Le opinioni espresse dal lavoratore tra diffamazione e diritto di critica

Redazione 01/07/04
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Dott. Francesco Di Pietro 

§ 1. Premessa: le cause di giustificazione nei delitti contro l’onore – § 2. La libertà di opinione del lavoratore – § 3. I limiti della libertà – § 4. I limiti della libertà di critica nei confronti del datore di lavoro – § 5. Rapporto tra azione penale ed azione disciplinare.

§ 1. Premessa: le cause di giustificazione nei delitti contro l’onore.
Nei delitti contro l’onore trovano larga applicazione le esimenti comuni, affiancate anche da esimenti e da cause di non punibilità speciali. Così il giudizio conclusivo dell’antigiuridicità di molti fatti lesivi dell’onore e della reputazione finisce spesso per dare esito negativo, a seguito di una più ampia valutazione che li pone in relazione con le ipotesi scriminanti legalmente determinate (comuni e speciali) e, tramite esse, con norme reperibili nell’ordinamento giuridico complessivo, che in realtà autorizzano o impongono quei fatti stessi.
Il fondamento delle cause di giustificazione è, in questa materia, il bilanciamento degli interessi contrapposti, ovvero il conflitto che, in date situazioni, ha il bene giuridico onore (e reputazione) con altri interessi da ritenere prevalenti in quanto di carattere più generale: primo fra tutti il diritto alla libera manifestazione del pensiero[1].
Tra le scriminanti comuni ricorrono con particolare frequenza l’adempimento di un dovere e l’esercizio di un diritto di cui all’art. 51 c.p., che sono la più tipica espressione sul piano logico giuridico dell’esigenza di non contraddizione dell’ordinamento.
All’esercizio di un diritto viene ricondotta un’ampia gamma di situazioni:
finalità di biasimo derivante dall’esercizio di poteri disciplinari fondati su rapporti di lavoro, di famiglia, d’associazione (soprattutto in forma di partito);
compimento di atti nell’esercizio di un ministero spirituale, purché non esorbitanti dagli stessi poteri (e qualità) convenzionalmente riconosciuti, e sempre che non siano stati violati i doveri inerenti alla qualità di ministro del culto;
facoltà inerenti al settore dell’informazione commerciale, purché esercitate regolarmente nei modi consentiti dalla legge o dalla consuetudine;
facoltà di proposizione di ricorsi amministrativi, oggettivamente diffamatori, o di esposti all’autorità, diretti a sollecitarne l’intervento (purché questo sia legalmente ammissibile ed i fatti siano veri, o giustificatamene ritenuti tali, nonché pertinenti).
Tuttavia, la più importante facoltà che passa per l’art. 51 c.p. (esercizio di un diritto) è quella di libera manifestazione del pensiero di cui all’art. 21 Cost.[2].
Corollario di essa sono i diritti di cronaca e di critica. La critica consiste “in un’attività razionale di contrapposizione di idee e convincimenti; pertanto, quale filiazione del diritto di opinione (costituzionalmente garantito) che si estrinseca nella esplicitazione di giudizi sull’altrui operato o comportamento obiettivo, non può scaturire direttamente da sentimenti di avversione, animosità o da posizione assunte su (o riconducibili a) mera emotività”[3]: censura e critica affondano le radici sulla ragionata disamina e valutazione dei fatti[4].

§ 2. La libertà di opinione del lavoratore.
Nelle comuni dispute di lavoro, prevalentemente di carattere sindacale, è facile imbattersi in situazioni conflittuali che originano situazioni critiche di una parte nei confronti dell’altra. In tali situazioni, la critica e la censura del lavoratore subordinato, delle OO.SS., delle R.S.A. o di attivisti sindacali (come il contrapposto diritto di replica del datore di lavoro[5]) trovano la loro causa di giustificazione nel comma 1 dell’art. 51 c.p.: esercizio di un diritto[6], che, a sua volta, richiama, oltre la generica libertà di manifestazione del proprio pensiero di cui all’art. 21 Cost., la più specifica libertà di opinione di cui all’art. 1 della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Statuto dei lavoratori).
