Le imprese non autorizzate, ai limiti delle “riserve” poste dai testi unici bancario e finanziario.

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SOMMARIO: A). Premessa. – 1. -“Strumenti finanziari” e “prodotti finanziari”: definizioni, nozioni, funzioni, riserve. – 2.- I “servizi accessori” di cui all’art. 1, comma 6, T.U.F. come  attività non riservate, ma frastagliate. – 3.- Il carattere ”professionale”, in una con l’esercizio ”nei confronti del pubblico”, quali presupposti delle riserve di cui all’art. 18, commi primo e terzo, T.U.F.. – 4.- Il “collocamento” quale servizio d’investimento riservato. Il c.d. collocamento diretto. La nozione di “sollecitazione all’investimento” e la sua possibile mutazione prossima in ragione della recente direttiva comunitaria sul prospetto. – 5.- La “offerta fuori sede” come attività diversa dal (servizio d’investimento) di “collocamento”. La disciplina speciale del collocamento fuori sede. L’obbligo di avvalersi di promotori finanziari. – 6.- La “sollecitazione all’investimento”. – 7.- Sulle società finanziarie di cui agli artt. 106, 113, e 107 T.U.B.. – B.- Conclusione
 
 
 
A).-  Premessa
 
Questo elaborato cerca di rispondere a una esigenza che è di teoria e prassial contempo.
Il punto interrogativo, cui qui si tenta di rispondere, è il seguente: fino a dove – e come, e perché – possono spingersi (l’oggetto sociale e) l’attività effettuale di una impresa, la quale non gode di autorizzazione di sorta e intende operare legittimamente nel settore finanziario lato sensu inteso?
Detta impresa – in altre parole -, una volta conosciuti esattamente i confini d’oggetto e attività sì come posti dal T.U.F. e dal T.U.B. 
Per agire bisogna prima conoscere i frastagliati confini di legittimità, allorquando una impresa non ha – come qui in ipotesi – alcuna autorizzazione particolare, quale è contemplata dal testo unico bancario e da quello della intermediazione finanziaria.
 
 
1.   “Strumenti finanziari” e “prodotti finanziari”: definizioni, nozioni, funzioni, riserve
 
1.1.- Fino alla emanazione del d.lgs. n. 58/1998, esistevano nel nostro ordinamento plurime definizioni – in diversi testi normativi – di quello che in allora si diceva “valore mobiliare” (per un riferimento a queste varie definizioni, vedi AA.VV., L‘ordinamento finanziario italiano, a cura di Capriglione, Padova, 2005, p. 264).
Il valore mobiliare, quanto meno in una delle sue diverse accezioni (quella di cui all’art. 1, legge n. 1/1991, istitutiva delle S.I.M.), sembrò ampliarsi rispetto alla concezione tradizionale, la quale faceva coincidere il medesimo con un supporto documentale, rappresentativo del diritto e liberamente circolante (concezione tradizionale ancorata legata all’idea della chartula).
E infatti, all’interno della nozione di valore mobiliare di cui alla legge n. 1/1991, fecero apparizione i contratti derivati, i quali nulla avevano/hanno a che fare con un documento rappresentativo di un diritto liberamente circolante.
Ma le diverse definizioni di “valore mobiliare”, contenute in varie leggi della Repubblica, ponevano agli interpreti non irrilevanti problemi di coordinamento (cfr. AA.VV., L’ordinamento, cit., p. 264 s.; AA.VV., Il testo unico della intermediazione finanziaria, a cura di Rabitti Bedogni, Milano, 1998, p. 12).
Successivamente, nel dare attuazione alla direttiva comunitaria n. 93/22 sui servizi d’investimento, il legislatore italiano, con il d. lgs. n. 415/1996 (c.d. “decreto Eurosim”), sostituì l’ormai equivoca locuzione “valore mobiliare” con il nuovo sintagma “strumento finanziario”, e fornì di quest’ultimo una nozione finanche più ampia di quella prevista dalla direttiva .
Dipoi il T.U.F. recepì la definizione di “strumento finanziario” contenuta nel decreto Eurosim, e nel contempo pose, in Allegato all’articolato del T.U.F. medesimo, la elencazione (di origine comunitaria) degli “strumenti finanziari”: definizione all’interno della quale ricompaiono inter alia  i “valori mobiliari”, ma con l’attribuzione a questi ultimi di una rilevanza nozionale soltanto ai fini della delimitazione dei servizi ammessi al mutuo riconoscimento (AA.VV., op. ult. cit., p. 17).
E’ oggi all’art. 1, comma 2, T.U.F., che troviamo, in forma di elenco, la vigente nozione di “strumenti finanziari”.
Ivi rientrano due categorie di strumenti:
a)  i titoli negoziabili (i vecchi valori mobiliari, per certi versi);
b) e gli strumenti finanziari derivati (cfr.: Carbonetti, Dai <<valori mobiliari>> agli <<strumenti finanziari>>, in Riv. soc., 1996, p. 1105; AA.VV., Il testo unico della intermediazione finanziaria, cit., p. 14).
Si sono aggiunti, per effetto della riforma societaria entrata in vigore nel 2004, gli strumenti finanziari negoziabili sul mercato dei capitali e previsti dal codice civile (vedasila nuova lett. b-bis dell’art. 1 cpv. T.U.F.): il che – si osserva (AA.VV., L’ordinamento finanziario, cit, p. 263) – coinvolge, tra gli strumenti finanziari del T.U.F., anche gli strumenti finanziari partecipativi di cui agli artt. 2346, 6° comma, e 2349, 2° comma, c.c.. Purché però – si aggiunge –  essi siano negoziabili sul mercato dei capitali (op. loc. ultt. citt.) .
Quest’ultimo riferimento alla negoziabilità, peraltro, fornisce il destro a uno spunto più generale, che reputo utile ai fini della sussunzione o meno – di un titolo o strumento – sotto la categoria degli strumenti finanziari.
Ad osservare bene l’elenco di cui all’art. 1 cpv. T.U.F., ci si avvede del fatto che, con riferimento a taluni strumenti finanziari, il legislatore pone come postulato il fatto che essi siano appunto “negoziabili”, mentre per altri lo stesso legislatore postula che essi siano “negoziati” sul mercato.
Con riguardo a tale dicotomia lessicale, gli autori hanno osservato quanto segue:
a) da un lato si è detto che, siccome la mera negoziabilità consiste nell’astratta idoneità del titolo a essere negoziato sul mercato, ciò significa che esso è già abitualmente negoziato (AA.VV., Il testo unico della intermediazione finanziaria, cit., p. 14);
b) diversamente, altri ha opinato che il participio “negoziati” richiede un quid pluris, scilicet un’almeno minima “tipicità sociale” (Spada, La circolazione della <<ricchezza assente>> alla fine del millennio, in BBTc, 1999, I, p. 412).
In ogni caso e come si diceva – al di là di questa nuance ermeneutica -, v’è da rammentare che, sia per le azioni (e altri titoli rappresentativi di capitale di rischio), sia per le obbligazioni (unitamente ai titoli di Stato e agli altri titoli di debito), il dettato normativo esige – in alternativa – che essi, per assurgere al rango di “strumenti finanziari”, siano “negoziabili” sul mercato dei capitali. Se dunque uno di questi titoli, per sua natura, non è liberamente circolante, ne discende che esso non è astrattamente idoneo a essere negoziato sul mercato, e pertanto esso non costituisce strumento finanziario.
 
