loro volta gli altri due momenti di decorrenza del termine ritardano l’estinzione della pena rispetto alla previsione generale, ma operano in maniera differente nel senso che, mentre la norma del quinto comma dell’art. 172 cod. pen. fa slittare il dies a quo del termine di estinzione ad una data successiva a quella di irrevocabilità della sentenza di condanna senza che l’esecuzione abbia avuto inizio, nell’ipotesi contemplata dalla seconda parte del quarto comma dell’art. 172 cod. pen. l’esecuzione della pena è già iniziata, con tale ultima norma il legislatore ha regolato l’ipotesi fisiologica di una sentenza irrevocabile di condanna alla quale è stata data tempestiva esecuzione.

Ciò posto, si evidenziava a tal proposito che l’inizio dell’esecuzione non costituisce un atto interruttivo, tale da far decorrere nuovamente il termine per l’estinzione della pena: come anticipato, non si applicano all’estinzione della pena per decorso del tempo le categorie e gli istituti propri della prescrizione del reato; piuttosto, quando l’esecuzione della pena consegua alla irrevocabilità della sentenza di condanna, non è più ipotizzabile una sua estinzione per decorso del tempo.

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La seconda parte del quarto comma dell’art. 172 cod. pen., invece, prevede un’eccezione a questo principio, facendo decorrere un nuovo termine di estinzione della pena quando il condannato si sottrae volontariamente all’esecuzione già iniziata, in guisa tale che la pena si estinguerà per decorso del tempo se il condannato, sottrattosi volontariamente all’esecuzione, non sarà nuovamente sottoposto ad essa entro il termine fissato dalla norma.

Il quinto comma dell’art. 172 cod. pen., invece, a sua volta, regola casi – che non vengono specificati – in cui alla irrevocabilità della sentenza non corrisponde la sua esecutorietà.

La Suprema Corte evidenziava a tal proposito che le ipotesi, che vi rientrano, sono soltanto quelle stabilite dal legislatore in quanto l’esecuzione delle sentenze irrevocabili è obbligatoria e in nessun modo è lasciata alla discrezionalità del pubblico ministero: il Titolo II del Libro X del codice di procedura penale descrive, infatti, attività vincolate del pubblico ministero che «cura d’ufficio l’esecuzione dei provvedimenti» (art. 655, comma 1, cod. proc. pen.) mentre l’art. 28 reg. esec. cod. proc. pen. dispone che la cancelleria trasmetta «senza ritardo» l’estratto dei provvedimenti esecutivi al pubblico ministero e che il pubblico ministero promuova «senza ritardo» l’esecuzione del provvedimento, spettando all’interprete individuare le ipotesi normativamente disciplinate dal codice penale o dal codice di rito o da leggi speciali riconducibili alla previsione dell’art. 172, quinto comma, cod. pen. fermo restando che le Sezioni Unite, nella decisione n. 9 del 24/03/1995, hanno affermato che «il vincolo inscindibile tra irrevocabilità ed esecutorietà della sentenza, in uno al principio generale di indefettibilità della esecutorietà della sentenza penale al momento della formazione dell’irrevocabilità, non consente di ipotizzare casi di sospensione (a qualsiasi titolo) al di fuori di quelli, eccezionali e, quindi, di stretta interpretazione, previsti dalla legge sostanziale e da quella processuale».

Al giudice non spetta, quindi, per la Corte di legittimità, il potere di sospendere l’esecuzione in casi non previsti.

Terminata la disamina di tale istituto di diritto penale, per quanto inerisce la disciplina della sospensione dell’esecuzione delle pene detentive brevi, si rilevava in primo luogo che l’art. 656, comma 1, cod. proc. pen., nel disciplinare l’esecuzione delle pene detentive, stabilisce che, «quando deve essere eseguita una sentenza di condanna a pena detentiva, il pubblico ministero emette ordine di esecuzione con il quale, se il condannato non è detenuto, ne dispone la carcerazione. Copia dell’ordine è consegnata all’interessato» mentre il quinto comma dello stesso articolo, introdotto dalla legge 27 maggio 1998, n. 165 (Modifiche all’articolo 656 del codice di procedura penale ed alla legge 26 luglio 1975, n. 354, e successive modificazioni), più volte modificato, stabilisce che se la pena detentiva, pur se costituente residuo di maggiore pena, non è superiore a quattro anni – tale misura della pena è stata imposta dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 41 del 2018 – ovvero sei anni nei casi di cui agli artt. 90 e 94 d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), il pubblico ministero ne sospende contestualmente l’esecuzione.

A sua volta il comma 4-bis (aggiunto dall’art. 1, comma 1, lett. b), n. 1, d.l. 4 ottobre 2018, n. 78 convertito, con modificazioni, dalla legge 9 agosto 2013, n. 94) prevede che il pubblico ministero, nel caso in cui esistano periodi di custodia cautelare o di pena fungibile relativi al titolo da eseguire, prima di provvedere o meno alla sospensione, trasmetta gli atti al magistrato di sorveglianza per l’eventuale applicazione della liberazione anticipata ai sensi dell’art. 54 ord. pen.: all’esito di tale decisione, che deve essere adottata senza ritardo, il pubblico ministero sospende o meno l’esecuzione della pena a seconda che la pena residua non superi o, al contrario, superi i limiti indicati, tenuto conto altresì del fatto che la sospensione dell’ordine di carcerazione deve essere disposta soltanto se ricorrono alcune condizioni: la condanna non deve essere stata emessa per i reati elencati dall’art. 656, comma 9, lett. a), cod. proc. pen., salvo che si tratti di condannato minorenne (cfr. Corte Costituzionale, sentenza n. 90 del 2017); il condannato non deve trovarsi in stato di custodia cautelare in carcere o non deve essere detenuto per altra causa (art. 656, comma 9, lett. b), cod. proc. pen.: in senso conforme in giurisprudenza, cfr., da ultimo, Sez. 1, n. 29940 del 29/10/2015, dep. 2016, omissis, Rv. 267325); infine, non deve essere già stata disposta in precedenza la sospensione dell’esecuzione per la stessa condanna da eseguire (art. 656, comma 7, cod. proc. pen.).

In presenza di queste condizioni, di conseguenza, l’ordine di carcerazione e il decreto di sospensione sono notificati al condannato e al suo difensore con l’avviso che, entro trenta giorni, può essere presentata al Tribunale di Sorveglianza istanza di concessione di una delle misure alternative alla detenzione previste dall’ordinamento penitenziario ovvero dell’affidamento in prova in casi particolari previsto dall’art. 94 del testo unico sugli stupefacenti ovvero istanza di sospensione dell’esecuzione della pena ai sensi all’art. 90 dello stesso testo unico mentre la sospensione dell’esecuzione viene disposta anche se il condannato si trova agli arresti domiciliari per il fatto oggetto della condanna da eseguire e se ricorrono le altre condizioni richieste; in questo caso, tuttavia, è il pubblico ministero a trasmettere gli atti senza ritardo al Tribunale di Sorveglianza perché provveda alla eventuale applicazione di una misura alternativa alla detenzione e, fino alla decisione del tribunale di sorveglianza, il condannato resta agli arresti domiciliari “esecutivi” (art. 656, comma 10, cod. proc. pen.).

Nel caso di condannato libero, però, la presentazione al pubblico ministero di un’istanza tempestiva comporta l’ulteriore protrazione della sospensione dell’esecuzione fino alla decisione del tribunale di sorveglianza, cui il pubblico ministero deve trasmettere gli atti mentre se, invece, non è stata presentata un’istanza tempestiva ovvero se l’istanza di sospensione dell’esecuzione della pena ai sensi dell’art. 90 T.U. stup. è inammissibile, il pubblico ministero revoca immediatamente il decreto di sospensione dell’esecuzione fermo restando come fosse per la Cassazione necessario ricordare che, in forza della legge 26 novembre 2010, n. 199 (Disposizioni relative all’esecuzione presso il domicilio delle pene detentive non superiori a diciotto mesi), se la pena detentiva non è superiore a diciotto mesi, anche se costituente parte residua di maggior pena, il pubblico ministero deve sospendere l’ordine di carcerazione e trasmettere senza ritardo gli atti al magistrato di sorveglianza affinché disponga che la pena venga eseguita presso il domicilio (art. 1, comma 3, legge n. 199 del 2010 come modificato dall’art. 3, comma 1, lett. a) del d.l. 22 dicembre 2011, n. 211, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 febbraio 2012, n. 9). Secondo ripetute pronunce della Cassazione, inoltre, il pubblico ministero deve disporre tale ulteriore sospensione dell’esecuzione, in presenza delle condizioni previste, anche nei confronti del condannato che ha già beneficiato della sospensione dell’esecuzione della pena in forza dell’art. 656, comma 5, cod. proc. pen. e non ha avanzato richiesta di misura alternativa (Sez. 1, n. 14987 del 13/03/2019; Sez. 1, n. 4971 del 09/12/2014) ma il pubblico ministero deve revocare la sospensione dell’esecuzione anche se l’istanza è stata presentata direttamente al tribunale di sorveglianza e non al suo ufficio, come espressamente indicato dall’art. 656, comma 6, cod. proc. pen. (Sez. 1, n. 27836 del 08/04/2013).