Tale disposizione riconosce in favore dei lavoratori il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero senza distinzione di opinioni politiche, sindacali o di fede religiosa; è un riconoscimento che, pur riaffermando un diritto fondamentale della persona già riconosciuto in favore di “tutti” dall’art. 21 Cost., opera “una specifica ricognizione nell’ambito di un tipico rapporto di diritto privato connotato dall’esercizio di poteri privati”[7]. La disposizione è inoltre attuativa della prescrizione dell’art. 2 Cost. che impegna la Repubblica a riconoscere e garantire i diritti inviolabili dell’uomo anche all’interno delle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, “quale appunto deve considerarsi l’azienda dove il lavoratore presta la sua attività”[8].
Tale libertà può essere esercitata con qualsiasi mezzo di diffusione del pensiero: la norma non fa alcuna limitazione (a differenza dell’art. 21 Cost.). L’esternazione può quindi avvenire con la parola o con lo scritto (un volantino, un giornale, un foglio di informazione aziendale) o con altri strumenti di diffusione (quali i mezzi di amplificazione). E’ però vietata l’affissione murale, che rimane nella esclusiva disponibilità del datore di lavoro (salvo il suo consenso)[9].
L’ambito oggettivo di questa libertà non è limitato alla materia politica, religiosa o sindacale, espressamente menzionata dall’art. 1 dello Statuto, ma coincide con l’area coperta dalla garanzia approntata dall’art. 21 Cost.[10].
I soggetti titolari della tutela sono indistintamente tutti i lavoratori; tra questi si è ritenuto che non rientrino i lavoratori sospesi perché posti in cassa integrazione. Il diritto, pur essendo individuale, può essere esercitato collettivamente da una pluralità di lavoratori[11].
Tale disposizione non prevede nessuno strumento di tutela, ma qualora la condotta del datore di lavoro diretta a compulsare il diritto di manifestazione del pensiero del lavoratore si traduce in un attività giuridica, ne deriva l’illiceità della stessa: sono quindi illegittimi il licenziamento o la sanzione disciplinare che trovino ragione nella manifestazione del pensiero da parte del lavoratore.
Meno agevole è individuare la tutela qualora l’azione illecita del datore di lavoro non si traduce in un’attività giuridica (salvo che si versi in condotte penalmente illecite: violenza privata, danneggiamento). E’ però ammesso il provvedimento d’urgenza ex art. 700 c.p.c.[12]. Manca invece una tutela penale, poiché la violazione dell’art. 1 dello Statuto dei lavoratori non costituisce reato.
Anche se i soggetti garantiti dalla disposizione sono i singoli lavoratori, normalmente la violazione da parte del datore di lavoro della libertà di opinione viene in rilievo sotto il profilo della condotta antisindacale che consente di attivare le procedure di cui all’art. 28 dello Statuto dei lavoratori[13].

§ 3. I limiti della libertà.

L’art. 1 dello Statuto dei lavoratori individua in modo generale i limiti della tutela nel “rispetto dei principi della Costituzione e delle norme della presente legge”.
Una prima specificazione di questi limiti discende dallo stesso obbligo di espletare la prestazione lavorativa: il diritto di manifestazione del pensiero nei luoghi di lavoro non autorizza certo la sospensione a tal fine del normale svolgimento delle mansioni assegnate.
La giurisprudenza ha inoltre individuato il limite del pregiudizio del normale svolgimento dell’attività aziendale.
Il problema dei limiti della tutela in esame si è posto soprattutto per l’attività di volantinaggio: prima dello Statuto la giurisprudenza lo considerava vietato; successivamente ne ha riconosciuto la piena legittimità (rimangono però esclusi i volantini anonimi se non in regola con la legislazione sulla stampa).

§ 4. I limiti della libertà di critica nei confronti del datore di lavoro.