1.2. – La nozione di strumento finanziario rileva al fine d’identificare le attività riservate a taluni soggetti.
E infatti ai sensi dell’art. 18, comma 1 T.U.F., “l’esercizio professionale nei confronti del pubblico dei servizi d’investimento è riservato alle imprese d’investimento e alle banche”.
I “servizi d’investimento”, per parte loro,sono identificati ex lege come una serie di attività aventi  ad oggetto quegli “strumenti finanziari”, della cui identificazione si è detto sopra ai sottoparagrafo 1.1, ex art. 1, comma 5, T.U.F..
Quivi, oltre alla negoziazione per conto proprio e per conto terzi (di strumenti finanziari), è menzionato il “collocamento” di strumenti finanziari, “con o senza preventiva sottoscrizione o acquisto a fermo, ovvero assunzione di garanzia di nei confronti dell’emittente. 
Per “collocamento” deve intendersi una “offerta” in sottoscrizione o in acquisto di strumenti finanziari a “potenziali investitori” (AA. VV., L’ordinamento finanziario italiano, p. 258).
Questa definizione è però capace di trarre in inganno. Essa, infatti, può ictu oculi apparire come un’attività dell’emittente, laddove invece il collocamento in senso proprio è un’attività dell’intermediario. Ma su ciò si dirà più ampiamente, infra, al par. 4.
 
1.3.- A questo punto, per meglio comprendere i confini della riserva posta dalla legge in capo a banche ed imprese d’investimento ex art. 18, comma primo, T.U.F., bisogna mettere a fuoco due cose:
a) per “imprese d’investimento” devono intendersi le SIM. e le imprese d’investimento comunitarie ed extra-comunitarie, ex art. 1, comma 1, lett. h), T.U.F.;
b) la riserva in parola opera soltanto quando i servizi d’investimento sono esercitati con la compresenza di due attributi:
(i) la professionalità dell’esercizio di servizi d’investimento;
(ii) il fatto che l’esercizio dei servizi d’investimento sia svolto nei confronti del pubblico.
Sul significato di questi due attributi, tornerò infra, al par. 3.
Per altro verso, si può sin d’ora rilevare che la riserva dell’esercizio (professionale e nei confronti del pubblico) dei servizi d’investimento è – nella lettera dell’art. 1 T.U.F. – incentrata sugli strumenti finanziari, e non coinvolge i prodotti finanziari.
Pur tuttavia, strumenti e prodotti si trovano a essere coinvolti nell’istituto del “collocamento” (sul quale infra par. 4).
 
1.4.- Se ora, dallo strumento finanziario spostiamo l’angolo visuale al “prodotto finanziario”, ancora una volta l’art. 1 T.U.F. – nel caso di specie al comma 1, lett. v) – ci fornisce una definizione testuale:
– sono prodotti finanziari “gli strumenti finanziari e ogni altra forma di investimento di natura finanziaria” (c.vo aggiunto).
Talché, dando per assodato che si sappia che cosa sono gli strumenti finanziari, si tratta di comprendere a che cosa la legge faccia riferimento con l’amplificazione testé riportata alla lettera.
A tale riguardo, è stata sottolineata una relazione tra genere e specie.
Si è cioè detto che, dal dettato normativo, emerge quanto segue: come già, ai tempi in cui il legislatore utilizzava passim il sintagma “valore mobiliare”, la nozione di “strumento finanziario” era più ampia, così ora – mediante una sorta di ulteriore allargamento finalizzato alla tutela dell’investitore – per “prodotto finanziario” si intende un genere rispetto al quale la categoria dello strumento finanziario è mera specie.
E siccome taluni residui della locuzione “valore mobiliare” permangono nell’ordinamento vigente [vedasi la prima voce della sez. B dell’Allegato al T.U.F., che determina i servizi ammessi al mutuo riconoscimento – cui adde l’art. 129 T.U.B., relativo ai controlli di Banca d’Italia sulle loro emissioni, nonchél’art. 4, legge n. 43/1994 sulle cambiali finanziarie, ancorché quest’ultimo caso sembra per lo più consistere in una svista del legislatore], si delinea un disegno complessivo a cerchi concentrici, laddove l’anello più esterno è quello dei “prodotti finanziari”, al cui interno si trovano – rispettivamente muovendo verso il centro – prima gli “strumenti finanziari” e poi i “valori mobiliari”.
In una siffatta ricostruzione:
a) il “prodotto finanziario” è una forma d’investimento, il quale però non si esaurisce in se stesso ma, per assurgere appunto a prodotto finanziario, deve avere una natura finanziaria. In altre parole, per “prodotto finanziario” deve intendersi un “impiego di risparmio effettuato in vista di un ritorno economico” (Schlesinger, Manuale di diritto privato, diciassettesima ed., Milano, 2004, p. 122). Non che ciò – e lo si è chiaramente ammesso in dottrina – delinei un confine nitido e preciso; ma quanto meno può dirsi – ed è stato detto – che il prodotto finanziario in quanto tale “richiede un utilizzo di risorse finalizzato a ricavarne un corrispettivo, laddove la natura finanziaria di un tale investimento tende ad articolarsi e diluirsi nelle molteplici e variegate forme dell’impiego di disponibilità cui la pratica degli affari tende oggigiorno di poter accostare l’aggettivo <<finanziario>>” (AA.VV., L’ordinamento finanziario italiano, cit., p. 265-267).;
b) col T.U.F. i “prodotti finanziari” prendono il posto dei “valori mobiliari” quali oggetto della disciplina del collocamento, includendo – come già sopra evidenziato – non soltanto valori mobiliari in senso cartolare-documentale intesi, ma come pluralità di entità il cui tratto caratterizzante “è solo la natura dell’investimento, ossia la sua idoneità a remunerare l’investitore attraverso una redditività finanziaria” (AA.VV., Il testo unico della intermediazione finanziaria, cit., p. 17);
c) posto che gli “strumenti finanziari” sono definiti dall’art. 1 T.U.F.,  e posto che anche i “prodotti finanziari” sono definiti – sebbene in modo un po’ sfuggente – dallo stesso articolo, per completezza sistematica si può dire che i pochi residui riferimenti ai “valori mobiliari”, i quali permangono nel sitema – e tra essi segnatamente quello dell’art. 129 T.U.B. – stanno a significare – come si diceva prima con l’immagine dei tre cerchi concentrici – un quid minus rispetto a gli strumenti finanziari dell’art. 1 T.U.F., e quindi ancor più un quid minus rispetto ai “prodotti finanziari”di cui allo stesso art. 1.
 
