Le prove atipiche e le prove illecite

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Nella pratica la prova atipica è sinonimo di prova “non prevista come tale dall’ordinamento”, mentre l’illiceità si riferisce “ad una prova che pur essendo concretamente prevista, è affetta da vizi che ne inficiano qualche particolare aspetto”1; da un punto di vista concettuale, invece, è piuttosto difficile distinguere nettamente i due fenomeni. L’errore più comune è quello di relazionare il problema delle prove atipiche e prove illecite unicamente alla ricerca e conseguimento della verità nel processo, non preoccupandosi anche di tutelare i diritti delle parti.

L’illiceità si può riferire tanto alle prove costituende quanto a quelle precostituite e ciò comporta una diversità nella applicazione della relativa disciplina all’uno e all’altro caso. Infatti, per le prove costituende che prima di essere espletate necessitano di essere preventivamente ammesse dal giudice, l’illiceità si collega alle modalità di acquisizione nel processo, mentre per quelle precostituite in cui la sola produzione è già elemento sufficiente e necessario per l’ammissibilità della prova, l’illiceità si valuta in relazione al modo in cui tali prove siano entrate in possesso della parte.

Un primo esempio di prova precostituita procurata illecitamente era quello delle intercettazioni telefoniche da parte del marito nei confronti della moglie per controllarne la condotta morale2, oggi anche le scritture contabili cha siano state furtivamente sottratte dal lavoratore al datore di lavoro in vista del licenziamento,3 sono considerate tali.

La questione più dibattuta in materia di prove illecite, è quella che riguarda la loro utilizzabilità nel processo e infatti non mancano tendenze dottrinali contrastanti tra loro. Secondo un orientamento piuttosto recente tali prove sarebbero comunque utilizzabili, conserverebbero il loro valore e avrebbero piena efficacia perché gli strumenti attraverso i quali vengono assunte illecitamente si collocano in un momento pre-processuale, ragion per cui, l’illiceità non si ripercuote sugli atti; unito a questo la mancanza di un esplicito divieto in materia, consentirebbe di utilizzare le prove precostituite formate con mezzi illeciti4.

La tradizionale dottrina processualcivilistica, invece si è mostrata sempre molto scettica a far propria la propensione a ritenere le prove illecite comunque efficaci e producibili in giudizio, facendosi portatrice di un’opposta teoria ferma nel ritenere che non sia possibile riconoscere né attribuire efficacia probatoria a quei documenti che le parti si siano procurate illecitamente.

Infatti, la mancanza nel corpus delle disposizioni relative alle prove, di una norma che espressamente vieti l’utilizzazione delle prove acquisite illegittimamente, non è sufficiente a giustificarne l’ammissibilità.

C’è chi ha parlato a tal proposito di un “falso problema”5; le prove sono funzionali non solo a garantire un “equilibrato esercizio del potere delle parti nel processo”, ma anche alla formazione del convincimento del giudice e, quest’ultimo non consente l’utilizzazione illimitata di qualsivoglia mezzo, già la semplice violazione relativa all’acquisizione delle prove, che oltretutto non può essere sanata ai sensi dell’art. 157 c.p.c. ne esclude l’ammissibilità6.

Di questo orientamento tradizionalistico, si rinvengono tracce anche nella nostra Costituzione; la tutela dei diritti fondamentali dell’uomo, compresa la libertà personale, di domicilio, la segretezza della corrispondenza e di ogni altra comunicazione, sono assolutamente preminenti rispetto all’esigenza processualistica di ricercare e accertare la verità.

Per questo, sebbene non vi sia una norma che vieti espressamente l’utilizzo delle prove ottenute o raccolte illecitamente7, esse risultano inconciliabili con la logica costituzionale, tutta tesa alla tutela della persona e dei suoi diritti.

Le ragioni costituzionali, sono confermate da una naturale inclinazione del nostro ordinamento a rigettare qualsivoglia forma di arbitrario e violento esercizio delle proprie ragioni di cui le prove illecitamente procurate sarebbero espressione, nonché inutilizzabili sarebbero anche quelle fonti materiali di prova di cui non si ha la detenzione, assunte violando le norme processuali dell’esibizione istruttoria art. 210 c.p.c.8

L’illiceità delle prove costituende, invece, si rileva non nel modo in cui esse siano pervenute alle parti, ma si rinviene nel momento della loro acquisizione, quando questa avvenga in contrasto con i limiti indicati dalla legge, distinguendo tra prova inammissibile e irregolarità dell’assunzione.