Il problema dei limiti della tutela in esame ha poi una sua specificazione quando la manifestazione del pensiero significhi critica (che è ricompresa nella prima[14]) mossa nei confronti dello stesso datore di lavoro.
Da una parte occorre che la critica rimanga nell’ambito del lecito, senza sconfinare nell’ambito della diffamazione, che, essendo un reato, è interdetta al lavoratore come a chiunque altro: è quindi da stabilire il confine tra i due ambiti.
Da un’altra parte c’è una possibile incidenza (variamente apprezzata dalla giurisprudenza) sul vincolo fiduciario che lega datore di lavoro e prestatore; il che finisce anche per limitare tale libertà.
E’ bene esaminare questi ordini di limiti con riferimento ad alcuni casi di specie.
Secondo Cass. 25/2/1986 n. 1173 (in FI, 1986, I, 1877, con nota di MAZZOTTA), al fine di stabilire se rientra nella libertà in questione la diffusione di notizie che discreditano il datore di lavoro e la sua attività[15], si deve considerare:
a) se i comportamenti addebitati si traducano in obiettiva lesione della reputazione dell’impresa e dei suoi dirigenti;
b) se le accuse (in ipotesi) infamanti siano state espresse per la realizzazione di interessi giuridicamente rilevanti;
c) se le modalità e l’ambito di diffusione delle notizie siano ragionevolmente adeguati alla protezione di tali interessi;
d) se i fatti denunziati siano in parte o in tutto veri e come tali apprezzati dai diffusori;
Quindi, si configura l’atto illecito (con possibilità di recesso del datore di lavoro e/o di configurabilità del reato di diffamazione) quando la condotta, imputabile al suo autore a titolo di dolo o di colpa, “non trovi, per modalità ed ambito delle notizie fornite e dei giudizi formulati, adeguata e proporzionale giustificazione nell’esigenza di tutelare interessi di rilevanza giuridica almeno pari al bene oggetto dell’indicata lesione”[16].
Con riferimento al requisito di Cass. 1173/1986 sub lettera a), perché ci sia un’effettiva lesione della reputazione, si deve tenere in considerazione che la personalità dell’uomo (di cui la reputazione è una componente[17]) essenzialmente si estrinseca nella comunicazione che, a sua volta, costituisce il nucleo di sviluppo della socialità; con la conseguenza “della effettualità autolesiva e al limite autodistruttiva per la personalità dell’agente di ogni comportamento antisociale”[18].
Con riferimento alla lettera b), il fine delle affermazioni infamanti potrebbe benissimo essere la tutela di un interesse costituzionalmente rilevante quale il posto di lavoro di cui all’art. 4 Cost., che ha una rilevanza, nella scala gerarchica dei valori costituzionali, pari (in ogni modo espressa) a quella della personalità umana di cui all’art. 2 Cost. (valore di cui il datore di lavoro lamenta la lesione, sub specie della propria reputazione)[19].
Secondo una precedente giurisprudenza di legittimità (Cass., sez. lav., 17/5/1979 n. 2846, in MGL, 1980, 225, con nota di MEUCCI), non rientrano nella libertà di opinione gli “apprezzamenti resi dal dipendente sui propri superiori, nel corso di un’assemblea sindacale, ove essi travalichino i limiti della critica, ancorché vivace, ed assumano un contenuto denigratorio e minaccioso, tale da incidere sulla possibilità di prosecuzione del rapporto”[20].
La giurisprudenza più recente (Cass. 15/1/1997 n. 360) ha ritenuto integrato il presupposto del giustificato motivo di licenziamento con riguardo ad un comportamento concretatosi nella diffusione di un volantino con cui si addebitavano al datore di lavoro scorrettezze rivelatesi inesistenti.
Chiaramente i comportamenti descritti in queste ultime due pronunce divergono dai requisiti richiesti da Cass. 1173/1986 (sul piano delle modalità di esternazione e della verità dei fatti).