Ciò posto, era altresì fatto presente che, prima della decisione del tribunale, il pubblico ministero deve revocare il decreto di sospensione dell’esecuzione anche quando l’istanza abbia ad oggetto l’affidamento in prova in casi particolari previsto dall’art. 94 T.U. stup. e il pubblico ministero accerti che il programma di recupero non sia stato iniziato entro cinque giorni dalla presentazione dell’istanza o risulti interrotto.

Il pubblico ministero, infine, deve revocare immediatamente il decreto di sospensione dell’esecuzione quando il Tribunale di Sorveglianza rigetta o dichiara inammissibile l’istanza di misure alternative alla detenzione o di sospensione dell’esecuzione ai sensi dell’art. 90 T.U. stup. (art. 656, comma 8, cod. proc. pen.) mentre se, al contrario, il Tribunale accoglie la domanda, deve essere data esecuzione alla misura alternativa disposta ovvero, se è stata accolta l’istanza di cui all’art. 90 T.U. stup., la sospensione dell’esecuzione proseguirà per altri cinque anni, salvo revoca anticipata.

Successivamente, sulla eventuale revoca delle misure alternative provvederà la magistratura di sorveglianza e, ai sensi dell’art. 659 cod. proc. pen., il pubblico ministero darà esecuzione ai provvedimenti conseguenti previsti dalla legge.

In sostanza, secondo il Supremo Consesso, con l’introduzione dell’art. 656, comma 5, cod. proc. pen. il legislatore ha disposto che, in presenza di determinate condizioni, il pubblico ministero, in deroga alla regola generale sull’esecuzione delle pene detentive stabilita dal primo comma, non debba ordinare la carcerazione del condannato, ma sia tenuto a notificargli l’ordine di esecuzione e il contestuale decreto di sospensione; la carcerazione del condannato sarà ordinata successivamente solo se ricorrono le specifiche circostanze in precedenza ricordate.

Nel caso di accoglimento dell’istanza di concessione di una misura alternativa alla detenzione, la sospensione della carcerazione diviene definitiva, salva l’ipotesi di revoca della misura da parte del tribunale di sorveglianza.

Orbene, alla luce di questa disciplina, il lasso temporale, che intercorre tra la data di irrevocabilità della sentenza di condanna a pena detentiva breve e l’eventuale carcerazione del condannato, può essere ripartito in vari segmenti.

Una prima fase intercorre tra la data di irrevocabilità della sentenza di condanna — nel significato chiarito in precedenza – e quella della notifica al condannato dell’ordine di esecuzione e del contestuale decreto di sospensione.

Come dimostra il presente procedimento, può trattarsi di periodo di durata non breve, ove si abbia riguardo ai vari adempimenti previsti: trasmissione al pubblico ministero dell’estratto esecutivo della sentenza di condanna da parte della cancelleria del giudice o della Corte di Cassazione quando l’esecuzione consegua alla decisione della stessa Corte (art. 28 reg. es . cod. proc. pen.); iscrizione nel registro delle esecuzioni ad opera della segreteria del pubblico ministero (art. 29 reg. es . cod. proc. pen.); computo da parte del pubblico ministero della custodia cautelare e delle pene espiate senza titolo (art. 657 cod. proc. pen.); adozione di un provvedimento di esecuzione di pene concorrenti nel caso di plurime condanne da eseguire (provvedimento cd. di “cumulo“, art. 663 cod. proc. pen.); trasmissione degli atti al magistrato di sorveglianza, affinché provveda all’eventuale applicazione della liberazione anticipata a seguito dell’accertata esistenza di periodi di custodia cautelare o di pena dichiarata fungibile relativi al titolo da eseguire (art. 656, comma 4-bis, cod. proc. pen.).

Inoltre, la notificazione del provvedimento del pubblico ministero deve essere effettuata sia al condannato che al suo difensore, con conseguente decorrenza del termine per la presentazione dell’istanza di concessione di misure alternative dalla data della seconda notificazione.

Oltre a ciò, gli Ermellini ritenevano altresì opportuno sottolineare che, mentre la notificazione al difensore è facilitata dalla sua individuazione ex lege in quello che ha assistito il condannato nella fase del giudizio o in quello nominato per la fase dell’esecuzione, la notificazione al condannato è resa meno agevole dalla inefficacia in questa fase di un’eventuale elezione o dichiarazione di domicilio operata nel giudizio, con la conseguente nullità di una notificazione al domicilio eletto nella fase di cognizione (Sez. 3, n. 22778 del 11/04/2018; Sez. 1, n. 43551 del 10/10/2013,; Sez. 3, n. 14930 del 11/02/2009) dato che, non a caso, il condannato non detenuto ha l’obbligo di fare la dichiarazione o l’elezione di domicilio con la domanda con la quale chiede una misura alternativa alla detenzione (art. 677, comma 2-bis, cod. proc. pen.).

Ad ogni modo, per le Sezioni Unite, era comunque superfluo evidenziare che l’attività di notificazione al condannato è fondamentale per garantire una “effettiva conoscenza” del provvedimento (art. 656, comma 8-bis, cod. proc. pen.).

Precisato ciò, un secondo segmento temporale era ravvisato nel termine di trenta giorni per la presentazione dell’istanza di concessione di misure alternative alla detenzione, termine che decorre dalla notificazione del decreto del pubblico ministero, trattandosi di un termine di carattere processuale al quale si applica la sospensione feriale prevista dalla legge 7 ottobre 1969, n. 742 (Sez. 5, n. 483 del 25/01/2000; Sez. 5, n. 5504 del 16/11/1999; Sez. 2, n. 3933 del 22/09/1999) mentre il terzo segmento temporale intercorre tra la scadenza del termine per la presentazione dell’istanza e la data della decisione del tribunale di sorveglianza: in base all’art. 656, comma 6, cod. proc. pen., il pubblico ministero deve trasmettere al tribunale l’istanza unitamente alla documentazione presentata.

La norma appena citata, invero, stabilisce che il Tribunale deve decidere entro quarantacinque giorni dal ricevimento dell’istanza; si tratta di termine ordinatorio, la cui violazione non comporta conseguenze, in quanto il pubblico ministero non può in ogni caso revocare il decreto di sospensione dell’esecuzione fino alla decisione, che deve essere adottata dopo un’udienza in camera di consiglio fissata a norma dell’art. 666, comma 3, cod. proc. pen. ma il presidente del Tribunale di Sorveglianza può, tuttavia, nei casi previsti, dichiarare inammissibile l’istanza con decreto motivato in forza dell’art. 666, comma 2, cod. proc. peri., provvedimento cui consegue la revoca del decreto di sospensione dell’esecuzione (Sez. 1, n. 20467 del 27/01/2015; Sez. 1, n. 356 del 18/01/2000).

L’art. 678, comma 1-ter, cod. proc. pen., inserito dall’art. 4, comma 1, lett. b), n. 3, d.lgs. 2 ottobre 2018, n. 123, a sua volta, prevede una procedura semplificata per la decisione sulle istanze di cui all’art. 656, comma 5, cod. proc. pen., quando la pena da espiare non è superiore a un anno e sei mesi: la misura alternativa alla detenzione può essere provvisoriamente applicata dal magistrato di sorveglianza con ordinanza adottata senza formalità, che può essere confermata dal Tribunale di Sorveglianza, anche in questo caso senza formalità, in caso di mancata opposizione entro il termine di dieci giorni dalla comunicazione al pubblico ministero e dalla notificazione all’interessato e al difensore fermo restando che, da un lato, quando non è stata emessa o confermata l’ordinanza provvisoria o è stata proposta opposizione, il Tribunale di Sorveglianza procede a norma dell’art. 666 cod. proc. pen., dall’altro, questo segmento temporale ovviamente manca se, come nel caso in esame, nei trenta giorni successivi alla notificazione, il condannato o il suo difensore non presentano istanza di concessione di misure alternative alla detenzione.

Chiarito ciò, il quarto segmento temporale era individuato in quello successivo all’ordinanza del tribunale di sorveglianza che rigetta o dichiara inammissibile l’istanza di concessione della misura alternativa ovvero al decreto del presidente che la dichiara inammissibile oppure alla scadenza del termine di trenta giorni dalla notificazione del provvedimento del pubblico ministero, nel caso in cui l’istanza non sia stata presentata.

Il pubblico ministero, in effetti, deve revocare il decreto di sospensione dell’esecuzione (art. 656, comma 8, cod. proc. pen.) e, quindi, dare nuova efficacia all’ordine di carcerazione del condannato, il quale deve essere arrestato e tradotto in carcere (salvo il caso già ricordato della nuova sospensione disposta in applicazione della legge n. 199 del 2010 nel caso in cui la pena detentiva sia inferiore a diciotto mesi). In caso di mancata presentazione dell’istanza, il pubblico ministero deve disporre la rinnovazione della notifica, se è provato o appare probabile che il condannato non abbia avuto effettiva conoscenza del provvedimento (art. 656, comma 8-bis, cod. proc. pen.), rilevandosi al contempo che anche questa fase può però prolungarsi: in effetti, il condannato è rimasto libero, né la notifica del provvedimento del pubblico ministero o la presentazione dell’istanza di concessione di misure alternative alla detenzione hanno comportato qualche forma di limitazione dei suoi movimenti, cosicché il suo rintraccio ai fini della carcerazione può non risultare agevole, senza che l’eventuale condizione oggettiva di irreperibilità possa in alcun modo equipararsi alla nozione di “volontaria sottrazione all’esecuzione già iniziata” di cui all’art. 172, quarto comma, seconda parte, cod. pen..