1.5.- Abbiamo quindi visto tre nozioni/definizioni, che possono essere così riassunte:
(i) la nozione di “valore mobiliare”, ormai confinata in poche norme del nostro ordinamento dopo il T.U.F., identifica, segnatamente alla luce della normativa comunitaria, una tradizionale chartula, negoziata o negoziabile in un mercato organizzato. Tale nozione rileva, sùbito e anzitutto (oltre ad altri sparuti casi in testi normativi diversi dal T.U.F., tra i quali il T.U.B. in punto di emissione o collocamento oltre 100 miliardi di vecchie lire), proprio nel T.U.F. per le attività delle imprese di investimento ammesse al mutuo riconoscimento;
 (ii) la nozione di “strumento finanziario” ingloba e supera quella di valore mobiliare; ed in particolare a quest’ultimo aggiunge tutti i contratti “derivati”. Questa nozione rileva, anzitutto e per lo più, per delimitare il confine delle attività riservate, cioè i servizi d’investimento, che tali sono se hanno ad oggetto strumenti finanziari;
(iii) la nozione di “prodotto finanziario” è la più ampia, e nello stesso tempo quella dai confini più incerti. Tale nozione/definizione incorpora in sé sia gli strumenti finanziari sia, per l’effetto, i valori mobiliari. Ed è una nozione che, basata sul duplice concetto di investimento e di natura finanziaria del medesimo, è dettata per lo più dalla idea di una need of protection di coloro i quali effettuano investimenti di natura finanziaria. E’ una nozione, dunque, che dall’art. 1 T.U.F. ci proietta immediatamente agli artt. 94 ss. T.U.F., in materia di “sollecitatazione all’investimento” e amplius in materia di “appello al pubblico risparmio”, id est anche offerte pubbliche di acquisto o di scambio di cui agli artt. 102 ss. T.U.F. (AA.VV., L’ordinamento finanziario italiano, cit., p. 266).
 
 
2.-  I “servizi accessori”, di cui all’art. 1, comma 6, T.U.F., come attività non riservate e frastagliate
 
2.1.- Nel T.U.F., per vero, troviamo una norma – cioè l’art. 18, quarto comma – ai sensi della quale “le SIM possono prestare nei confronti del pubblico i servizi accessori e altre attività finanziarie, nonché attività connesse o strumentali”. Lo stesso comma aggiunge: “ Sono fatte salve le attività previste dalla legge”.
Questa norma non deve però essere letta nel senso che soltanto le S.I.M. possono svolgere i “servizi accessori.
Alle S.I.M., piuttosto, la norma attribuisce la possibilità di svolgere, nei confronti del pubblico, attività finanziarie ulteriori, rispetto a quelle che sono identificate come servizi accessori dall’art. 1 T.U.F.: attività, cioè, diverse sia dai servizi accessori sia dagli stessi servizi d’investimento.
Le banche, d’altronde, possono svolgere tutti i servizi accessori, alla luce dell’art. 29 T.U.F..
Vi sono poi alcune tipologie di enti, ai quali la legge attribuisce apertis verbis la possibilità di svolgere soltanto alcuni dei servizi d’investimento di cui all’art. 1, comma 5, T.U.F..
E’ il caso delle società fiduciarie e delle società finanziarie iscritte nell’art. 107 T.U.B. (gestione di portafogli d’investimento per le fiduciarie, ex art. 199 T.U.F.; collocamento di strumenti finanziari e negoziazione di strumenti finanziari, per gli intermediari finanziari iscritti nell’elenco speciale di cui all’art. 107 T.U.B.).
Con riferimento a questa tipologia di enti, si ritiene che essi, ancorché limitati nella sfera tipologica dei servizi d’investimento, possano esercitare i servizi accessori nella loro totalità (AA.VV., Il testo unico della intermediazione finanziaria, cit., p. 29).
Vi sono poi casi in cui la legge attribuisce espressamente a taluni soggetti “qualificati” la facoltà di svolgere soltanto alcuni servizi d’investimento, e nel contempo la facoltà di svolgere soltanto taluni servizi accessori. E’ il caso degli agenti di cambio, rimasti iscritti uti singuli nell’albo nazionale (a esaurimento), giusta quanto previsto dall’art. 201, comma 7, T.U.F..
Anche argomentando a contrario da una norma come quella da ultimo citata, si è potuto ribadire che, in mancanza di una esplicita limitazione normativa sul versante dei servizi accessori, i soggetti autorizzati ad almeno un servizio d’investimento – essendo peraltro i servizi accessori non riservati – possono svolgere tutti i servizi accessori (op. loc. ultt. citt.).
Se poi si pensa a un soggetto non autorizzato a svolgere alcun servizio d’investimento, ebbene tale soggetto – a meno di ostacoli posti da norme estranee al T.U.F. – non può svolgere nessun servizio d’investimento (professionalmente e nei confronti del pubblico), ma può svolgere tutti i servizi accessori.
Da questo quadro normativo in materia di c.d. “servizi accessori”, sono stati tratti i seguenti corollari:
(i) i servizi accessori, nonostante la loro denominazione, in realtà non sempre e necessariamente sono un completamento pertinenziale di uno o più servizi d’investimento. Tanto si evince sol che si raffrontino tra loro l’elenco dei servizi d’investimento di cui all’art. 1, quinto comma, T.U.F., e l’elenco dei servizi denominati come accessori, nel comma sesto dello stesso art. 1 T.U.F.. In verità, al di là della improprietà lessicale dell’attributo “accessori”, alcuni dei c.d. servizi accessori possiedono un’autonomia netta rispetto ai servizi d’investimento; e quindi il rapporto di accessorietà risulta essere ricostruibile soltanto in astratto tra due tipologie di servizi (quelli finanziari da un lato e quelli accessori dall’altro lato), in ragione delle rispettive caratteristiche ontologiche (AA.VV., Il testo unico della intermediazione finanziaria, cit., p. 25);
(ii) i servizi accessori sono, in linea di principio, svolgibili da chiunque – persona fisica o giuridica – poiché essi non sono coperti da riserva (AA.VV., L’ordinamento finanziario italiano, cit., p. 261);
 