Per quanto concerne la giurisprudenza di merito, si registrano posizioni altalenanti.
Secondo Trib. Napoli 20/1/1990 (in L, 80, 1990, 526), rientra nella libertà di opinione il comportamento del dipendente che affigge ai muri di recinzione dello stabilimento manifesti aventi un contenuto diffamatorio nei confronti dell’azienda se essi siano sottoscritti da un partito politico al quale il lavoratore aderisca come cittadino nell’esercizio delle sue prerogative politiche.
Secondo Pret. Torino 18/6/1991 (in OGL, 1991, 939), l’affissione di un manifesto con scritte ingiuriose e minacciose nei confronti dell’azienda non è legittima espressione della libertà di manifestazione del pensiero di cui all’art. 1 dello Statuto dei lavoratori; è quindi legittimo il licenziamento per tale ragione intimato al dipendente[21].
Secondo Pret. Milano 14/4/1993 (in RCDL, 1993, 872), sono legittime le critiche rivolte dai dipendenti all’operato del datore di lavoro ove non contengano espressioni ingiustificatamente accusatorie (tale è stata ritenuta la denuncia di comportamenti persecutori e di attacchi personali dei dirigenti amministrativi in danno di alcuni dipendenti).
Secondo Pret. Milano 3/3/1993 (in RCDL, 1993, 943) è illegittima, quindi sanzionabile disciplinarmente, una critica diffamatoria del datore di lavoro, seppur effettuata fuori dallo stabilimento della prestazione lavorativa[22].
Secondo Trib. Frosinone 8/10/1986 (in FI, 1987, I, 948), non costituisce giusta causa di licenziamento la diffusione da parte del prestatore di notizie volte obiettivamente a discreditare il datore di lavoro, accusato di inefficienze, sperpero e di porre a repentaglio l’incolumità degli utenti (nel caso si trattava di dipendenti di una clinica privata) una volta che si accerti la veridicità dei fatti denunciati, l’assenza di una volontà diffamatoria, il perseguimento di un interesse giuridicamente rilevante (diritto alla salute di cui all’art. 32 Cost.) e la congruenza, rispetto alla protezione di tale interesse, delle modalità di diffusione delle notizie[23].
Analogamente, Pret. Palermo 1/12/1990 (in RCDL, 1992, 245, con nota di MUGGIA) ha ritenuto che le critiche mosse dal delegato sindacale nei confronti del datore di lavoro non hanno carattere diffamatorio e non ne legittimano il licenziamento qualora afferiscano a problematiche di natura sindacale e non siano state espresse con toni di particolare violenza verbale.
Al contrario, Pret. Torino 18/7/1991 (in OGL, 1991, 939) ha ritenuto che non può essere considerata legittima espressione della libertà di manifestazione del pensiero (tutelata dall’art. 1 dello Statuto dei lavoratori), l’affissione di un manifesto con scritte ingiuriose e pesanti minacce nei confronti dell’organizzazione aziendale: ne consegue la legittimità del licenziamento.

§ 5. Rapporto tra azione penale ed azione disciplinare
La reazione sul piano delle obbligazioni contrattuali o la sanzione disciplinare possono pacificamente accompagnarsi alla normale azione penale per diffamazione, così come possono esserne completamente disgiunte[24]. Al riguardo, tuttavia, si deve far presente che non sono mancate decisioni isolate che hanno considerato l’azione disciplinare in qualche modo condizionata da quella penale ed altre che hanno addirittura negato al datore di lavoro (in caso di simile offesa) il ricorso al potere di sanzione sul piano contrattuale; la negazione, in tal caso, è stata sostenuta con l’argomentazione per cui accordare tale facoltà, concorrente con le forme di tutela valide per tutti i cittadini, significherebbe riconoscere la sussistenza di “cittadini con più onore di altri, in piena violazione con l’art. 3 Cost.” (Pret. Milano, 14/12/1971, in OGL 1972, 110). Ma, una costante giurisprudenza costituzionale ha sempre mitigato l’assolutezza del principio di eguaglianza in relazione a situazioni differenziate, le quali certamente sussistono nel reato di offesa intercorsa tra un cittadino ed un altro a lui estraneo e tra un cittadino-datore di lavoro ed un altro vincolato a lui da un rapporto di lavoro subordinato[25].