A fronte di quanto sin qui sostenuto, per quanto riguarda l’incidenza della sospensione delle pene detentive brevi sull’estinzione della pena per decorso del tempo, si segnalava, una volta rilevato che l’analisi del funzionamento della procedura ex art. 656, comma 5, cod. proc. pen. permetteva di comprendere meglio la portata della decisione impugnata nel presente procedimento, che, secondo il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, benché nelle prime tre fasi sopra descritte il pubblico ministero abbia l’obbligo di non disporre la carcerazione del condannato e benché il rintraccio di quest’ultimo nell’ultima fase possa essere difficoltoso e, quindi, ritardato, il termine per l’estinzione della reclusione o dell’arresto inizia comunque a decorrere dalla data di irrevocabilità della sentenza di condanna, senza che ricorra alcuna interruzione o sospensione e, di conseguenza, poiché l’inizio dell’esecuzione coincide con l’ingresso in carcere del condannato, la pena detentiva si estingue se tale evento interviene dopo oltre dieci anni dalla irrevocabilità (cinque anni in caso di condanna alla pena dell’arresto).

Orbene, secondo le Sezioni Unite, il ricorso del Procuratore della Repubblica era proprio finalizzato ad evitare questo effetto mediante due prospettazioni alternative.

In particolare, secondo la prima, in caso di pene detentive brevi, l’inizio dell’esecuzione, che impedisce l’estinzione della pena per decorso del tempo, dovrebbe essere fatto coincidere con la notificazione al condannato dell’ordine di esecuzione e del contestuale decreto di sospensione e non con l’arresto e la traduzione in carcere e, pertanto, la fase successiva a tale notificazione dovrebbe essere qualificata come volontaria sottrazione del condannato all’esecuzione già iniziata della pena, con l’effetto di far decorrere dalla data della notificazione un nuovo termine decennale per l’estinzione della pena ai sensi dell’art. 172, quarto comma, seconda parte, cod. pen. mentre, secondo la diversa, alterativa ricostruzione proposta nel secondo motivo di ricorso, non potendo il pubblico ministero revocare il decreto di sospensione dell’esecuzione fino alla decisione del tribunale di sorveglianza sull’istanza di concessione delle misure alternative alla detenzione o, nel caso in cui la stessa non sia presentata, fino al decorso di trenta giorni dalla notifica al condannato del provvedimento, in forza dell’art. 172, quinto comma, cod. pen. il termine di estinzione della pena dovrebbe decorrere da una delle due date, atteso che l’esecuzione della pena — in questo caso intesa come carcerazione del condannato — è subordinata alla scadenza di un termine.

Conclusa anche questa disamina, si passava subito ad affrontarne un’altra, ossia quella afferente il momento di inizio dell’esecuzione delle pene detentive brevi sospese in forza dell’art. 656, comma 5, cod. proc. pen.

Ebbene, si evidenziava a tal riguardo che, come segnalava la Sezione rimettente, sul momento di inizio dell’esecuzione delle pene detentive brevi rientranti tra quelle contemplate dall’art. 656, comma 5, cod. proc. pen. sussiste un contrasto, da inquadrare nel più ampio contesto riguardante l’individuazione del momento in cui inizia l’esecuzione, tema oggetto di difformi indirizzi interpretativi.

Prima dell’introduzione dell’istituto della sospensione dell’esecuzione delle pene detentive brevi, invero, la giurisprudenza di legittimità affermava che l’inizio dell’esecuzione coincide con la carcerazione del condannato, cosicché, perché si possa fare riferimento, come dies a quo, al giorno in cui il condannato si è sottratto volontariamente all’esecuzione della pena, non è sufficiente che il provvedimento di carcerazione sia stato emesso e sia rimasto ineseguito per volontà dello stesso condannato, ma è necessario che l’esecuzione della pena sia di fatto già iniziata mentre, in mancanza, il termine iniziale decorre dal giorno in cui la sentenza è divenuta irrevocabile (Sez. 1, n. 4060 del 10/06/1997).

Orbene – dopo essersi fatto presente come tale principio sia stato ribadito anche dopo l’entrata in vigore della legge n. 165 del 1998, essendo stato infatti affermato che, nel caso di sospensione dell’esecuzione disposta dal pubblico ministero ai sensi dell’art. 656, comma 5, cod. proc. pen. il termine di estinzione della pena per decorso del tempo decorre dalla data di irrevocabilità della condanna, ai sensi dell’art. 172, comma quarto, cod. pen., e non da quella del provvedimento di revoca della sospensione (Sez. 1, n. 49747 del 26/06/2018) atteso che lo stesso non segna l’inizio dell’esecuzione della pena detentiva – si notava che, secondo il ricorrente, le modifiche apportate all’art. 656, comma 5 cod. proc. pen. dalla legge n. 165 del 1998, imporrebbero di individuare per le pene detentive brevi ivi contemplate un diverso momento di inizio dell’esecuzione, coincidente con la notifica al condannato dell’ordine di carcerazione e della contestuale sospensione dell’esecuzione atteso che tale notifica “consoliderebbe” l’esecuzione nei confronti del condannato, rilevandosi al contempo che tale soluzione sarebbe, inoltre, coerente con la ratio dell’art. 172, quarto comma, cod. pen., che si fonda sul principio del decorso della prescrizione della pena in caso di inerzia dell’autorità statuale.

Ciò posto, il Procuratore generale argomentava, a sua volta, che la notifica del provvedimento del pubblico ministero al condannato segna l’inizio della fattispecie complessa integrante il rapporto esecutivo mentre nessuna pronuncia di legittimità che ha affrontato la questione relativa all’inizio dell’esecuzione delle pene detentive brevi cui si applica la procedura disciplinata dall’art. 656 cod. proc. pen. ha affermato espressamente che l’esecuzione delle pene detentive brevi inizia con la notifica al condannato del decreto del pubblico ministero emesso ai sensi dell’art. 656, comma 5, cod. proc. pen..

Ai fini della corretta impostazione del problema, appariva quindi opportuno, per la Corte di legittimità, prendere le mosse dal contesto normativo in cui venne inserito l’art. 172 cod. pen. e dalle sue interrelazioni con talune disposizioni del codice di rito all’epoca vigente, e quindi si evidenziava che, dopo aver stabilito che l’esecuzione della sentenza presuppone la irrevocabilità della stessa e che le sentenze di condanna irrevocabili devono essere eseguite entro cinque giorni, l’art. 581 cod. proc. pen. 1930 stabiliva: «Il pubblico ministero o il pretore, competente per l’esecuzione di una sentenza di condanna a pena detentiva, trasmette all’autorità di pubblica sicurezza l’ordine di carcerazione del condannato, se questi non è già detenuto.»

Alla luce di tale previsione, per la Suprema Corte, è da ritenere che il riferimento alla esecuzione della pena già iniziata, contenuto nel quarto comma dell’art. 172, cod. pen., si riferisse all’ipotesi dell’evasione, perché l’inizio dell’esecuzione avveniva con la cattura del condannato e la sua carcerazione (oppure con la notifica dell’ordine di esecuzione al condannato già detenuto).

Pertanto, già in base alla regolamentazione emergente dai due codici del 1930, in caso di mancato arresto del condannato libero dopo l’intervenuta irrevocabilità della sentenza di condanna, la pena si estingueva per decorso del tempo stabilito dalla legge decorrente da tale data; in altre parole, la manifestazione formale della volontà dello Stato di dare esecuzione alla sentenza di condanna, mediante l’emissione dell’ordine di carcerazione, risultava irrilevante ai fini della estinzione della pena fermo restando che una conclusione del genere è avvalorata dalla mancata riproposizione, nel codice di rito del 1930, della disposizione contenuta nel Codice Zanardelli (Regio Decreto 30 giugno 1889, n. 6133) che, all’art. 96, secondo comma, prevedeva, al contrario, che «qualunque atto dell’Autorità competente per la esecuzione della sentenza, legalmente reso noto al condannato, interrompe la prescrizione».

Il codice di procedura penale del 1988, dal canto suo, ha dato continuità ai principi sinora illustrati laddove stabilisce che l’esecuzione delle pene detentive avviene con la carcerazione del condannato.

L’art. 656, comma 1, cod. proc. pen., infatti, prevede, per l’esecuzione delle pene detentive, che il pubblico ministero «emette ordine di esecuzione con il quale (ne) dispone la carcerazione».

Come nel codice previgente, l’eccezione è quindi costituita dal condannato già detenuto: in questo caso l’ordine di esecuzione viene notificato al condannato e comunicato al Ministro della giustizia.

