Le modifiche apportate al codice deontologico forense in applicazione della legge 4 agosto 2006, n. 248

Cito Monica 07/02/08
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L’art. 1 L. 248/2006 indica le finalità e l’ambito dell’intervento legislativo volti a sostanziare «[…] l’improcastinabile esigenza di rafforzare la libertà di scelta del cittadino consumatore e la promozione di asseti di mercato maggiormente concorrenziali, anche al fine di favorire il rilancio dell’economia e dell’occupazione, attraverso la liberalizzazione di attività imprenditoriali e la creazione di nuovi posti di lavoro».
La richiamata legge, sempre, ha disposto una serie di abrogazioni legislative e regolamentari. In particolare, oggi l’avvocato non è più vincolato ad un minimo ed un massimo tariffario ed al divieto del patto di quota lite, e l’ambito della capacità pubblicitario-informativa d’attività personale e di studio allarga considerevolmente le maglie e, ciò che pare più d’interesse, la liberata capacità economicamente nota come multicompetenza e che, dal lato pratico, dovrebbe sostanziarsi in una interattività maggiore del professionista con le esigenze nuove d’una prassi operativa sempre più varia, mutevole, dinamica, che dovrebbe accedere alla complessa disamina – non risolvibile all’interno d’un breve saggio – della funzione di probabile mediatore o almeno gestore d’affari altrui che il legale potrebbe andare a rivestire nell’ambito di mandati stragiudiziali complessi.
 