In ultimo, è interessante citare il recente d.l. 16 marzo 2004, n. 66 (Interventi urgenti per i pubblici dipendenti sospesi o dimessisi dall’impiego a causa di procedimento penale, successivamente conclusosi con proscioglimento), che dà attuazione alla previsione contenuta nella legge finanziaria per il 2004 con la quale viene sancito e disciplinato il reintegro in servizio, nella funzione o nell’impiego, del pubblico dipendente prosciolto in sede di procedimento penale.

Note:

[1] “Dal principio secondo il quale il diritto di critica deve essere esercitato entro i limiti oggettivi fissati alla logica concettuale e dall’ordinamento positivo non può desumersi che la critica sia sempre vietata quando può offendere la reputazione individuale, dovendosi invece ricercare il bilanciamento dell’interesse individuale alla reputazione con l’interesse alla non introduzione di limitazioni all’esplicazione della formazione del pensiero costituzionalmente garantito. L’ambito assegnato al lecito esercizio del diritto di critica deve ritenersi particolarmente ampio se costituisce manifestazione dell’esercizio dei diritti attribuiti al socio nella riunione dell’assemblea ordinaria di una società finanziaria di telecomunicazioni soggetta a controllo pubblico. La rilevanza collettiva dei temi affrontati e gli usi sociali comunemente accettati consentono di collocare la soglia della lesione dell’onore e della reputazione della società su un livello più elevato del consueto”. Cfr. Trib. Torino, 21/4/1998, in Dir. Informazione e Informatica, 1999, 61.
“Ogni qualvolta si pone un possibile contrasto tra il principio di libertà di manifestazione del pensiero sancito dall’art. 21 Cost. e quello di tutela dei diritti alla persona, garantito dall’art. 595 c.p., dovrà procedersi – ad opera dell’interprete, in primo luogo del giudice, ad un giudizio di comparazione e prevalenza, alla stregua dei criteri previsti dalla legge o che si desumono dai principi dell’ordinamento. E allorché si ritenga prevalente il secondo principio, la tutela dovrà essere piena, conformemente alle norme dell’ordinamento, e – in primo luogo – del principio costituzionale espresso dall’art. 24 Cost., il diritto di difesa”. Cfr. Trib. Napoli, 17/12/2001, in Dir. Informazione e Informatica, 2001, 893
[2] “Nei reati contro l’onore, la verità della qualifica o del fatto attribuito non elimina di per sé il carattere offensivo dell’azione; in ogni caso, però, i delitti di ingiuria e di diffamazione non sussistono quando l’offesa all’altrui personalità morale non risulti oggettivamente illegittima, ma sia invece giuridicamente lecita o penalmente indifferente per la presenza di cause di giustificazione, anche non codificate, quali sono, tra le altre, l’adempimento di un dovere, l’esercizio di diritti soggettivi o di facoltà legittime e il consenso dell’avente diritto; con particolare riferimento alla diffamazione, alla stregua dell’art. 21 cost. che garantisce a chiunque il diritto alla libera manifestazione del pensiero, nel caso di una persona che dia notizia di fatti veri offensivi dell’altrui reputazione, l’illegittimità dell’azione resta esclusa quando la facoltà di informazione risulti esercitata per necessità o comunque per ragioni che valgano a legittimarla, come possono essere l’interesse oggettivo alla comunicazione diffamatoria di colui che ne è l’autore e di coloro che ne sono i destinatari”. Fattispecie relativa a comunicazione diffamatoria ritenuta ingiustificata poiché fatta in un colloquio svoltosi non solo con persona interessata, ma con altre due persone estranee. Cfr. Cass., V, 19/6/1992, in MCP, 1993, 1, 89.