Particolare menzione meritava, ad avviso dei giudici di legittimità ordinaria, il periodo finale del primo comma della medesima disposizione, in base al quale «copia dell’ordine è consegnata all’interessato»: la persona condannata viene fisicamente arrestata e tradotta in carcere e contestualmente le viene effettuata la notificazione dell’ordine che dispone la carcerazione atteso chequesta disciplina consente di trarre una prima conclusione: se l’esecuzione delle pene detentive avviene con la carcerazione, l’emissione del provvedimento previsto dall’art. 656, comma 5 cod. proc. pen. non può costituire l’inizio dell’esecuzione della pena, considerato che il pubblico ministero, contestualmente all’ordine di esecuzione, deve adottare il provvedimento di sospensione dell’esecuzione della pena detentiva, rilevandosi al contempo come, da un lato, tale soluzione sia conforme alla finalità perseguita dalla legge n. 165 del 1998: non dare corso alla carcerazione di soggetto che non sia già detenuto o in custodia cautelare e che, per la non eccessiva gravità del reato commesso e per i precedenti penali, si trova nelle condizioni giuridiche di essere ammesso dal tribunale di sorveglianza ad una delle misure alternative alla detenzione previste dall’ordinamento penitenziario e dal T.U. stup. ma, appunto, le misure possibili sono “alternative alla detenzione“: sono, quindi, modalità di esecuzione di pena in forma differente dalla carcerazione, dall’altro, questa ricostruzione sia coerente con quanto previsto dall’art. 656, comma 10, cod. proc. pen. per l’esecuzione della pena detentiva breve nei confronti del condannato che si trova agli arresti domiciliari per il fatto della condanna da eseguire dal momento che, in questo caso «il pubblico ministero sospende l’esecuzione dell’ordine di carcerazione e trasmette gli atti al tribunale di sorveglianza perché provveda alla eventuale applicazione di una delle misure alternative» e «fino alla decisione del tribunale di sorveglianza, il condannato permane nello stato detentivo nel quale si trova e il tempo corrispondente è considerata come pena espiata a tutti gli effetti».

La finalità è dunque, per la Corte, la medesima, ossia quella di evitare che il condannato entri in carcere se ha la possibilità di accedere a misure alternative alla detenzione dato che il fatto che il pubblico ministero, anche in questo caso, debba «sospendere l’ordine di carcerazione» suffraga il principio per cui, in mancanza di effettiva carcerazione, non si ha inizio dell’esecuzione della pena: proprio in quanto la sospensione dell’ordine di carcerazione determina la mancata esecuzione della pena, il legislatore ha dovuto prevedere espressamente che il tempo trascorso agli arresti domiciliari in attesa della decisione del tribunale di sorveglianza, in ordine all’eventuale applicazione di una delle misure alternative, «è considerato come pena espiata a tutti gli effetti».

L’opposta ricostruzione, secondo cui l’emissione dell’ordine di esecuzione della pena con contestuale sospensione segnerebbe l’inizio dell’esecuzione delle pene detentive brevi, invece, per la Suprema Corte, non è condivisibile in quanto non è sufficiente la mera emissione del provvedimento da parte del pubblico ministero, ma occorre che lo stesso sia notificato al condannato.

In effetti, ciò avviene per ogni provvedimento di carcerazione: l’emissione dell’ordine di carcerazione da parte del pubblico ministero non determina l’inizio dell’esecuzione fino a quando il soggetto non viene fisicamente arrestato e tradotto in carcere e non gli viene consegnato il provvedimento (ovvero lo stesso viene notificato al soggetto già detenuto) e, quindi, se il condannato libero riesce a sfuggire all’arresto per tutto il tempo indicato dall’art. 172, primo comma, cod. pen. decorrente dalla data di irrevocabilità della sentenza di condanna, la pena si estingue, dal momento che, ai fini dell’estinzione della pena per decorso del tempo non ha alcuna rilevanza l’esistenza in atti di un verbale di vane ricerche, ricollegandosi l’effetto estintivo al semplice fatto del decorso, appunto, del tempo (misurato dal passaggio in giudicato della sentenza di condanna), salve le ipotesi di diversa decorrenza previste nell’art. 172 cod. pen., e non all’eventuale inerzia degli organi esecutivi (Sez. 1, n. 5205 del 16/12/1992).

Precisato ciò, per le Sezioni Unite, risultava essere infondata anche la tesi secondo cui, sul piano sistematico, l’inizio dell’esecuzione della pena coincide con il sorgere del procedimento esecutivo, con la inevitabile conseguenza dell’anticipazione dell’inizio dell’esecuzione al momento in cui il pubblico ministero emette il provvedimento dopo che la sentenza di condanna è divenuta irrevocabile.

In realtà, il procedimento di esecuzione sorge prima della carcerazione del condannato (cfr. art. 29 reg. esec. cod. proc. pen.) e il “rapporto esecutivo” conseguente alla notificazione del provvedimento del pubblico ministero prescinde dall’intervenuto inizio dell’esecuzione, visto che alcuni dei provvedimenti che il giudice dell’esecuzione può adottare in forza degli artt. 667 e seguenti cod. proc. pen. non richiedono affatto la pregressa carcerazione del condannato; ad esempio, il condannato non ancora arrestato, nonostante l’adozione dell’ordine di carcerazione del pubblico ministero, può promuovere un incidente di esecuzione, contestando che il provvedimento sia divenuto esecutivo (art. 670 cod. proc. pen.) oppure censurando le modalità di formazione del “cumulo” (art. 663 cod. proc. pen.) o il mancato o erroneo computo della custodia cautelare o delle pene espiate senza titolo (art. 657 cod. proc. pen.): il giudice dell’esecuzione deciderà sull’incidente di esecuzione a prescindere dall’intervenuto arresto, se del caso annullando l’ordine di carcerazione ovvero calcolando la pena da espiare in una diversa misura.

Ancora, la richiesta da parte del pubblico ministero di revoca della sospensione condizionale della pena o dell’indulto o della grazia (art. 674 cod. proc. pen.) è avanzata quando il condannato è libero e la sua finalità è, appunto, quello di ottenere un titolo esecutivo che ne permetta la carcerazione; altri provvedimenti del giudice dell’esecuzione, come il riconoscimento della continuazione tra reati oggetto di diverse sentenze irrevocabili (art. 671 cod. proc. pen.) ovvero la revoca della sentenza per abolizione del reato (art. 673 cod. proc. pen.), sono adottati prescindendo dallo stato di libertà o di detenzione del condannato.

Tra l’altro, per gli Ermellini, anche la prospettazione, sostenuta dal ricorrente, secondo cui l’inizio dell’esecuzione delle pene detentive brevi, in caso di ricorrenza delle ipotesi previste dall’art. 656, comma 5, cod. proc. pen., dovrebbe essere individuata nel momento della notificazione al condannato del decreto di esecuzione e contestuale sospensione da parte del pubblico ministero, è infondata.

L’individuazione del momento in cui inizia l’esecuzione di una pena in quello in cui tale esecuzione viene sospesa omette di considerare l’univoca previsione contenuta nell’art. 172, quarto comma, cod. pen. che riconduce la volontaria sottrazione alla esecuzione già iniziata mediante restrizione della libertà personale e confonde due fasi tenute nettamente distinte dal legislatore: una prima fase, nella quale il condannato è totalmente libero, ed una seconda in cui è tradotto in carcere ovvero è sottoposto a misura alternativa alla detenzione. Infine, omette di valutare che la prima fase altro non è che un periodo in cui, in ragione della sospensione ex lege, l’esecuzione non ha luogo per le ragioni già in precedenza esposte.

Ad ulteriore conforto di tale approdo esegetico occorreva, per la Corte di legittimità, evidenziare che, dopo la notifica dell’ordine di esecuzione e del contestuale decreto di sospensione, il condannato non si sottrae volontariamente alla esecuzione già iniziata della pena (art. 172, quarto, comma, seconda parte, cod. pen.), in quanto, come già detto, dopo la notifica dei due provvedimenti del pubblico ministero (ordine di carcerazione e contestuale decreto di sospensione) egli non è sottoposto a nessuna restrizione, fermo restando come si potrebbe, tuttavia, argomentare che, nel caso in cui, dopo la notifica dei provvedimenti, il condannato non presenti istanza di applicazione di una misura alternativa (come è avvenuto nel caso oggetto del presente procedimento), egli è consapevole delle ricadute giuridiche della sua scelta, ossia della obbligatoria adozione, da parte del pubblico ministero, della revoca del decreto di sospensione con contestuale emissione dell’ordine di carcerazione: il decreto contiene, infatti, l’avviso che, ove non sia presentata l’istanza, l’esecuzione avrà corso immediato (cfr. art. 656, comma 5, ultimo periodo, cod. proc. pen.).

Questa prospettazione, pur tuttavia, ad avviso del Supremo Consesso, non è condivisibile posto che il soggetto che non presenta la domanda di applicazione di una misura alternativa, con la certezza della conseguente revoca del decreto di sospensione, si trova nella identica posizione di colui che si sottrae all’esecuzione di una pena detentiva non sospesa conseguente ad una condanna irrevocabile; ma, come si è già visto, nei confronti di quest’ultimo l’esecuzione della pena inizia solo con l’arresto e, in mancanza di esso, il termine di estinzione della pena per decorso del tempo decorre dalla data di irrevocabilità della sentenza di condanna.