È illecita la testimonianza resa violando le disposizioni contenute nell’art. 2721 c.c., la confessione di un soggetto che non sarebbe in grado di renderla, il giuramento deferito solo ad alcuni dei litisconsorti9, l’interrogatorio formale reso illegittimamente e le registrazioni vocali ottenute con mezzi fraudolenti o documenti scritti che siano stati sottratti al loro detentore10.

La natura bifasica del procedimento di acquisizione delle prove costituende, che prevede una fase di previa ammissione da parte del giudice e un’altra di espletamento, è stato spunto della tesi che riteneva l’invalidità dell’assunzione investisse anche l’espletamento della prova che finiva per risultare priva di valore. L’unico rimedio esperibile consisteva in un intervento del giudice teso a revocare l’ordinanza ammissiva, facendo venir meno anche l’atto di assunzione ed evitando che questo producesse ogni tipo di effetto; se invece la revoca non vi fosse stata, neppure tardivamente la prova avrebbe perso ogni efficacia in termini di utilità infatti “una prova irritualmente raccolta è sempre una prova processualmente inefficace”11.

Tuttavia recenti orientamenti giurisprudenziali, si ispirano al recupero del materiale probatorio seppure acquisito in modo illegittimo e in più, ritengono che in forza della doppia natura del procedimento che ci consente di distinguere la fase di ammissione da quella di assunzione, si debba parlare non di revoca ma di nullità dell’ordinanza di ammissione della prova illecita e solo di questa. La nullità che viene dichiarata secondo le disposizioni dell’art. 156 ss. del c.p.c.12, potrebbe ripercuotersi anche sul successivo atto di assunzione ma non qualificandosi più in termini di nullità, al massimo di irrilevanza del risultato della prova.

La questione relativa al valore da attribuirsi alle prove acquisite illecitamente nel processo civile, è tuttora irrisolta, ma le ipotesi più attendibili sono quelle che attribuiscono loro o efficacia di prove liberamente valutabili o di comportamenti materiali delle parti, valutati ai sensi dell’art. 116, 2° comma, c.p.c.

Il giuramento deferito solo ad alcuni dei litisconsorti, anche se l’art. 2738, 3°comma, del c.c. si esprime più propriamente riferendosi ad un giuramento “prestato ad alcuni soltanto dei litisconsorti”, in quanto vincolante solo per alcune delle parti e non per altre, non può essere rilevante ai fini della decisione; ne deriva la necessità di considerarlo non come prova legale ai sensi dell’art. 2736, ma come prova liberamente valutabile o al massimo come comportamento di “mero fatto” secondo la disciplina prevista dall’art. 116, 2° comma, c.p.c.13.

Ogni qualvolta fosse stato ammesso un interrogatorio avvenuto illegittimamente, era necessario distinguere i due momenti che lo componevano cioè l’agire delle parti nel processo e il risultato di tale azione, dei due solo quest’ultimo sarebbe stato inidoneo a fondare il convincimento del giudice, perché irrilevante; l’agire delle parti invece, né nullo né inesistente o irrilevante anzi, avrebbe assunto il valore del comportamento processuale di cui all’art. 116, 2o comma, c.p.c.

Questo ragionamento partiva dalla constatazione che l’irrilevanza del risultato dell’azione, non si estendeva anche all’agire della parte.

Lo schema logico di riferimento era quello dell’art. 1424, c.c. che prevedeva un fenomeno di conversione di quella prova che non doveva essere ammessa ma che comunque, forniva elementi utili a formare il convincimento; non sono mancate osservazioni sfavorevoli a riguardo, era diffusa l’idea che il richiamo a questo istituto di diritto privato, inteso in senso formale o sostanziale, rischiasse di rivelarsi una forzatura14.

Della questione relativa all’ammissibilità di un interrogatorio formale acquisito illegittimamente, si era già occupato il Tribunale di Perugia15, consentendo per la prima volta di affrontare il problema delle “prove esperite in contrasto con un divieto di legge”16. L’orientamento del Tribunale di Perugia che si evinceva dalla lettura della motivazione della sentenza, si mostrava favorevolmente incline alla ammissibilità dell’interrogatorio formale reso contrariamente alle disposizioni di legge o oltre i limiti da essa stabiliti, considerandolo valutabile alla stregua di un indizio, se non fosse stato possibile stimarlo come confessione giudiziale. Quest’ultimo passaggio della motivazione dell’ordinanza ammissiva, aveva evidenziato una contraddizione del ragionamento fatto dal magistrato perugino il quale, ritenendo non condivisibile la tesi della non ammissibilità dell’interrogatorio formale, se non come mezzo idoneo a formare una confessione giudiziale, applicava un criterio diverso e opposto. Tale criterio prevedeva che una prova sebbene fosse stata raccolta illecitamente, sarebbe comunque stata idonea ad assolvere la specifica funzione di “salvaguardia del fatto compiuto”; in altri termini una prova pur non potendo essere ammessa, avrebbe comunque prodotto gli effetti suoi propri.