[3] MEUCCI, nota a Cass., sez. lav., 17/5/1979, n. 2846, in MGL 1980, 225.
[4] “Il diritto di critica, come ogni diritto, deve essere esercitato entro i limiti oggettivi fissati dalla logica concettuale e dall’ordinamento positivo. Tuttavia, da questo principio non può trarsi l’illazione che la critica sia sempre vietata quando può offendere la reputazione individuale. Occorre, invece, ricercare un bilanciamento dell’interesse individuale alla reputazione con l’interesse generale che non siano introdotte limitazioni alla libera formazione del pensiero costituzionalmente garantita. Il bilanciamento sta nel fatto che la critica, diversamente dalla cronaca, soggiace al limite dell’interesse pubblico o sociale ad essa attribuibile quando si rivolge a soggetti che tengono comportamenti o svolgono attività che richiamano su di essi l’attenzione dell’opinione pubblica”. Cfr. Cass. civ., III, 27/4/1998, n. 4285, in GI 1999, 7, con nota di FACCI.
Si veda inoltre: Cass. civ., III, 22/1/1996, n. 465, in NGC 1997, I, 312, con nota di CONTI.
[5] Secondo Cass., V, 1984, n. 163221, non sussiste il reato di ingiurie, qualora un superiore gerarchico usi nei confronti di un dipendente un’espressione che abbia il significato di un richiamo, sia pure vivace e colorito, per una maggiore efficienza del servizio, affinché il dipendente medesimo si adegui alle modalità già disposte secondo criteri di funzionalità di intervento, imposti dalla natura del servizio.
Secondo Cass., I, 1997, n. 209439, in tema di ingiurie, affinché una doverosa critica da parte di un soggetto in posizione di superiorità gerarchica ad un errato o colpevole comportamento, in atti di ufficio, di un suo subordinato, non sconfini nell’insulto a quest’ultimo, occorre che le espressioni usate individuino gli aspetti censurabili del comportamento stesso, chiariscano i connotati dell’errore, sottolineino l’eventuale trasgressione realizzata.
[6] Nel caso in cui non sussista la scriminante comune, con conseguente configurabililità dell’illecito penale (salva l’insussistenza dell’elemento soggettivo del reato), vengono in tali situazioni in rilievo le circostanze attenuanti di cui al punto 1) dell’art. 62 c.p., motivi di particolare valore morale e sociale. Cfr. MEUCCI, op. cit., p. 229.
Con riferimento al diritto di critica sindacale, si veda: Trib. Forlì, 30/9/1999, in FI, 2001, II, 191, per cui “non è punibile per il reato di diffamazione a mezzo stampa, ex art. 595, commi 2 e 3, c.p., colui che in qualità di segretario regionale del Siulp (Sindacato italiano unitario lavoratori polizia) abbia rivolto ad un questore, a mezzo di un comunicato stampa, aspre e pungenti critiche in ordine alle modalità di organizzazione del servizio traduzione collaboratori di giustizia”. Nella specie, è stata pronunciata sentenza di non luogo a procedere, ritenendosi il fatto oggetto dell’imputazione scriminato dal legittimo esercizio del diritto di critica sindacale di cui all’art. 51 c.p.
[7] AMOROSO, DI CERBO, Statuto dei lavoratori e disciplina dei licenziamenti, Milano 1997, p. 3.
[8] Ibidem.
[9] Ibidem, p. 4.
[10] Ibidem, p. 5.
[11] Ibidem.
[12] Pret. Milano 5/11/1977, in MGL, 1978, 155.
[13] Secondo Pret. Gallarate 14/11/1986 (in FI, 1987, I, 948) costituisce comportamento antisindacale il licenziamento del lavoratore reo di aver inviato agli azionisti della società datrice di lavoro una lettera aperta nella quale, riprendendo il contenuto di alcuni articoli pubblicati da un giornale aziendale sindacale, si segnalavano, in forme non ingiuriose, sprechi e disservizi gestionali risultati poi effettivamente sussistenti.