Un’ulteriore considerazione convince, sempre ad avviso della Cassazione, dell’erroneità della tesi secondo cui l’inizio dell’esecuzione delle pene detentive brevi sospese in forza dell’art. 656, comma 5, cod. proc. pen. coincide con la notificazione al condannato dei provvedimenti del pubblico ministero (ordine di carcerazione e contestuale decreto di sospensione) posto che questa prospettiva interpretativa contrappone, a un termine di decorrenza fisso e certo – la data di irrevocabilità della sentenza di condanna – un termine mobile e incerto: in effetti, l’effettuazione della notificazione al condannato dell’ordine di carcerazione e del contestuale decreto di sospensione dipende dal tempo necessario al pubblico ministero per emetterlo e da quello occorrente per il rintraccio e la notifica al condannato con modalità tali da far ritenere che egli ne abbia avuto «effettiva conoscenza» (art. 656, comma 8-bis, cod. proc. pen.).

Di conseguenza, nei confronti dei condannati a pene detentive brevi, il termine di decorrenza ai fini della estinzione della pena per decorso del tempo comincerebbe nuovamente a decorrere – senza che agli stessi possa essere attribuita alcuna condotta attiva – dalla data incerta della notificazione dei provvedimenti, con una ingiustificabile diversità di trattamento in senso deteriore rispetto a coloro che, condannati a pene detentive più severe cui volontariamente si sottraggono, possono confidare nel termine fisso previsto dall’art. 172, primo comma, cod. pen. tenuto conto altresì del fatto che tale diversità di trattamento è particolarmente evidente con riferimento ai condannati ad una pena compresa fra i quattro e i cinque anni di reclusione: il termine di estinzione della pena per decorso del tempo è di dieci anni, così come per i condannati ad una pena inferiore, ma per essi la decorrenza resta fissata alla data di irrevocabilità della sentenza di condanna, e rilevandosi contestualmente come non sembrasse che le pronunce emesse in tema di estradizione segnalate dall’ordinanza di rimessione contraddicano la soluzione adottata dal momento che la questione della estinzione della pena è rilevante in questo ambito in quanto la stessa è ostativa all’accoglimento della domanda di estradizione sia che dipenda dalla legislazione della parte richiedente sia che sia ascrivibile alla legislazione della parte richiesta (art. 10 della Convezione europea di estradizione, firmata a Parigi il 13 dicembre 1957 ratificata in forza della legge n. 300 del 30 gennaio 1963; l’articolo è stato, peraltro, recentemente modificato dall’art. 1 del Quarto protocollo addizionale alla Convenzione, ratificato in forza della legge 24 luglio 2019, n. 88).

In proposito, era osservato che la Sez. 6, nella pronuncia n. 21627 del 29/04/2014, ha ribadito che il dies a quo del termine di estinzione della pena per decorso del tempo si individua nel giorno in cui la sentenza è divenuta irrevocabile o in quello in cui il condannato si è volontariamente sottratto alla sua esecuzione, se già iniziata, mentre le cause di sospensione di tale termine, di cui al comma quinto del predetto art. 172, sono esclusivamente quelle riferite alla sentenza di condanna e non invece quelle riferibili all’attività posta in essere dagli organi deputati all’esecuzione mentre era respinta la tesi sostenuta dal Governo richiedente secondo cui i procedimenti aventi ad oggetto decisioni in esecuzione erano stati sospesi dal momento in cui il condannato non era stato reperito nella propria dimora all’atto della notifica dell’ordine di carcerazione, osservando che l’esecuzione della condanna nei confronti dell’estradando non era mai iniziata, con la conseguenza che il dies a quo doveva essere individuato nel momento del passaggio in giudicato delle sentenze, fermo restando come si stimava confermativa della soluzione qui accolta anche la Sez. 1, n. 54337 del 20/11/2018, secondo cui l’arresto del condannato effettuato all’estero in esecuzione di una richiesta di estradizione dello Stato italiano determina l’inizio dell’esecuzione della pena e la decorrenza ex novo del termine di estinzione della stessa, a nulla rilevando la successiva scarcerazione del condannato per mancata concessione dell’estradizione da parte dell’autorità giudiziaria estera, tanto più se si considera che tale decisione recepiva i principi già in precedenza affermati, in tema di mandato di arresto europeo da Sez. 1, n. 3883 del 05/05/2016,.

L’arresto dell’estradando è stato individuato come inizio dell’esecuzione anche da Sez. 6, n. 54664 del 31/10/2018, peraltro con riferimento ad una richiesta di estradizione formulata non per l’esecuzione di pena in conseguenza di sentenza irrevocabile di condanna, ma ai fini del perseguimento del soggetto imputato.

Altre due pronunce menzionate dall’ordinanza di rimessione non sembrano, per la Corte, smentire espressamente il principio qui accolto e devono essere inquadrate nel contesto dei principi in tema di estradizione.

Secondo Sez. 6, n. 44604 del 15/09/2015il termine per il calcolo della estinzione della pena, oggetto della sentenza di condanna costituente titolo per l’attivazione della procedura di estradizione, è rappresentato dalla data di presentazione della richiesta di estradizione e non dalla emissione della sentenza con cui la corte di appello dichiara sussistenti le condizioni per il relativo accoglimento, tenuto conto altresì del fatto che la pronuncia de qua argomenta che, con la formale presentazione della domanda di estradizione, lo Stato richiedente fa valere la pretesa alla consegna del soggetto e dimostra il suo concreto interesse all’esecuzione della pena oggetto della sentenza di condanna, costituente titolo per l’attivazione della procedura estradizionale. Si tratta di pronuncia dalla quale non è possibile evincere il dato dell’avvenuto arresto in Italia del condannato ai fini estradizionali la cui rilevanza, pertanto, non viene valutata, mentre la motivazione si concentra su due differenti eventi (la presentazione della domanda di estradizione e la decisione sulla stessa della Corte d’Appello).

Analogamente, Sez. 6, n. 17999 del 29/03/2018, non menziona l’arresto a fini estradizionali e, quindi, non ne valuta l’incidenza ai fini dell’estinzione della pena per decorso del tempo, che viene esclusa in quanto la richiesta di estradizione era stata presentata prima della decorrenza del termine decennale di cui all’art. 172, primo comma, cod. pen..

Ciò posto, si sottolineava inoltre come l’ordinanza di rimessione avesse segnalato un ulteriore aspetto del problema, posto dalla sentenza della Corte costituzionale n. 32 del 2020 dato che, nel dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 6, lett. b) della legge 9 gennaio 2019, n. 3 (Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione, nonché in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici) in quanto interpretato nel senso che le modificazioni introdotte all’art. 4-bis, comma 1, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà) si applichino anche ai condannati che abbiano commesso il fatto anteriormente all’entrata in vigore della legge n. 3 del 2019, in riferimento alla disciplina delle misure alternative alla detenzione, previste dal Titolo I, Capo VI, della legge n. 354 del 1975, della liberazione condizionale prevista dagli artt. 176 e 177 del codice penale e del divieto di sospensione dell’ordine di esecuzione previsto dall’art. 656, comma 9, lettera a), del codice di procedura penale, la Consulta ha affermato il principio secondo cui «di regola, le pene detentive devono essere eseguite in base alla legge in vigore al momento della loro esecuzione, salvo però che tale legge comporti, rispetto al quadro normativo vigente al momento del fatto, una trasformazione della natura della pena e della sua incidenza sulla libertà personale. In questa ipotesi, l’applicazione retroattiva di una tale legge è incompatibile con l’art. 25, secondo comma, Cost.».

Nel trattare specificamente il tema del divieto di sospensione dell’esecuzione disposto dall’art. 656, comma 9, lett. a) cod. proc. pen., la sentenza osservava quanto segue: «Non v’è dubbio che l’art. 656, comma 9, cod. proc. pen. – nel vietare la sospensione dell’ordine di esecuzione della pena in una serie di ipotesi, tra cui quella, che qui viene in considerazione, relativa alla condanna per un reato di cui all’art. 4-bis ordin. penit. – produce l’effetto di determinare l’inizio dell’esecuzione della pena stessa in regime detentivo, in attesa della decisione da parte del tribunale di sorveglianza sull’eventuale istanza di ammissione a una misura alternativa; e dunque comporta che una parte almeno della pena sia effettivamente scontata in carcere, anziché con le modalità extramurarie che erano consentite – per l’intera durata della pena inflitta – sulla base della legge vigente al momento della commissione del fatto».

In ragione di questi due passaggi, l’ordinanza di rimessione si interrogava se la Corte costituzionale associasse l’inizio dell’esecuzione all’emissione dell’ordine di carcerazione e ammetta così implicitamente che la medesima evenienza possa realizzarsi anche nel caso della sospensione dell’esecuzione ai sensi dell’art. 656, comma 5, cod. proc. pen..

Orbene, per le Sezioni Unite, il dubbio sembra infondato giacchè la questione dell’inizio di esecuzione della pena non era in alcun modo oggetto della sentenza della Corte costituzionale, chiamata a valutare un diverso profilo, quello relativo al mutamento della pena applicabile per effetto di una legge sopravvenuta alla consumazione del reato, osservandosi a tale riguardo che la normativa sopravvenuta rilevante è quella che «non comporti mere modifiche delle modalità esecutive della pena prevista dalla legge al momento del reato, bensì una trasformazione della natura della pena, e della sua concreta incidenza sulla libertà personale del condannato».

Nel riferimento incidentale all’inizio dell’esecuzione della pena in regime detentivo, quindi, la Corte si limitava a descrivere il diverso meccanismo di funzionamento dell’art. 656, comma 5, cod. proc. pen. rispetto alla norma generale del comma 1, senza affrontare la questione riguardante la diversa ipotesi che l’ordine di carcerazione non sospeso emesso dal pubblico ministero possa non essere eseguito per latitanza del condannato con conseguente impossibilità di esecuzione della pena mediante carcerazione.