Nel caso dell’interrogatorio questo avrebbe avuto comunque valore di prova liberamente apprezzabile.

Neanche questo ragionamento, sembrava pienamente condivisibile, per l’insita contraddizione che ne derivava e che si poteva facilmente evincere attraverso una logica deduzione: discutere circa l’ammissibilità dell’interpello e ritenerlo ammissibile, se e quando questo fosse reso nel rispetto dei limiti indicati dalla legge, non giustificava l’ammissibilità e l’efficacia che gli venivano attribuiti, seppur in grado minore, quando invece fosse stato formato per isbaglio o comunque contra legem17.

In realtà non è da ritenersi grave l’acquisizione illegittima dell’interrogatorio formale, essendo privo il nostro ordinamento di una disciplina indicativa dei limiti “oggettivi” e “soggettivi” necessari per la sua ammissibilità18.

Negli ultimi anni si è registrato un cambiamento nella valutazione dell’efficacia delle prove illecite, perché si renda ammissibile la dichiarazione resa dai terzi che sia stata formata illegittimamente, si prende spunto dalla circostanza che se la testimonianza depositata in violazione dei limiti di cui all’art. 246, c.p.c. rientra nel catalogo delle prove atipiche, non vi è ragione per cui non si considerino prove atipiche anche le dichiarazioni dei terzi assunti illecitamente. “Non è condivisibile in questo caso la tesi che assimila le dichiarazioni rese dalle parti al di fuori dei limiti stabiliti dalla legge, agli argomenti di prova, facendole rientrare attraverso la finestra del contegno delle parti”19.

L’attribuzione di efficacia ad una prova che sia stata ammessa illegittimamente, non può derivare neanche dal principio del libero convincimento del giudice, perché questo può applicarsi soltanto alle prove che siano state assunte nel rispetto delle regole e dei limiti indicati dalla legge. Vale l’equazione prova irritualmente ammessa = prova processualmente inefficace.

La disciplina relativa alle prove illecite si diversifica ovviamente per il processo civile e per quello penale; il processo genericamente inteso è finalizzato alla ricerca della verità eppure, nonostante il fine comune il processo civile risulta maggiormente limitato rispetto a quello penale in cui non si rinvengono divieti come quelli di cui all’art 2721c.c., “non sussistono limiti alla capacità di confessare, perché nel giudizio penale la confessione non è prova legale”20. Per le prove costituende che siano state raccolte irritualmente, il processo civile e quello penale sono accomunati dalla presenza di un “provvedimento ammissivo” del mezzo di prova illecito, che favorendone l’assunzione trasgredisce ad un principio di legge e compromette l’efficacia stessa della prova “entrata a far parte del materiale istruttorio”.

Quando si tratti delle prove precostituite, la illiceità, invece, si ripercuote su un momento precedente a quello della produzione; nel processo penale, il raggiungimento della verità sostanziale è l’ostacolo maggiore a ché la valutazione dell’illiceità dei fatti si traduca in una vera a e propria inammissibilità 21.

La disciplina relativa alle prove illecite, illegittime o assunte con mezzi incostituzionali, dovrebbe presupporre una “regola di esclusione, che dovrebbe sancire, con una sanzione ad effetti automatici ed incondizionati, oppure con una sanzione applicabile caso per caso dal giudice in base al suo prudente apprezzamento”, l’inutilizzabilità nel processo di tutte le prove che, pur essendo rilevanti per giungere all’accertamento della verità e quindi alla decisione finale, siano state assunte illecitamente, con mezzi illegittimi, in violazione dei diritti che sono costituzionalmente protetti o dei limiti previsti dalle disposizioni di legge processuale o dal diritto in genere.

Questa regola di esclusione è il frutto di una “mediazione normativa” delle singole previsioni di legge, ordinarie e costituzionali, che nel processo attraverso regole o divieti probatori sanciscono l’inutilizzabilità e quindi la conseguente esclusione di determinate prove, quando siano state assunte contrariamente ai principi costituzionalmente garantiti o alle disposizioni normative22.