2.2.- Un caso a sé stante, tra i servizi accessori, è costituito dal servizio di cui all’art. 1, comma 6, lett f), T.U.F: cioè a dire “la consulenza in materia di investimenti in strumenti finanziari”.
Questo servizio, un tempo rientrante tra quelli riservati di “intermediazione mobiliare” ex art. 1, legge n. 1/1991 (legge istitutiva delle S.I.M., oggi abrogata), a far tempo dalla emanazione del T.U.F. nel 1988 è svolgibile – siccome accessorio – da chiunque.
Con non pochi paradossi, tra i quali quello per cui tale consulenza è invece preclusa a taluni enti “qualificati”: si pensi alle società fiduciarie e alle società finanziarie iscritte nell’elenco speciale di cui all’art. 107 T.U.B. (arg. ex supra, sub-par.2.1); si pensi agli stessi promotori finanziari, cui tale attività è preclusa in ragione del vincolo mono-mandatario cui è condizionato l’esercizio della loro attività [art. 94, comma 1, lett. a), reg. CONSOB n. 11522 del 1° luglio 1988, cit da AA.VV., L’ordinamento finanziario italiano, cit., p. 262).
Questo carattere peculiare della consulenza finanziaria (rectius consulenza avente ad oggetto strumenti finanziari) rispetto agli altri servizi accessori, balza all’attenzione del lettore/interprete del tessuto normativo del T.U.F., sol che si pensi a come sia estremamente difficile, in prassi, delineare il confine nel quale finisce un servizio di non-mera illustrazione – ché appunto di consulenza trattasi – di uno strumento finanziario al potenziale investitore, e donde poi si tracimi nella stipulazione di un contratto avente ad oggetto un servizio d’investimento.: difficile è cioè delineare, nell’agere, la fine di un servizio accessorio – apparentemente esercitabile da chicchessia siccome non riservato -e l’inizio di un servizio d’investimento il quale è oggetto di riserva ex lege.
Nonostante questa peculiarità, non si è potuto che prendere atto di quanto segue:
– essendo la consulenza finanziaria un servizio accessorio, la normativa risulta tale per cui, quando siffatta consulenza è resa da un intermediario titolare di una riserva (e dunque svolgente uno o più servizi d’investimento), alla consulenza si applicano tutte le norme settoriali poste a tutela dell’investitore;
– queste ultime norme di settore, invece, non si applicano se la consulenza finanziaria è prestata da un soggetto diverso da un intermediario finanziario, alias da un soggetto non autorizzato alla prestazione di servizi d’investimento e non svolgente tali servizi (vedasi op. ult. cit., p. 852, con ampi riferimenti tra i quali CONSOB). Ai comportamenti di questi soggetti si applicherà la disciplina comune del codice civile (diligenza, ecc.).
Ciò può apparire paradossale, ma è l’inevitabile esito del meccanismo normativo: soltanto in presenza di un soggetto il quale può svolgere almeno un servizio d’investimento, la compresenza del servizio accessorio di consulenza rende applicabile anche a quest’ultimo la disciplina speciale di protezione dell’investitore (op. ult. cit., p. 854 s.).
 
2.3.- La nuova direttiva 2004/93/CE – in materia di mercati degli strumenti finanziari, modificativa di alcune direttive pregresse in argomento e finanche abrogativa della direttiva 93/22/CEE del Consiglio – interviene in punto di consulenzanel suo Allegato 1, ponendo – tra i servizi d’investimento riservati – l’attività di “consulenza in materia di investimenti”.
Il nuovo servizio d’investimento ha una formula più contratta – nel dettato della direttiva – rispetto alla formula pregressa del servizio accessorio corrispondente (ora eliminato, nella direttiva stessa,dall’elenco dei servizi accessori).
Se infatti prima, quale servizio accessorio, la normativa comunitaria indicava la “consulenza in materia di investimenti in strumenti finanziari”, ora il nuovo servizio d’investimento, nell’ordinamento comunitario, è denominato “consulenza in materia di investimenti” tout court.
Nel contempo, però, l’art. 4, primo comma, n. 4) della direttiva in parola fornisce una definizione ad hoc di “consulenza in materia d’investimenti”.
Ivi si legge: “prestazione di raccomandazioni personalizzate ad un cliente, dietro sua richiesta o per iniziativa dell’impresa d’investimento, riguardo ad una o più operazioni relative a strumenti finanziari”.
Questo chiarimento, in termini di definizione, non poteva mancare nel contesto di una direttiva che sottopone a riserva la consulenza in parola.
Per quel che concerne l’attuazione di tale direttiva in Italia, la legge 18 aprile 2005, n. 62, contenente “disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’ appartenenza dell’ Italia alle Comunità Europee” (c.d. legge comunitaria 2004), delega il Governo della Repubblica alla emanazione di un decreto legislativo..
Il termine dato al Governo per l’esercizio della delega è di diciotto mesi dalla entrata in vigore della medesima legge comunitaria, che è stata pubblicata in Suppl. G.U. n. 96 del 27 aprile 2005. Ad oggi la direttiva non è ancora stata attuata con decreto delegato.
E’ importante però notare che, alla luce della definizione datane dalla direttiva (v., supra, in questo sottoparagrafo), la consulenza che diverrà riservata è quella rivolta agli investitori, e non quella rivolta alle imprese emittenti od offerenti.
Ciò che ora è lapalissiano nella direttiva, era stato peraltro già affermato in dottrina – in termini, appunto, di soggetti destinatari del sevizio – con riferimento alla consulenza su strumenti finanziari quale servizio accessorio (AA.VV., Il testo unico della intermediazione, cit., p. 24).
Diversamente – allo stato attuale della legislazione in Italia –, secondo la stessa dottrina sarebbe rivolta alle imprese emittenti od offerenti quel diverso servizio accessorio di consulenza, che è menzionato all’art. 1, comma sesto, lett. d): cioè la “consulenza alle imprese in materia di struttura finanziaria, di strategia industriale e di questioni connesse, nonché la consulenza e i servizi concernenti le concentrazioni e l’acquisto di imprese” (c.vo aggiunto).
Quest’ultima consulenza è ancora posta tra i servizi accessori dalla nuova direttiva, che – come si diceva – deve ancora essere attuata in Italia,.
 