Norma di riferimento in materia tariffaria è l’art. 2233 c.c. che ha subito, nell’ultimo comma, la variazione in conseguenza della legge 248.
La precedente formulazione del comma in questione recitava: «Gli avvocati […] non possono, neppure per interposta persona, stipulare con i loro clienti alcun patto relativo ai beni che formano oggetto delle controversie […], sotto pena di nullità e dei danni». Nullità, è appena il caso di dire, che risultava da norma imperativa, appunto l’art. 2233 c.c. u.c., disciplinante il contratto prestazione d’opera e/o prestazione di mezzi tra avvocato ed assistito. Infatti nell’articolo viene usato il termine COMPENSO e non CORRISPETTIVO (tipico del contratto d’opera), dato che non si poteva valutare in termini precisi la prestazione intellettuale ed era questo, anche, un punto di forza della professione forense, codificatorio – a ragione o torto non sta a noi qui commentare – di un concetto etico profondamente diffuso nella classe: quello del DECORO PROFESSIONALE.
Inoltre, l’articolo elencava tassativamente (gerarchicamente) con i termini di ACCORDO, TARIFFE, USI, GIUDIZIO i passi consoni all’ottenimento del compenso suddetto. In più, le tariffe professionali svolgevano un ruolo guida nel giudizio e per il giudice dello stesso. Dovevasi, infatti, il giudice ispirare nelle determinazioni proprio alle stesse tariffe, in mancanza di accordo fra le parti. È vero che il parere in tema espresso dal C.d.O. non era per il giudice vincolante, ma possiamo senz’altro che Questi assumeva l’onere di un’errata interpretazione tariffaria e che v’era legge certa e materialmente apprendibile, riconoscibile.
Tralasciamo qui anche la questione di legittimità costituzionale che fu a suo tempo sollevata e ritrascriviamo la neo-formulazione dell’ultimo comma, consci della completa assenza di dubbi interpretativi sull’abbattimento del divieto del patto di quota lite; a patto – si perdoni il bisticcio di parole – che si sia in grado di documentare in forma scritta l’intercorso accordo.
Il terzo comma è oggi il seguente: «Sono nulli, se non redatti in forma scritta, i patti conclusi tra gli avvocati […] con i loro clienti che stabiliscano i compensi professionali».
E questo è quanto, in termini di coordinamento tra novella legge e codice civile, ed avremmo potuto subito avere anche una discrasia se l’art. 2 della L. 248 non avesse postulato l’adeguamento dei codici d’autoregolamento; prima fra tutti il Codice Deontico Forense. E si è lasciato all’avvocatura il compito di quest’adeguamento, e conseguente adozione delle garanzie di qualità delle prestazioni professionali; alle quali si è risposto con la fattiva proposizione di un’azione coordinata tra CNF e ordini locali, al fine di rendere concreta la formazione degli operatori-avvocati.
Ho già trattato del tema in un intervento apparso sempre in questa rivista, e concernente la c.d. FORMAZIONE CONTINUA.
L’adeguamento del Codice Deontico ha riguardato i tre settori sopra citati. In particolare, si è avuta l’abrogazione del canone II dell’art. 10. Adesso l’articolo si ferma al primo canone, eliminando quella che in passato è stata una cogentissima infrazione disciplinare, portando seco provvedimenti puntuali e giurisprudenze, locali et nazionali, di rilevante pregnanza.
Rimane però integro il testo dell’art. 43 C.D.F., la cui formulazione aveva a tutela il soggetto cliente. L’abrogazione del IV canone di tale articolo è soltanto e meramente sintattica, essendo chiaro che non aveva sic et simpliciter più senso distinguere lo giudiziale dallo stragiudiziale in materia di patti stipulabili tra professionista e cliente. È così marginale l’intervento sulla norma che lo stesso, avvenuto ad opera della politica legislativa interna, ha poi taciuto l’ “aggiusto” persino nella relazione, dovuta agli iscritti dal CNF ad accompagnamento della Novella.
Eppure credo che – ma è opinione personalissima non scevra da estemporaneità – che il c.d. «prevedibile impegno» era un concetto degno d’essere sviscerato proprio in quella sede, e con la sostituzione, cum abrogazione tacita, di quel canone. Se non lo si è fatto è perché sfuggito o perché dovevasi troppo lottare intorno al concetto della correttezza del diritto?
Quel «prevedibile impegno» pattiziamente riconducibile negli accordi sarebbe stato la forza della variazione in aggiunta rispetto alla L. 248, ed avrebbe condotto perlomeno ad esegesi dottrinarie.
Immagino che lo scontro-incontro col Codice Civile (art. 2233) sarebbe stato serrato, improntato su due parametri simili ma profondamente cognitivi: impegno e perseguimento del risultato, facendo ritornare l’addetto ai lavori, l’interprete, al faticosissimo distico, che pareva superato, tra prestazione d’opera e prestazione di mezzi, interrogandolo riguardo a sinonimie tra determinazione operativa (impegno) ed azione operativa (risultato).
Ciò non è stato ed, allo stato, non si può dire che, deprivati dell’ausilio deontico, variante ma non esulante dall’art. 2233 c.c. , studiosi della nuova formulazione non avrebbero colto un nuovo significato ed una nuova necessità fattuale, e stimoli di scrittura fini nello stilare un patto, molto simile – allo stato – più ad una liberatoria che ad un contratto.
Dilungarsi sulla mancata opzione culturale in tal senso non ha, sappiamo, pregio alcuno, e noioso sarebbe elencare ora ogni singola modifica, come avvisare l’uomo di media cultura giuridica del come (e cosa) scrivere sul proprio bigliettino da visita.
Preme badare ad un costrutto di diritto vivente, sorto sulle ceneri della passata legislatura; un ossuto interagire di tre norme che, lette in combinato disposto, destano non poche perplessità, come può evincersi anche dall’opinione del CNF. E infatti, nella Relazione che spiega la necessitata urgenza delle revisioni codicistiche, il CNF così si esprime: «Il nuovo testo dell’art. 45 è stato formulato tenendo conto che la legge […] ha abrogato l’art. 2233, comma 3, c.c. , ma non ha toccato la disciplina contenuta nell’art. 1261 c.c. , che fa divieto ad altri soggetti ed anche agli avvocati […] di rendersi cessionari di diritti sui quali è sorta contestazione davanti all’autorità giudiziaria».
È lo stesso CNF che, a questo punto della relazione, con puntuale sintesi e chiarezza espositiva, disvela le dinamiche del patto di quota lite, togliendoci la primaria certezza della sua totale liberalizzazione.
Leggiamo: «[…] si deve ritenere che:
          il patto di quota […] inteso come patto col quale si stabilisce un compenso correlato al risarcimento pratico dell’attività […] e […] in ragione di una percentuale sul valore dei beni e degli interessi litigiosi, deve ritenersi legittimo;
          il patto […] deve ritenersi […] nullo ex art. 1418 c.c. , nella misura in cui il suo assetto concreto replica la previsione dell’art. 1261 c.c. e cioè ogniqualvolta esso realizzi, in via diretta o indiretta, la cessione del credito o del bene […]».
Ma è da riflettere se la norma ex art. 1261 vede ancora la ratio nell’argomentare che il divieto di acquisto di crediti litigiosi (diritti di credito oggetto di causa) è diretto ad impedire che di tali diritti vengano ad essere titolari determinati soggetti (giudici, avvocati, etc.), che potrebbero avere un interesse personale nella causa.
 
a cura dell’Avv. Monica Cito
 

Cito Monica

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