[14] GIUGNI, Statuto dei lavoratori, in Commentario, Milano 1979, p. 5. Così anche per MEUCCI, Lo sconfinamento del diritto di critica nei conflitti di lavoro, nota a Cass., sez. lav., 17/5/1979 n. 2846, in MGL 1980, 225.
[15] Nel caso di specie era stato dichiarato illegittimo il licenziamento di due lavoratori dipendenti di un Istituto ospedaliero, i quali avevano presentato un esposto al Procuratore della Repubblica, affisso anche nella bacheca aziendale, ed avevano concesso una intervista ai mezzi di informazione, diffondendo in tal modo notizie che screditavano l’attività dell’Istituto stesso e che, secondo quest’ultimo, avevano contenuto diffamatorio.
[16] AMOROSO, DI CERBO, op. cit., p. 7.
Secondo MEUCCI, op. cit., p. 230, la censura del lavoratore nei confronti del datore di lavoro può dirsi lecita se:
a) sia espressione di un diritto di libertà (art. 21 Cost.; artt. 1 e 14 l. 300/1970; art. 51 c.p.);
b) nel suo esercizio non vengano oltrepassati quei limiti che sono connaturati allo stesso diritto di critica e che, pertanto escludono la penetrazione della critica nell’ambito di situazioni prive di interesse sociale, ad es. la vita privata del datore di lavoro (cfr. anche Trib. Roma, 24/3/1995, in CP 1995, 2707);
c) sia rispettata l’obiettività e la veridicità (trattandosi di attribuzione di fatti determinati);
d) non siano calpestate quelle regole di un ideale codice di correttezza e di lealtà nelle relazioni interpersonali.
Si vedano inoltre: Cass., V, 16/12/1998, n. 2283, in Studim juris, 1999, 885; Trib. Bologna, 24/4/1998, in Riv. Pen., 1999, 896; Trib. Roma, 24/3/1995, in CP, 1995, 2707.
[17] Più precisamente, il reato in questione, la diffamazione, ha come bene giuridico di categoria l’onore. La dottrina prevalente (DE CUPIS) ritiene che l’onore vada sia riferito all’intimo valore morale della persona, sia riferito alla stima e considerazione da parte di terzi (ma in quest’ultimo caso si parla più esattamente di reputazione).
[18] Cass. 25/2/1986 n. 1173 (in FI, 1986, I, 1877, con nota di MAZZOTTA). La reputazione di un soggetto può essere lesa, prima ancora che da affermazioni diffamatorie altrui, dal comportamento antisociale del soggetto stesso (autolesione).
Sulla stessa linea interpretativa è Trib. Roma 21/2/1957, in GP, 1957, II, 837, per cui il reato di diffamazione non è ritenuto sussistente allorché i fatti attribuiti al soggetto passivo corrispondono all’opinione comunemente accettata in una comunità attorno ad un determinato individuo (il soggetto passivo appunto) per i suoi precedenti e per la condotta da lui pubblicamente tenuta.
Si veda inoltre Cass., V, 28/2/1995, n. 3247, in CP, 1995, 2535, con nota di IACOVIELLO, per cui “quando sia aggredita una sfera superiore di dignità – e non il patrimonio minimo della personalità, inteso nel senso di attributi comuni e essenziali di ogni persona, senza distinzione di cultura, livello sociale e grado di civiltà – è necessario stabilire se le espressioni siano tali da rivelare potenzialità di nuocere a più alti requisiti concorrenti a formare la reputazione, tenendo conto che l’opinione della persona è rilevante quando sia conforme a quella sociale e che di conseguenza le mere sconvenienze, l’infrazione alla suscettibilità e, talvolta, alla gelosa riservatezza non integrano offesa punibile”.