Le rules of exclusion, come furono elaborate dalla tradizione statunitense, nonostante la revisione che di esse è stata fatta, non risolvono la questione delle prove illecite nel processo penale23, né tanto meno nel processo civile.

Nel processo civile, la mancanza di regole di esclusione, rende necessario rimettere alla sensibilità dei giudici l’inutilizzabilità di quelle prove assunte contra legem.

1 Ricci , Le prove illecite nel processo civile, Riv. trim., 1987, p. 34.

2 Costituivano prove illecitamente assunte anche “le lettere da terzi alla moglie e dalla moglie a terzi intercettate dal marito violando il segreto epistolare” a meno che non si trattasse di un attività compiuta nell’esercizio della potestas maritalis riconosciuta dalla legge del tempo; in ugual modo “la lettera scritta ed inviata ad un terzo da colui che è convenuto come debitore non può servire all’attore creditore come principio di prova scritta se egli la tolse al destinatario con mezzi illeciti”.

3 Graziosi, Usi e abusi di prove illecite e prove atipiche nel processo civile, in Riv. trim., 2011, p. 700, sono prove procurate illecitamente anche “lettere o mail trafugate per dimostrare l’entità patrimoniale del coniuge o sostenere l’ipotesi del soggetto incaricato di rubare o sottrarre con violenza o minaccia, all’imprenditore concorrente, i documenti commerciali da utilizzare in un giudizio per concorrenza sleale”.

4 Ricci, Le prove illecite nel processo civile, cit., p. 70.

5 Protopisani, Lezioni di diritto processuale5, II, Napoli, 2006, p. 437.

6 Proto Pisani, Appunti sulle prove civili, cit., p. 74.

7 Mandrioli, Diritto processuale civile20, II, Torino, 2009, p. 81, nel nostro ordinamento non vi sono espresse disposizioni che vietino l’utilizzabilità di queste prove, l’art. 11, 1° comma della legge organica del potere giudiziario spagnola, propende per l’inefficacia delle prove che sia assunte contro i diritti fondamentali della persona.

8 Graziosi, Usi e abusi di prove illecite e prove atipiche nel processo civile, cit., p. 702 ss.

9 Ricci, Le prove illecite nel processo civile, cit., p. 36 s .

10 Montanari, in Codice di procedura civile commentato4, a cura di Consolo, Milano, 2010, p. 1410, l’A. identifica il fenomeno delle prove atipiche al procedimento di formazione e acquisizione di mezzi di prova che sono riconducibili a specifiche fattispecie legali, ma che sono assunti contrariamente al principio del neminem ledere, ai principi costituzionali e alle garanzie di legge in genere.

11 Allorio, Efficacia giuridica di prove ammesse ed esperite in contrato con un divieto di legge cit., 1960 p. 868; secondo l’A. affinché una prova costituenda sia efficace in sede di formazione del convincimento del giudice, è necessario che il procedimento probatorio sia completo quindi che consti sia del provvedimento ammissivo della prova, sia dell’atto di istruzione probatoria che dà esecuzione al provvedimento ammissivo e che il giudice eserciti il proprio sindacato su entrambi. L’ovvia deduzione è che non è sufficiente che la prova sia stata solo ritualmente raccolta ma che prima sia stata anche ritualmente ammessa. L’A. poi instaura un’analogia tra l’atto giuridico con oggetto non consentito (categoria di atto viziato tipica del diritto privato) sanzionato con l’invalidità perla mancanza di un requisito e il provvedimento processuale avente un oggetto inidoneo.

12 Mandrioli, Diritto processuale civile10, cit., p. 82, mentre la recente giurisprudenza ha ritenuto che alle prove illecite dovrebbe applicarsi la disciplina della nullità relativa, ai sensi dell’art. 156, 1° comma, c.p.c. la dottrina riferendo l’art. 156 solo ai vizi formali, si orienta verso un inquadramento del fenomeno nella sfera della nullità assoluta.

13 Ricci, Le prove illecite nel processo civile, cit., p. 52 ss.

14 Cappelletti, Efficacia di prove illegittimamente ammesse e comportamento della parte, Milano, 1963, p. 175, la conversione può aver luogo quando le parti al posto del negozio viziato, avrebbero voluto il negozio diverso. Tuttavia non è detto che il giudice che avendo conoscenza dell’inammissibilità dell’interrogatorio formale o del giuramento e che avrebbe dovuto necessariamente disporre l’interrogatorio libero, scelga proprio questa via anziché ad esempio optare per la altri mezzi di prova. Anche il richiamo alla conversione formale che realizza un’automatica sostituzione del negozio con un atro, a patto che il primo abbia i requisiti di forma anche del secondo senza che sia necessaria la volontà delle parti, ha incontrato parecchie critiche perché se i casi di conversione formale sono espressamente previsti dalla legge non sempre si verifica la circostanza che l’interrogatorio o il giuramento abbiano i medesimi requisiti dell’interrogatorio libero.