Sulla base delle considerazioni sinora svolte, con riferimento alla prima questione sollevata dalla Sezione rimettente, veniva quindi formulato il seguente principio di diritto: “Il decorso del tempo ai fini dell’estinzione della pena detentiva, ai sensi dell’art. 172, quarto comma, cod. pen., ha inizio il giorno in cui la condanna è divenuta irrevocabile e si interrompe con la carcerazione del condannato. Esso comincia nuovamente a decorrere se il condannato, una volta iniziata la esecuzione della pena mediante la carcerazione, vi si sottragga volontariamente con condotta di evasione“.

Ciò posto, passando ad esaminare la questione inerente l’applicabilità dell’art. 172, quinto comma, cod. pen. in caso di sospensione della pena detentiva breve disposta ai sensi dell’art. 656, comma 5, cod. proc. pen., si osservava anzitutto che una pronuncia della Cassazione ha affermato che, tra le ipotesi di subordinazione dell’esecuzione della pena alla scadenza di un termine, deve essere ricompresa anche la sospensione dell’esecuzione disposta dal pubblico ministero ai sensi dell’art. 656, comma 5, cod. proc. pen.; in tal caso il termine di prescrizione decorre dalla data in cui il tribunale di sorveglianza accerti la causa di inammissibilità o di rigetto dell’applicazione della misura alternativa, perché solo in tale data si ha la certezza sulle modalità di espiazione della pena (Sez. 1, n. 9854 del 16/01/2007).

Oltre a ciò, era fatto altresì presente come la sentenza appena citata osservi che, a seguito delle modifiche apportate all’art. 656 cod. proc. pen. dalla legge n. 165 del 1998, il pubblico ministero non è esonerato dall’emettere l’ordine di carcerazione, ma deve, contestualmente e con separato provvedimento, sospenderne l’esecuzione; ove non sia adottato il provvedimento di sospensione, l’interessato può chiedere al giudice dell’esecuzione la declaratoria di temporanea inefficacia del provvedimento che dispone la carcerazione.

Ricordando che il decreto di sospensione è soggetto a revoca immediata in presenza di un provvedimento del Tribunale di Sorveglianza che dichiari inammissibile o rigetti l’istanza di applicazione di una delle misure alternative alla detenzione, la Corte giungeva quindi alla conclusione che, tra le ipotesi di subordinazione dell’esecuzione della pena alla scadenza di un termine o al verificarsi di una condizione, previste dall’art. 172, quinto comma, cod. pen., è ricompresa anche la sospensione dell’esecuzione della pena disposta dal pubblico ministero ai sensi dell’art. 656, comma 5, cod. proc. pen..

Da ciò se ne faceva discendere che la decorrenza del termine di estinzione della pena è individuata nella data in cui il Tribunale di Sorveglianza dichiari inammissibile o rigetti l’istanza di applicazione della misura alternativa alla detenzione, cui è finalisticamente preordinato il provvedimento di sospensione dell’esecuzione della pena, obbligatoriamente adottato dal pubblico ministero, poiché solo in tale momento si ha la certezza giudiziale circa le modalità di espiazione della pena e soltanto da tale data, pertanto, può essere dato corso alla concreta esecuzione della pena medesima, fermo restando che tale pronuncia è stata richiamata anche successivamente da Sez. 1, n. 8166 del 16/1/2018, sul punto, e da Sez. 1, n. 35537 del 2/7/2012 mentre, in precedenza, Sez. 5, n. 32021 del 14/04/2003, sul punto, applicando la normativa previgente introdotta dalla legge 10 ottobre 1986, n. 663 (Modifiche alla legge sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), che imponeva al pubblico ministero, al quale fosse stata presentata istanza di affidamento in prova al servizio sociale prima dell’emissione o dell’esecuzione dell’ordine di carcerazione per una condanna ad una pena detentiva non superiore a tre anni, di sospendere l’emissione o l’esecuzione fino alla decisione del tribunale di sorveglianza (art. 47, quarto comma, legge n. 354 del 1975, successivamente modificato), aveva ritenuto che il termine di estinzione della pena decorresse dalla data in cui il Tribunale di Sorveglianza aveva rigettato l’istanza di misura alternativa, in quanto, con la richiesta avanzata al tribunale di sorveglianza, l’esecuzione della pena era rimasta sottoposta ad un termine iniziale di efficacia, costituito dalla decisione sulla stessa fermo restando che sempre questa pronuncia negava che le ipotesi di applicazione dell’art. 172, quinto comma, cod. pen. fossero esclusivamente quelle previste dagli artt. 146 e 147 cod. pen. e quelle di revoca della sospensione condizionale della pena o dell’indulto, rientrando nella previsione normativa tutti i casi in cui la sentenza di condanna non è eseguibile.

A fronte di ciò, si evidenziava come invece altre pronunce affermassero, al contrario, che, nel caso di sospensione dell’esecuzione disposta dal pubblico ministero ai sensi dell’art. 656, comma 5, cod. proc. pen., il termine di estinzione della pena decorre dalla data di irrevocabilità della condanna, ai sensi dell’art. 172, comma quarto, cod. pen., e non da quella del provvedimento di revoca della sospensione (Sez. 1, n. 49747 del 26/06/2018) sostenendosi, infatti, che le cause di sospensione previste dall’art. 172, quinto comma, cod. pen. sono esclusivamente quelle riferite alla sentenza di condanna e non invece quelle riferibili all’attività posta in essere dagli organi deputati alla esecuzione e che, pertanto, ai fini dell’estinzione della pena, il dies a quo è da individuare nel momento in cui la sentenza di condanna è passata in giudicato ed è suscettibile di essere utilizzata come titolo esecutivo (Sez. 1, n. 31196 del 17/06/2004).

Le decisioni menzionate, inoltre, osservavano che l’art. 172 cod. pen. non prevede cause di sospensione del termine di estinzione della pena e che il legislatore del 1998, introducendo la disciplina processuale in esame, non ha integrato la norma prevedendo una specifica causa di sospensione; negano che sia possibile introdurla in via analogica, atteso che l’art. 172 cod. pen. è una norma sostanziale e l’analogia sarebbe operata in malam partem, sottolineandosi, inoltre, la differenza tra la revoca della sospensione condizionale della pena o dell’indulto – per le quali è pacifica l’applicabilità dell’art. 172, quinto comma cod. pen. – e la sospensione dell’esecuzione delle pene detentive brevi di cui all’art. 656, comma 5, cod. proc. pen.: le prime attengono a una condanna non ancora eseguibile per la pendenza di un termine o di una condizione, mentre la procedura disciplinata dall’art. 656, comma 5 cod. proc. pen. presuppone l’esecutività della condanna.

Inoltre, le cause sospensive devono ritenersi riferite alla sentenza di condanna e non a fatti e circostanze relativi all’attività posta in essere dagli organi deputati all’esecuzione, la cui inerzia non può avere effetti sulla decorrenza del termine di estinzione della pena per decorso del tempo che, in base all’art. 172, quarto comma, cod. pen. consegue alla irrevocabilità della sentenza di condanna, suscettibile di essere utilizzata come titolo esecutivo.

Più recentemente, Sez. 1, n. 21963 del 6/7/2020, ha argomentato che esiste «un principio di civiltà giuridica che discende dalla necessità di porre un termine certo alla possibilità di eseguire la pena detentiva, diversa da quella perpetua, perché, altrimenti, il condannato sarebbe indefinitamente soggetto alla pretesa punitiva dello Stato anche quando questo, per mezzo degli organi preposti all’esecuzione, abbia di fatto manifestato il proprio disinteresse ovvero l’incapacità di eseguire la pena. Compete, infatti, agli organi che devono curare l’esecuzione della pena – in primis il pubblico ministero ex art. 655 cod. proc. pen. – di assumere le iniziative (tra cui spiccano per importanza le ricerche in campo internazionale, la richiesta di estradizione e il mandato di arresto europeo) che si palesino opportune per individuare il condannato e, quindi, sottoporlo all’autorità dello Stato, sicché non può tornare a danno del condannato il tempo impiegato dalle autorità pubbliche per portare a compimento il compito loro affidato dalla legge. Analogamente non può essere addebitato al condannato il tempo impiegato dal tribunale di sorveglianza per valutare l’istanza di misura alternativa che è stata avanzata a seguito dell’ordine di carcerazione – con contestuale sospensione – emesso dal pubblico ministero a norma dell’art. 656, comma 5, cod. proc. pen.».

Già la sentenza Sez. 6, n. 21627 del 29/04/2014, pronunciata in tema di estradizione, aveva del resto affermato che le cause di sospensione del termine di estinzione della pena per decorso del tempo, di cui al comma quinto del predetto art. 172, sono esclusivamente quelle riferite alla sentenza di condanna e non invece quelle riconducibili all’attività posta in essere dagli organi deputati all’esecuzione.

Orbene, le Sezioni Unite ritenevano condivisibile il secondo orientamento per le seguenti ragioni.