 
3.- Il carattere ”professionale”, in una con l’esercizio ”nei confronti del pubblico”, quali presupposti delle riserve di cui all’art. 18, commi primo e terzo, T.U.F.
 
E’ stata ben sottolineata, in dottrina, l’autonomia concettuale dei requisiti dell’esercizio professionale da un lato e della destinazione al pubblico dall’altro lato; e ciò  con rilievo separato sia in sede di definizione dell’impresa di investimento, sia in sede di disegno residuale dei soggetti ai quali la riserva non si applica (AA.VV., Testo unico della finanza, dir. da Campobasso, 2002, p. 137).
Per quel che concerne l’esercizio professionale, esso appare riferito non tanto al carattere stabile e abituale dell’attività, ma alla natura principale e non accessoria di uno o più servizi d’investimento, nel contesto dell’attività complessiva di un soggetto (op. loc. ultt. citt.). A conferma di un tale assunto, si è rilevato che, non a caso, nel testo della prima direttiva sui servizi d’investimento è testualmente escluso dalla nozione di impresa di investimento ”chiunque fornisce servizi di investimento a titolo accessorio” [diciasettesimo considerando e art. 2 cpv. , lett.c), dir. n. 93/22/CEE).
Bisogna però prestare attenzione sul piano delle condotte, poiché non è certo in ermeneutica se, per rendere il servizio d’investimento “professionale”, occorra anche l’abitualità.
Per quanto riguarda lo svolgimento dei servizi ”nei confronti del pubblico”, ciò significa semplicemente che l’attività deve essere rivolta a soggetti terzi (AA.VV., Testo unico della Finanza, cit., loc. ult. cit.).; di guisa che la riserva di cui all’art.18, comma 1, TUIF, non si applica a quelle imprese, la cui attività consiste nel fornire un servizio di investimento esclusivamente endo-gruppo, cioè a imprese figlie, a imprese madri, a impresa figlie della impresa madre comune (op. loc. ultt. citt.; Portale, in Riv. soc.,1992, p. 83).
Per contro,  la riserva opera anche laddove i servizi d’investimento siano rivolti a un numero limitato di persone (AA.VV., Testo unico della finanza, cit., p. 138). 
Dal tenore letterale dell’art.18, primo comma, T.U.F. – in una con la sua ratio – si desume che, affinché operi la riserva soggettiva per lo svolgimento dei servizi d’investimento, occorre la contemporanea sussistenza dei due elementi di cui sopra: cioè a dire sia l’esercizio “professionale” – di uno o più servizi d’investimento in capo ad una impresa -, sia l’esercizio di uno o più servizi d’investimento (da parte dell’impresa stessa) “nei confronti del pubblico”.
Oltre che nel primo comma dell’art. 18 T.U.F., l’avverbio “professionalmente” e la locuzione “nei confronti del pubblico” sono contemplate anche nel terzo comma dell’articolo medesimo.
Trattasi delle modalità con le quali le società finanziarie, iscritte nell’elenco speciale di cui all’art. 107 T.U.B., possono esercitare (soltanto) due servizi d’investimento (come già sopra ricordato): la negoziazione per conto proprio di strumenti finanziari e il collocamento.Tale ultima norma è in correlazione antitetica con l’art. 113 T.U.B., dove è previsto che “l’esercizio in via prevalente, non nei confronti del pubblico, delle attività indicate nell’art. 106, comma 1, [T.U.B.: n.d.r.], è riservato ai soggetti iscritti in un’apposita sezione dell’elenco generale” di cui all’art. 106 T.U.B..
Si è così osservato che l’esercizio professionale nei confronti del pubblico, riferito alle attività proprie degli intermediari iscritti nell’elenco generale di cui all’art. 106 T.U.B. – ed eventualmente anche nell’elenco speciale di cui all’art. 107 T.U.B. – è contraddistinto da uno svolgimento prevalente delle attività riservate, il quale esercizio non è occasionale né meramente strumentale ad   altre attività (AA.VV., Testo Unico delle leggi in materia bancaria e creditizia,
cit., p. 1819).
E, se tale spunto mette a fuoco il carattere della professionalità, per ciò che concerne la nozione di “nei confronti del pubblico”, di nuovo ci troviamo di fronte a una espressione che non deve trarre in inganno l’operatore o l’interprete.
Il mero rivolgere l’attività riservata a terzi significa svolgerla nei confronti del pubblico (op. ult. cit., p. 1820).
Mi pare si possa dire che, nell’art. 18, terzo comma, T.U.F., il riferimento testuale della norma al carattere “professionale” delle attività riservate – nonché il riferimento al fatto che esse sono “esercitate nei confronti del pubblico” – tratteggiano una riserva subordinata a due condizioni, le quali vanno intese in senso sostanzialmente eguale a quanto si è detto – sulle medesime – a proposito della riserva di cui al primo comma dell’art. 18 T.U.F..
 
 
4.- Il “collocamento” quale servizio d’investimento riservato.Il c.d. collocamento diretto. La nozione di “sollecitazione all’investimento” e la sua possibile mutazione prossima in ragione della recente direttiva comunitaria sul prospetto
 