15 Allorio, Commento a Trib. Perugia 25.01.60, in Giust. Civ., 1960, p. 867 s., “l’interrogatorio formale, in quanto diretto a provocare la confessione giudiziale, può essere deferito solo alla parte che ha una posizione antitetica e contrastante. rispetto agli interessi in lite. Il giudice ha il potere di escludere l’interrogatorio formale quando la parte interrogando non potrebbe rendere la confessione sui fatti che ne formano oggetto”.

16 Allorio, Efficacia giuridica di prove ammesse ed esperite in contrasto con un divieto di legge, cit., p. 867.

17 Allorio, op. loc. cit., p. 868, secondo l’A. infatti si faceva portatore della tesi secondo cui se il magistrato per errore ritenesse ammissibile la testimonianza di una persona incapace a testimoniare (art 246 c.p.c.) o quella resa in violazione di un divieto a testimoniare, quella deposizione non potrebbe essere in alcun modo raccolta dal giudice per formare il suo convincimento. Allo stesso modo se venisse ammesso il giuramento su un fatto illecito contrariamente a quanto stabilito dall’art. 2739 o che la parte ricusi di prestarlo, non possono ripercuotersi su si essa le conseguenze della mancata prestazione del giuramento.

18 Reali, L’interrogatorio delle parti nel processo civile, Bari, 2009, p. 173 ss., alcuna legge stabilisce i limiti nel rispetto dei quali l’interrogatorio può dirsi ammissibile, pertanto e rimessa alla discrezionalità del giudice la valutazione di ammissibilità dell’interrogatorio. Tuttavia, sia la dottrina che la giurisprudenza si orientano nel senso di ritenere comunque esistenti alcune limitazioni vertenti su:

a)“ fatti non sfavorevoli all’interrogando”;

b) “fatti relativi a diritti disponibili”;

c) “fatti precedentemente negati dall’interrogando”;

d) “fatti illeciti”;

e) “fatti per cui è richiesta la prova scritta ad substantiam”.

19 Maero, Le prove atipiche nel processo civile, cit., p. 127, “accanto alle dichiarazioni delle parti il nostro legislatore” considera anche il “contegno delle parti nel processo” per tale intendendosi il comportamento processuale delle parti potendo il giudice desumerne argomenti di prova.

20 Ricci, Le prove illecite nel processo civile,cit., p. 50.

21 Allorio, Efficacia giuridica di prove ammesse ed esperite in contrasto con un divieto di legge, cit., p. 872.

22 Comoglio, Le prove civili, Torino, 1998, p. 24 ss., la regola di esclusione presuppone l’elaborazione di diversi concetti, in primis prevede che la prospettiva processuale non possa mai ed in alcun modo mostrarsi del tutto indifferente ai diritti e ai valori fondamentali della persona; implica l’imparzialità “l’integrità funzionale anche quando sia in gioco l’interesse superiore alla repressione dei crimini e alla reintegrazione dell’ordine sociale violato”; l’accertamento della verità, non deve avvenire a qualunque costo, ad esempio a discapito dei valori e delle garanzie costituzionalmente garantite.

23 Comoglio, op. loc. cit., p. 36 ss., il processo penale infatti non si è mai mostrato particolarmente favorevole ad un modello fondato su “implicite regole di esclusione” ma sulla base dell’art. 191 c. p. p. quale norma di chiusura adotta una posizione fondata sulla tipicità e tassatività dei divieti probatori”, affiancando al riconoscimento della possibilità di ammettere prove atipiche una regola di inutilizzabilità delle prove illegittime” o acquisite in contrasto ai divieti stabiliti dalla legge. L’inutilizzabilità dovrebbe operare anche nel silenzio delle singole disposizioni sulle prove quando sia comunque implicito un divieto probatorio, ricollegandosi ad una illegittimità in sé delle prove,anche se più che di inutilizzabilità vera e propria sarebbe più idoneo parlare di nullità degli atti processuali se la prova non ricada in alcun divieto stabilito dalla legge dovendosi considerare “illegittima in sé per sé”.

Borrillo Serena

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