Si evidenziava innanzitutto che il legislatore del 1998, disegnando un istituto in forza del quale, pur in presenza di sentenza di condanna irrevocabile, la esecuzione viene obbligatoriamente sospesa, non è intervenuto sull’art. 172 cod. pen. e non ha, quindi, stabilito espressamente che la sospensione dell’esecuzione disposta in forza all’art. 656, comma 5, cod. proc. pen. introduce un termine o una condizione inquadrabili in quelli previsti dal quinto comma della norma sostanziale.

D’altro canto, per i giudici di piazza Cavour, si deve escludere che l’interpretazione della norma processuale renda evidente tale inquadramento: in effetti, la complessa e articolata procedura che discende dall’art. 656, comma 5, cod. proc. pen., può essere diversamente interpretata come contenente un elenco di adempimenti dei diversi organi coinvolti (cancelleria, segreteria, pubblico ministero, polizia giudiziaria, tribunale di sorveglianza, UEPE) che si aggiungono a quelli in ogni caso necessari per l’esecuzione di una pena detentiva (trasmissione dell’estratto esecutivo da parte della cancelleria del giudice o della Corte di Cassazione; iscrizione nel registro delle esecuzioni; calcolo della custodia cautelare subita e delle pene fungibili; adozione di provvedimento di “cumulo“; emissione dell’ordine di carcerazione; ricerche del condannato da parte della polizia giudiziaria), ma che non incidono sulla decorrenza del termine di estinzione della pena ai sensi dell’art 172 cod. pen..

Ciò posto, si notava oltre tutto come l’importanza del dato testuale, sottolineato dalla sentenza delle Sezioni Unite, n. 2 del 30/10/2014, dep. 2015, già menzionata, nei seguenti termini: «Il dato testuale […] assume, in materia, un’importanza decisiva.  Poiché il tema centrale è l’estinzione della pena per decorso inattivo del tempo, e cioè la prescrizione della stessa, l’individuazione del dies a quo è argomento nel quale la formulazione normativa, in un tema che riveste carattere sostanziale, non può che assurgere al paradigma della tipicità. Non è consentito, dunque, all’interprete percorrere vie esegetiche (per quanto anch’esse non prive di argomenti logico-sistematici) che esulino dal dato testuale assolutamente preciso e chiaro […]».

Oltre a ciò, era rilevato come non fosse esatto quanto affermato da alcune pronunce secondo cui le cause di sospensione del termine di estinzione della pena per decorso del tempo attengono necessariamente alla sentenza di condanna, essendo, al contrario, estranee al giudizio di cognizione e non sono oggetto della sentenza di condanna il rinvio obbligatorio o facoltativo dell’esecuzione delle pene detentive nei casi previsti dagli artt. 146 e 147 cod. pen., la necessità di autorizzazione da parte di altra autorità per l’esecuzione del provvedimento (l’art. 655, comma 4, cod. proc. pen. stabilisce che «l’esecuzione è sospesa fino a quando l’autorizzazione non è concessa») nonché l’esecuzione all’estero di sentenze penali italiane (l’art. 746, comma 1, cod. proc. pen. stabilisce che «l’esecuzione della pena nello Stato è sospesa dal momento in cui ha inizio l’esecuzione nello Stato richiesto e per tutta la durata della medesima»).

Tuttavia, per la Corte di legittimità, è indiscutibile che tali diverse cause, sicuramente inquadrabili nella previsione dell’art. 172, quinto comma, cod. pen., integrano circostanze indipendenti dall’attività posta in essere dagli organi deputati all’esecuzione della sentenza di condanna mentre, al contrario, l’intera procedura dell’art. 656, comma 5, cod. proc. pen. dipende da tale attività, così come la possibilità di dare esecuzione concreta alla carcerazione nei casi previsti (mancata presentazione dell’istanza di concessione di una misura alternativa nel termine di trenta giorni dalla notifica dei provvedimenti del pubblico ministero ovvero declaratoria di inammissibilità o rigetto dell’istanza tempestivamente presentata da parte del tribunale di sorveglianza) ovvero alle misure alternative alla detenzione cui il condannato è stato ammesso: il lasso temporale necessario per giungere al perfezionamento del procedimento e alla effettiva esecuzione delle decisioni adottate può variare in conseguenza del tempo necessario per l’emissione dei provvedimenti del pubblico ministero, per le ricerche del condannato in vista della notifica dei provvedimenti del pubblico ministero e, nel caso in cui l’istanza di concessione delle misure alternative sia stata ritualmente presentata, della tempestività della decisione del Tribunale di Sorveglianza, rilevandosi al contempo come si dovesse ricordare che, per alcuni passaggi della procedura, la legge stabilisce termini o indica la necessità di una rapida adozione (il pubblico ministero deve promuovere «senza ritardo» l’esecuzione, il magistrato di sorveglianza deve decidere «senza ritardo» sulla liberazione anticipata nei casi previsti dall’art. 656, comma 4-bis, cod. proc. pen., il tribunale di sorveglianza deve decidere entro quarantacinque giorni sull’istanza di concessione delle misure alternative alla detenzione) trattandosi, peraltro, di termini ordinatori.

Oltre a ciò, si riteneva come il secondo orientamento, inoltre, fosse coerente con la volontà del legislatore.

In effetti, l’istituto dell’estinzione della pena per decorso del tempo e la fissazione di un termine differente a seconda della entità della pena inflitta risponde anche a ragioni di opportunità politica atteso l’attenuarsi dell’interesse dello Stato alla punizione dei reati il cui ricordo sociale si è affievolito per il trascorrere di un periodo di tempo nel quale non si sia arrivati alla esecuzione della pena inflitta; la Relazione al Progetto definitivo del codice penale esprimeva con chiarezza tali ragioni segnalando la necessità di una soluzione equilibrata: equilibrio che si percepisce proprio con riferimento all’estinzione per decorso del tempo delle pene detentive brevi per le quali il legislatore ha abbandonato il criterio generale di un termine pari al doppio della pena inflitta, fissando un termine non inferiore a dieci anni per la pena della reclusione e a cinque anni per la pena dell’arresto (artt. 172, comma 1 e 173 cod. pen.).

La stessa Relazione giustificava la norma dell’art. 172, quinto comma, cod. pen. distinguendo tra i fatti ostativi all’esecuzione posti volontariamente dalla persona del condannato e gli eventi ostativi indipendenti dalla volontà dello stesso, escludendo per i secondi il differimento del termine di estinzione della pena («[…] sarebbe eccessivo il rigore della legge, se in simili casi rimanesse anche sospeso il decorso del tempo per l’estinzione della pena; se, cioè, esso non iniziasse il suo svolgimento o, dopo essersi iniziato, subisse un arresto a danno del condannato incolpevole dell’impedimento sopravenuto. E questa considerazione mi ha indotto a temperare il rigore del principio, dichiarando l’irrilevanza giuridica di siffatto impedimento, nel calcolo del periodo estintivo, dovendo valere la regola generale, che fissa la decorrenza di esso alla data della sentenza di condanna divenuta irrevocabile»).

Del resto, si notava come questo orientamento fosse già stato recepito, sia pure incidentalmente, dalle Sezioni Unite, n. 2/2014, che ha individuato la decorrenza del termine di estinzione della pena per decorso del tempo, in caso di esecuzione subordinata alla revoca dell’indulto, nella data di irrevocabilità della sentenza di condanna che costituisce il presupposto della revoca del beneficio e non, invece, in quella in cui è divenuta definitiva la decisione che abbia accertato la sussistenza della causa di revoca dell’indulto.

Per respingere la tesi secondo cui, in caso di revoca dell’indulto, il termine per l’estinzione della pena decorrerebbe dalla data del provvedimento di revoca del beneficio, le Sezioni Unite osservavano quanto segue: «a fronte di un dies a quo determinato per legge, il preteso rinvio del decorso della prescrizione fino al momento della (presunta) successiva eseguibilità, è argomento che, introducendo una sospensione della prescrizione non prevista, non ha basi normative e si pone come anomalo nel sistema: questo prevede invero cause di sospensione dell’esecuzione (già avviata: v. art. 656 cod. proc. pen.), ma non sospensioni della prescrizione della pena; ed invero, ancora, l’art. 172 cod. pen. prevede diversi dies a quibus (a seconda dei casi: condannato che si sottrae volontariamente all’esecuzione già iniziata; verificarsi di una condizione), ma non, come appena detto, ipotesi di sospensione del corso della prescrizione rispetto ad un inizio fissato per legge».

Il ragionamento svolto, inoltre, era completato mediante l’affermazione, sia pure incidentale, che la procedura prevista dall’art. 656, comma 5, cod. proc. pen. non determina la sospensione del termine di estinzione della pena per decorso del tempo.

L’orientamento de quo, inoltre, per la Cassazione, trovava giustificazione nei principi costituzionali e convenzionali già posti a base di quella decisione.