4.1.- Una definizione del servizio (d’investimento) del collocamento, essenzialmente condivisa in dottrina, è presente in un (pur risalente) pronunciamento della CONSOB.
Osserva quest’ultima che il servizio in parola “tipicamente si caratterizza per essere un accordo tra l’emittente (o l’offerente) e l’intermediario collocatore, finalizzato all’offerta al pubblico, da parte di quest’ultimo, degli strumenti finanziari emessi, a condizioni di prezzo e (frequentemente) di tempo determinate” (CONSOB, comunicazione n. SGE/RM91003489 del 27 giugno 1991, in Boll. Consob, 1991, fasc. 6, p. 71 s.).
Quindi, nella ipotesi in cui un intermediario intenda collocare strumenti finanziari da esso stesso previamente acquistati, l’operazione va divisa concettualmente in due parti: l’acquisto degli strumenti finanziari, il quale non è un’attività riservata; e il successivo collocamento in senso stretto, il quale invece è attività riservata.
Inoltre, stante la centralità dell’accordo fra intermediario ed emittente – od offerente – nella nozione di servizio di collocamento, è stato tratto il seguente corollario: non vi è servizio di collocamento allorquando gli strumenti finanziari, oggetto dell’offerta, sono “prodotti” dallo stesso soggetto, sia esso un intermediario o meno (AA.VV., I contratti del mercato finanziario, cit., t. II, p. 1003, con riferimenti alla nota 21).
Per la medesima ragione, è legittima – e non necessita di apposita autorizzazione alla prestazione del servizio di collocamento – l’attività di vendita dei propri strumenti finanziari, posta in essere direttamente dall’emittente (op. ult. cit., p. 1003 s.).
Ciò non significa – si badi bene – che in questa ultima ipotesi non si applicano le norme poste a tutela dell’investitore oblato. Significa invece che, per svolgere attività di “collocamento diretto”, non occorre essere né una banca o una SIM, né una società finanziaria iscritta nell’elenco speciale di cui all’art. 107 T.U.B..
 
4.2.- Ora però, da queste attestazioni negative, bisogna mettere a fuoco il dato positivo.
Che cosa occorre – che cosa è sufficiente, per così dire – acciocché un soggetto possa procedere a un “collocamento diretto”? E’ configurabile un “collocamento diretto” di “prodotti finanziari”, anziché di (soli) “strumenti finanziari”? Se sì, che cosa occorre per effettuare un tale collegamento diretto di prodotti finanziari?
Anzitutto va ribadito che il collocamento in generale è il contratto, tra emittente e collocatore, in forza del quale si procede ad una offerta al pubblico.
Nel caso peculiare del c.d. collocamento diretto, se è lo stesso emittente a procedere all’offerta, quest’ultima – in una con il soggetto emittente diretto che la pone in essere – soggiacciono alle comunque alle disposizioni di cui agli artt. 94-101 T.U.F..
Tali disposizioni non dettano una “riserva di attività”, bensì regolano lo svolgimento dell’offerta con una ratio essenziale di tutela dell’investitore.
Di guisa che il collocamento diretto non soltanto può essere posto in essere anche da soggetti diversi da banche e SIM e società finanziarie iscritte nell’elenco speciale di cui all’art. 107 T.U.B., ma – per la medesima ragione della coincidenza tra emittente e offerente e dunque in assenza di un contratto bi-soggettivo di collocamento, quale attività riservata – il collocamento diretto, in tanto in quanto osservino le disposizioni di cui agli artt. 94-101 T.U.F., può essere posto in essere da qualsivoglia soggetto, senza necessità che il soggetto medesimo sia autorizzato ad attività riservate (AA.VV., I contratti del mercato finanziario, cit., t. II, p. 1010).
Ergo:
– posto che il collocamento diretto non è attività subiettivamente riservata;
– posto che al collocamento diretto si applicano le norme sulla sollecitazione all’investimento;
– posto che, al terzo comma dell’art. 94 T.U.F. (il primo articolo in tema di sollecitazione all’investimento), la legge fa menzione non già degli strumenti finanziari, bensì dei “prodotti  finanziari”;
– posto che CONSOB, nella citata (supra, sub-par. 4.1) comunicazione del 1992 in punto di collocamento diretto (comunicazione condivisa in dottrina) ai “prodotti finanziari” (e non già agli strumenti finanziari) fa testuale riferimento;
– tutto ciò posto, mette conto di chiedersi se – e in quali termini di disciplina – sia possibile un collocamento diretto di prodotti finanziari.
Il rapporto di contenente e contenuto, sussistente tra la nozione di “prodotti finanziario” e quella di “strumenti finanziari” è gia stata individuata. Vi è da aggiungere che, all’art. 1, comma 1, lett. t), T.U.F., è data la seguente definizione di “sollecitazione all’investimento”: “ogni offerta, invito a offrire o messaggio promozionale, in qualsiasi forma rivolti al pubblico, finalizzati alla vendita o alla sottoscrizione di prodotti finanziari. (…)”.
Quindi, su di un piano logico-giuridico, se ne deduce la possibilità di un collocamento diretto di prodotti finanziari, senza che l’emittente-offerente sia autorizzato al servizio d’investimento (riservato) del (contratto di) collocamento.
Ciò che suona strano, nell’assunto appena formulato, è l’idea della “emissione” di un prodotto finanziario.
Credo che questo imbarazzo sia facilmente superabile, sol che si pensi che non tutti gli strumenti finanziari sono valori mobiliari, essendo strumenti finanziari anche i contratti derivati.
Allora è evidente che, anche per i contratti derivati, il collocamento diretto di strumenti finanziari delinea un “emittente” sui generis, che coincide con l’offerente/il collocatore. Un “emittente” sui generis che ragionevolmente può essere pensato come colui il quale è, in prima persona, sia l’offerente sia la controparte del destinatario dell’offerta del “derivato”. Di talché lo strumento finanziario, costituito dal derivato, è fatto proprio dall’investitore senza alcuna intermediazione.
Quanto all’eventuale collocamento diretto di un prodotto finanziario, forse molto può dipendere dalla  strutturazione del singolo prodotto,
Se il prodotto coinvolge, come forma d’investimento e come contratto o plesso di contratti, soltanto due soggetti che stipulano – l’emittente lato sensu e l’investitore -, allora di collocamento diretto ha senso parlare in ragione dell’assenza di un contratto di collocamento tra l’emittente medesimo e colui il quale offre il prodotto – similmente a quanto accade nel collocamento diretto di derivati di cui sopra.
Se invece il prodotto finanziario è congegnato in maniera tale per cui l’investimento comporta anche l’instaurazione di rapporti contrattuali tra l’investitore e uno o più soggetti diversi dal soggetto offerente il prodotto, allora quest’ultimo soggetto assume inevitabilmente – in tutto o in parte – la posizione di un intermediario, il quale ex lege deve essere autorizzato a stipulare il contratto di collocamento (quale servizio d’investimento riservato) con quel soggetto terzo – o quei soggetti terzi – cui l’investitore, se accetta l’offerta del prodotto, si lega con uno o più contratti della più varia natura all’interno dell’investimento finanziario.
Non mi parrebbe invece corretta una tesi, secondo cui si avrebbe collocamento diretto di prodotti finanziari, ogniqualvolta l’offerente coincida con il soggetto che ha “strutturato” – o “ideato” o “configurato” – il prodotto.
Tale tesi infatti, ancorché per certi versi suggestiva, trascura l’esigenza di protezione dell’investitore insita nella riserva del servizio d’investimento consistente nel collocamento, cioè nella stipulazione di un contratto ad hoc – soggetto alla disciplina generale sullo svolgimento dei servizi d’investimento – tra l’intermediario autorizzato al collocamento e il soggetto/i soggetti, coi quali l’investitore instaura un rapporto contrattuale in virtù della struttura dell’investimento offerto (su tale ratio della riserva del collocamento, vedi AA.VV., op. ult. cit., t. II, p. 1004 ss.).
 