[19] Con riferimento alla gerarchizzazione dei valori costituzionali, la dottrina e la giurisprudenza prevalenti ritengono che il diritto di critica (art. 21 Cost.) ed i diritti inviolabili della persona (artt. 2 e 3 Cost.), tra cui rientra la reputazione, siano sullo stesso piano e solo un’alterazione sostanziale a scapito dei diritti della personalità rende illecito il diritto di critica. Cfr. MEUCCI, op. cit., p. 227.
[20] Nella specie la Cassazione ha confermato la pronuncia di merito che aveva ritenuto la legittimità del licenziamento di un dipendente che, nel corso di un’assemblea sindacale, aveva pronunciato una frase ingiuriosa all’indirizzo dei dirigenti dell’azienda, richiedendone minacciosamente la partecipazione ad un’assemblea.
[21] Per una fattispecie analoga, cfr. Trib. Palermo 24/5/1995, in OGL, 1995, 316.
[22] Tale critica può anche essere diretta ad evidenziare l’esigenza (ritenuta non soddisfatta) di gestire secondo criteri di economicità un’impresa a partecipazione pubblica e di maneggiare correttamente danaro pubblico. Cfr. Pret. Gallarate 14/11/1986, in FI, 1987, I, 948.
[23] Tale pronuncia ricalca chiaramente i requisiti di Cass. 1173/1986.
[24] Secondo il prevalente orientamento giurisprudenziale, a prescindere dalla rilevanza penale di un atto o comportamento, il giudice civile può essere investito della valutazione degli stessi fatti o comportamenti ai fini della giusta causa o giustificato motivo di licenziamento. Cfr. Cass., 8/5/1950, in RGI 1950, 1505; Cass., 13/10/1961, in ibidem, 1961, 2336; secondo quest’ultima pronuncia, “il fatto nel quale il giudice penale abbia escluso ogni estremo di reato, può integrare una violazione dei doveri che il contratto impone al lavoratore; in particolare di quel dovere di fedeltà che si sostanzia nell’obbligo di un leale comportamento verso il datore di lavoro e che può venir meno anche di fronte a fatti i quali non integrino gli estremi di un reato e non comportino effettivo pregiudizio per il datore di lavoro”.
Si veda inoltre: App. Catania, 12/11/1962, in RGI, 1963, 2432.
Secondo Cass., sez. lav., 22/10/1998, n. 10511, in MGI, 1998, “le opinioni espresse dal lavoratore dipendente, anche se vivacemente critiche nei confronti del proprio datore di lavoro, specie nell’esercizio dei diritti sindacali, non possono costituire giusta causa di licenziamento, in quanto espressione di diritti costituzionalmente garantiti o, quanto meno, di una libertà di critica. Peraltro, qualora il comportamento si traduca in un atto illecito, quale l’ingiuria o la diffamazione, o comunque in una condotta manifestamente riprovevole può riscontrarsi, sotto il profilo sia soggettivo che oggettivo, quella gravità necessaria e sufficiente a compromettere in modo irreparabile il vincolo fiduciario, così da non consentire la prosecuzione anche provvisoria del rapporto”.
Se un fatto non costituente diffamazione può egualmente costituire giusta causa o giustificato motivo di licenziamento, c’è da chiedersi se è possibile affermare anche il contrario: un fatto che non costituisce giusta causa o giustificato motivo di licenziamento può integrare la fattispecie di reato di diffamazione del datore di lavoro? Nel caso in cui il giudice civile ritenga il licenziamento illegittimo, in quanto il comportamento in questione non ha costituito giusta causa o giustificato motivo di licenziamento, come potrebbe lo stesso comportamento avere in sé il maggiore disvalore necessario per integrare una fattispecie penale? Sarebbe invece, come visto, ben possibile il contrario.
[25] MEUCCI, Lo sconfinamento del diritto di critica nei conflitti di lavoro, nota a Cass., sez. lav., 17/5/1979, n. 2846, in MGL 1980, 225.

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