Le Sezioni Unite sottolineavano infatti che l’anticipazione dell’esecuzione della pena – e, quindi, della decorrenza del termine di estinzione della pena per decorso del tempo – al momento dell’avveramento della condizione risolutiva è coerente con i principi di ragionevole durata, di sollecita definizione e di minor sacrificio esigibile evincibili dagli artt. 5 e 6 CEDU mentre la soluzione opposta, imponendo di attendere il provvedimento giudiziale dichiarativo della revoca dell’indulto, fa dipendere l’eseguibilità della pena «dai tempi, i più vari e spesso lunghi, dell’attività giudiziaria diretta alla declaratoria di revoca, con due negative e non accettabili ricadute: l’essere esposto il condannato alla maggiore o minore tempestività dei provvedimenti giudiziali, con lesione del principio di uguaglianza; subire lo stesso condannato le conseguenze della revoca a maggiore distanza di tempo, così vulnerando i principi, di rango costituzionale, relativi all’effettività ed alla ragionevole durata del processo (anche della fase esecutiva, ex art. 111 Cost.), ma anche afferenti ai valori rieducativi (art. 27, secondo comma, Cost.) per cui l’esecuzione della pena deve essere il più vicino possibile alla commissione del reato ed alla definitività della condanna».

Ebbene, per la Suprema Corte, l’orientamento che sostiene l’applicabilità dell’art. 172, quinto comma, cod. pen., nel caso di sospensione dell’esecuzione delle pene detentive brevi ai sensi dell’art. 656, comma 5, cod. proc. pen., fa dipendere l’esecuzione della sentenza di condanna dal tempo necessario per i vari adempimenti previsti facendo subire al condannato gli effetti di ritardi e inefficienze, per di più attribuibili a diversi organi e non solo all’autorità giudiziaria nel senso che l’orientamento sostituisce un termine di decorrenza fisso e certo – la data di irrevocabilità della sentenza di condanna – con uno mobile e del tutto incerto, senza alcuna responsabilità del condannato, rilevandosi al contempo che un effetto del genere contrasta con i principi di ragionevole durata del processo, applicabile anche alla fase esecutiva (art. 111, secondo comma, Cost.; art. 6, primo comma, CEDU), e della finalità rieducativa della pena (art. 27, terzo comma, Cost.) in quanto l’effetto del trattamento penitenziario è possibile se l’esecuzione della stessa è temporalmente vicina alla commissione del reato e alla irrevocabilità della sentenza di condanna, e ciò riguarda anche l’esecuzione delle misure alternative alla detenzione, la cui efficacia rieducativa è senza dubbio differente se le stesse vengono eseguite a grande distanza di tempo dalla data del reato.

Anche la violazione del principio di uguaglianza, richiamato dalle Sezioni Unite, nella decisione n. 2/2014, viene, per la Corte, in evidenza, addirittura in misura maggiore rispetto alla tematica in quella sede decisa.

In primo luogo, adottando la soluzione che qui si respinge, l’esecuzione della sentenza di condanna o della misura alternativa alla detenzione può intervenire in momenti differenti anche per condannati nella medesima posizione, in conseguenza di circostanze del tutto indipendenti dalla loro volontà, quale il tempo necessario per la notifica del decreto del pubblico ministero di carcerazione e contestuale sospensione dell’esecuzione, ovvero quello di decisione sull’istanza di misure alternative alla detenzione da parte del tribunale di sorveglianza.

Ma la violazione del principio di uguaglianza può essere evidenziata confrontando la posizione, ai fini dell’estinzione della pena per decorso del tempo, dei condannati per i quali l’esecuzione della pena non può essere sospesa ai sensi dell’art. 656, comma 5, cod. proc. pen. e di quelli che, invece, accedono a tale procedura.

I primi sono difatti responsabili di reati più gravi – come dimostra la misura della pena inflitta o il loro inquadramento in quelli di cui all’art. 656, comma 9, lett. a), cod. proc. pen. – ovvero sono soggetti rispetto ai quali sussistono esigenze cautelari attuali e concrete al momento del passaggio in giudicato della sentenza di condanna (arg. ex art. 656, comma 9, lett. b), cod. proc. pen.): eppure possono lucrare – ai fini dell’estinzione della pena per decorso del tempo – sui ritardi nell’emissione dell’ordine di carcerazione e sulla incapacità della polizia giudiziaria di darvi esecuzione, poiché il termine per l’estinzione della pena decorre indefettibilmente dalla data di irrevocabilità della sentenza di condanna.

Al contrario, i condannati per i reati per i quali si applica la procedura in esame – quindi responsabili di reati meno gravi o di minore allarme sociale e per i quali non sussistono esigenze cautelari attuali – non hanno alcuna aspettativa di estinzione della pena per decorso del tempo in conseguenza dei ritardi e delle inefficienze dei vari organi coinvolti nella stessa.

In definitiva, l’esito dell’accoglimento dell’opposto orientamento, per la Suprema Corte, è paradossale e inaccettabile.

Il condannato può restare sottoposto alla minaccia dell’esecuzione della pena detentiva per un periodo indeterminato: sono incerti i tempi di notificazione al condannato dei provvedimenti del pubblico ministero (nel caso di specie, la notificazione era stata effettuata solo quando lo straniero era tornato in Italia alcuni anni dopo la sua espulsione, venendo identificato), così come quelli del suo rintraccio in caso di mancata presentazione dell’istanza di concessione delle misure alternative nel termine previsto ovvero della decisione del Tribunale di Sorveglianza nel caso che l’istanza sia stata presentata.

Le sentenze che sostengono la tesi opposta, viceversa, sembrano limitarsi a verificare l’astratta riconducibilità dei vari passaggi della procedura prevista dall’art. 656, comma 5, cod. proc. pen. alla condizione o al termine menzionati dall’art. 172, quinto comma, cod. pen..

In verità, per la Corte di legittimità, l’individuazione della decisione del tribunale di sorveglianza come avveramento della condizione o del termine tende a semplificare il quadro, che è molto più complesso essendo, infatti, diverse le condizioni che rendono possibile l’inizio della carcerazione: se l’istanza non è stata presentata entro trenta giorni dalla notifica del provvedimento del Pubblico Ministero; se, nel caso in cui venga chiesta la sospensione dell’esecuzione ai sensi dell’art. 90 T.U. Stup. da parte di persona tossicodipendente che si è sottoposta a programma terapeutico, all’istanza non sia allegata la certificazione prevista dall’art. 91, comma 2 T.U. Stup.; se, nel caso in cui venga chiesta la sospensione dell’esecuzione ai sensi dell’art. 90 T.U. Stup. da parte di persona tossicodipendente che si è sottoposta a programma terapeutico, il condannato, prima della pronuncia del Tribunale di Sorveglianza, commette un altro delitto non colposo punito con la reclusione; se, nel caso in cui sia stata presentata domanda di affidamento in prova in casi particolari ai sensi dell’art. 94 T.U. Stup., il programma di recupero previsto da detta norma non risulti iniziato entro cinque giorni dalla data della presentazione dell’istanza ovvero risulti interrotto prima della decisione del Tribunale di Sorveglianza; se, infine, il Tribunale di Sorveglianza dichiara inammissibile o respinge l’istanza di misura alternativa.

In ogni caso, la soluzione, non recepita dalle Sezioni Unite, a loro avviso, tralascia del tutto le esigenze di carattere costituzionale e convenzionale fin qui valorizzate e non tiene conto della fondamentale differenza tra le ipotesi rientranti nella previsione dell’art. 172, quinto comma, cod. pen., tutte indipendenti dagli adempimenti degli organi incaricati dell’esecuzione, e quella dell’art. 656, comma 5, cod. proc. pen., al contrario influenzata da tali adempimenti, sui quali il condannato non può in alcun modo incidere.

In definitiva, con riferimento alla seconda questione posta dall’ordinanza di rimessione, era affermato il seguente principio di diritto: “Il procedimento di esecuzione della pena detentiva, ai sensi dell’art. 656, comma 5, cod. proc. pen. non rientra in una delle ipotesi previste dall’art. 172, comma quinto, cod. pen.“.

Conclusioni

La decisione in esame è assai interessante in quanto con essa, risolvendosi un pregresso contrasto giurisprudenziale, si affrontano diverse tematiche afferenti (direttamente e indirettamente) l’art. 172 cod. pen..

Invero, in tale provvedimento, dopo un lungo e articolato ragionamento giuridico, si giungono ad affermare i seguenti principi di diritto:

a) il decorso del tempo ai fini dell’estinzione della pena detentiva, ai sensi dell’art. 172, quarto comma, cod. pen., ha inizio il giorno in cui la condanna è divenuta irrevocabile e si interrompe con la carcerazione del condannato ed esso comincia nuovamente a decorrere se il condannato, una volta iniziata la esecuzione della pena mediante la carcerazione, vi si sottragga volontariamente con condotta di evasione;

b) il procedimento di esecuzione della pena detentiva, ai sensi dell’art. 656, comma 5, cod. proc. pen. non rientra in una delle ipotesi previste dall’art. 172, comma quinto, cod. pen..

Tale sentenza, quindi, deve essere presa nella dovuta considerazione ogni volta si debba calcolare il decorso del tempo ai fini dell’estinzione della pena detentiva, ai sensi dell’art. 172, quarto comma, cod. pen., così come si dovrà adesso escludere che il procedimento di esecuzione della pena detentiva, ai sensi dell’art. 656, comma 5, cod. proc. pen. rientri in una delle ipotesi previste dall’art. 172, comma quinto, cod. pen..

Il giudizio in ordine a quanto statuito in siffatta pronuncia, proprio perché contribuisce a fare chiarezza su codeste tematiche giuridiche, dunque, non può che essere positivo.

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Sentenza collegata

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Avv. Di Tullio D’Elisiis Antonio

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