4.3.- La nuova direttiva comunitaria sul prospetto (n. 2003/71/CE) – la quale è cosa diversa dalla nuova direttiva sugli strumenti finanziari – contempla una novità di non poco momento, in punto di definizione di “sollecitazione all’investimento”.
Il legislatore comunitario, sul punto, così dispone:
– è sollecitazione all’investimento “una comunicazione rivolta a persone, in qualsiasi forma e con qualsiasi mezzo, che presenti sufficienti informazioni sulle condizioni dell’offerta e degli strumenti finanziari offerti così da mettere un investitore in grado di decidere di acquistare o di sottoscrivere tali strumenti finanziari”.
Come è stato osservato (AA.VV., L’ordinamento finanziario italiano, cit., p. 622 s.), questa formulazione non si pone in contrasto con l’attuale art. 1, comma 1, lett. t), T.U.F. per quel che concerne l’impostazione a tutela dell’investitore. Trattasi, cioè, di una impostazione rigorista, tale per cui la disciplina in tema di sollecitazione diventa applicabile, in linea generale, già in presenza di elementi decisamente inferiori a una offerta massiva e pubblicizzata.
Tuttavia, in armonia col venir meno del prodotto finanziario nella nuova direttiva sui mercati, la sollecitazione all’investimento siccome tale, nella nuova definizione della direttiva sul prospetto, non ha più a oggetto la più ampia congerie dei prodotti finanziari, bensì esclusivamente la ben più ristretta sfera degli strumenti finanziari.
Ora, posto che il legislatore comunitario – attraverso la nuova definizione della “sollecitazione all’investimento” nel senso appena detto – ha ristretto l’area di applicazione delle norme poste a soddisfacimento del need of protection degli oblati (gli attuali artt. 94-101 T.U.F.), è stato osservato che il legislatore italiano, in sede di attuazione della direttiva sul prospetto, potrebbe anche optare per il mantenimento, sul punto, di una disciplina più rigorista quale è quella attuale. Quest’ultima, infatti, assoggetta agli artt. 94-101 T.U.F. – in una con le disposizioni regolamentari attuative – sia le offerte di strumenti finanziari sia le offerte di prodotti finanziari (AA.VV., L’ordinamento finanziario italiano, cit. p. 623).
Peraltro, qualora il legislatore italiano seguisse l’assetto della direttiva comunitaria del 2003 sul prospetto – assetto incentrato sugli strumenti finanziari, o comunque escludente il concetto di prodotto finanziario quale forma d’investimento per antonomasia da tutelare (nella sollecitazione e dunque coi prospetti) -, ci si troverebbe a dovere fronteggiare, in prassi, situazioni non facilmente risolvibili – siccome borderline -, in termini di applicazione o meno delle norme sul collocamento e sul prospetto.
Mi riferisco ai casi di offerte aventi ad oggetto prodotti finanziari i quali, pur non esaurendosi in uno o più strumenti finanziari (ché attorno a tali strumenti il congegnato prodotto offerto ha una sorta di “corona circolare” di contratti), determinano comunque, fra le altre cose in capo all’investitore, una – anche temporanea – posizione di possesso di valori mobiliari o di parte in un contratto derivato.
Nelle more del legislatore italiano in punto d’attuazione della direttiva comunitaria sui prospetti, la Commissione CE ha varato il regolamento d’attuazione n. 809/2204 del 29 aprile 2004.
In Italia la Commissione Nazionale per le Società e la Borsa, per parte sua e per quanto nei suoi poteri, è in itinere di modifica del proprio regolamento emittenti” (inter alia dedicato al prospetto per l’offerta pubblica); e ciò attraverso un lavoro di raffronto tra la normativa italiana (primaria e secondaria) oggi vigente in materia di sollecitazione all’investimento e l’ultima direttiva comunitaria sul prospetto. In quest’ultimo contesto si colloca – a titolo esemplificativo – il documento CONSOB del 25 luglio 2005, ove però – piuttosto stranamente – leggesi, al par. 1.2, che “le definizioni di sollecitazione all’investimento e strumenti finanziari non presentano punti di contrasto sostanziale con la direttiva”. Dico stranamente perché, anche ad una superficiale lettura della definizione di “sollecitazione all’investimento” nell’art. 1, comma 1°, lett. t), T.U.F. – in una con gli artt. 94-100 T.U.F. -, tosto ci si avvede del fatto che lo status juris italiano odierno è maggiormente protettivo degli investitori, assoggettando le offerte di tutti i prodotti finanziari – e dunque tutte le offerte all’investimento (finanziario) – alle regole sulla sollecitazione; laddove invece la direttiva comunitaria sul prospetto stringe il cerchio di protezione ai soli strumenti finanziari.
In ogni caso rimane ferma la non-applicazione delle norme sulla sollecitazione all’investimento, laddove gli oblati sono tutti e soltanto “operatori qualificati” (li si vedano all’art. 31 di CONSOB, reg. intermediari).
 
 
5.- La “offerta fuori sede” come attività diversa dal (servizio d’investimento) di “collocamento”. La disciplina speciale del collocamento fuori sede. L’obbligo di avvalersi di promotori finanziari
 
5.1.- Alla “offerta fuori sede” sono dedicati gli artt. 30-32 T.U.F., in una con le disposizioni regolamentari delegate.
Un elemento della offerta fuori sede è quella del “collocamento presso il pubblico”.
A una prima esclusione di tale elemento – dunque alla esclusione delle norme in tema di offerta fuori sede – conduce il d.m. 26 giugno 1997, n 329, il quale esclude che costituiscano “pubblico” le società facenti parte dello stesso gruppo.
E ciò significa, a mio avviso, stesso gruppo dell’emittente o dell’offerente, sulle orme dei punti a) e b) dell’art. 30, primo comma, T.U.F.. A voler essere più rigoristi, forse si potrebbe dire società dello stesso gruppo dell’offerente, visto che il potenziale investitore è contattato dall’intermediario, salvo il caso del collocamento diretto di cui si è detto.
Alla luce, poi, del terzo comma dell’art. 30 T.U.F., non si applica mai la disciplina dell’offerta fuori sede quando l’offerta è effettuata nei confronti di “investitori professionali, così come definiti della CONSOB.
Evidente è la ratio della norma “esentativa”: no need of preotection per questo genere di oblati (CONSOB, reg. intermediari, art. 36, comma 3, laddove i soggetti sono fatti coincidere con gli “operatori qualificati” di cui all’art. 31, comma 2, stesso regolamento).
La stessa CONSOB poi, in attuazione dell’art. 36, comma 3, T.U.F., ha stabilito appunto che non costituisce offerta fuori sede quella posta in essere nei confronti degli “operatori qualificati” di cui all’art. 31 cpv. dello stesso reg intermediari.
Trattasi di speciali categorie di investitori, nei confronti dei quali (sempre per l’assenza del need of protection) non si applicano neppure talune regole di comportamento in ordine alla prestazione dei servizi, e non si applica finanche la disciplina della sollecitazione all’investimento, stante il disposto dell’art. 100, comma 1, lett a), T.U.F..
 
5.2.- in qesto contesto contesto, s’impone però una distinzione essenziale:
(i) l’offerta fuori sede, se fatta solo a operatori qualificati, non soggiace tout court alla normativa di settore (vi è cioè, in tal caso, una totale disapplicazione della normativa stessa);
(ii) per la sollecitazione, alle stesse condizioni, vale quanto detto sub (i);
(iii) diversamente, in materia di prestazione di servizi d’investimento il fatto che destinatari siano soltanto operatori qualificati non determina una totale disapplicazione della normativa di settore, ma soltanto delle norme comportamentali specificamente richiamate dall’art. 31, primo comma, reg. intermediari di CONSOB (AA.VV., I contratti del mercato finanziario, cit., p. 1021.  
L’offerta fuori sede, in positivo, è promozione e collocamento – presso il pubblico – di strumenti finanziari e/o di prodotti finanziari e/o di servizi d’investimento.  Con la caratteristica per cui la promozione/il collocamento vi sono:
(*) se l’oggetto è uno strumento o un prodotto finanziario, e l’offerta avviene in luoghi diversi dalla sede legale o dalle dipendenze dell’emittente, del proponente l’investimento o del soggetto incaricato della promozione o del collocamento;
(**) se l’oggetto è un servizio d’investimento, e l’offerta avviene in luogo diverso dalla sede legale o dalle dipendenze di chi presta, promuove o colloca il servizio [art. 30, comma 1, lett. a) e b), T.U.F.]. 
L’abilitazione dell’offerta fuori sede spetta in primis a i soggetti autorizzati al servizio di collocamento, sì come questo ultimo risulta nell’art. 1, comma 5, T.U.F. (ex art. 30, comma 3, T.U.F.).
Ciò però non significa che offerta fuori sede e collocamento siano eguali.
Infatti, a differenza del servizio di collocamento, l’offerta fuori sede può avere ad oggetto anche:
a) prodotti diversi dagli strumenti finanziari e dai servizi d’investimento (art. 30, comma 5, T.U.F.): il che vale però soltanto per le SIM e le imprese d’investimento non italiane;
b) prodotti finanziari diversi dagli strumenti finanziari e dalle azioni o strumenti finanziari che permettono di acquisire o sottoscrivere azioni, nonché diversi dai prodotti assicurativi emessi da imprese di assicurazione [ex combinato disposto degli artt. 30, comma 9, e 100, comma 1, lett f), T.U.F.]. Per questi “prodotti”, le banche e le SIM non soltanto sono abilitate, ma vanno esenti dall’obbligo di avvalersi del promotore finanziario (AA.VV., op. ult. cit., p. 1029).
Accanto al diritto di recesso entro sette giorni, attribuito all’investitore dal comma 6 dell’art. 30 T.U.F. -, un tratto essenziale delle offerte fuori sede è costituito dall’obbligo, posto in capo ai soggetti abilitati, di avvalersi di un promotore finanziario (art. 30, comma 1, T.U.F.). 
 
5.3.- Nonostante il disposto di cui all’art. 31 cpv., secondo periodo, T.U.F., parte della dottrina ritiene che il promotore, contrariamente ad una corriva affermazione, non è necessariamente mono-mandatario: e ciò purché il fatto di avere mandati da soggetti diversi sia noto ai mandanti e non si traduca in situazioni di conflitto d’interessi (ed infatti di “interesse” la norma fa menzione: AA.VV., Il testo unico della intermediazione finanziaria, cit., p.262).
Il promotore può operare quale dipendente, agente, o mandatario (art. 30 cpv. T.U.F.), ed è iscritto in apposito albo albo unico istituito presso la CONSOB, cui si accede superando un esame.
La violazione dell’obbligo di avvalersi del promotore integra gli estremi del delitto di cui all’art. 166 cpv., lett. c), T.U.F..    
I promotori non sono necessari nelle ipotesi di offerte fatte fuori da sede e dipendenze dell’offerente a investitori professionali. Ché in tali ipotesi – come abbiamo visto – non sussiste in radice una offerta fuori sede tout court.Detto altrimenti, in tali ipotesi vi è totale disapplicazione della normativa sull’offerta fuori sede (AA.VV., L’ordinamento finanziario italiano, cit., p. 503).
Per l’iscrizione all’albo dei promotori finanziari, occorre anzitutto che il candidato abbia una serie di requisiti, cui fa seguito una procedura regolata dalla CONSOB, all’interno della quale è previsto un esame (, op. ult. cit., p. 604).
 
 
6.- La “sollecitazione all’investimento”
 
Come già più volte anticipato, la disciplina della sollecitazione all’investimento (la quale sollecitazione, in una con le OPA e le OPS, è sussunta dal T.U.F. sotto il titolo di “appello al pubblico risparmio”) si coagula intorno agli articoli da 96 a 100 T.U.F., cui deve aggiungersi la normazione regolamentare delegata.  
La procedura si articola sui seguenti adempimenti e/o passaggi procedurali:
a) comunicazione a CONSOB con bozza di prospetto informativo;
b) approvazione del prospetto da parte della CONSOB (entro un termine di 40 giorni – salvo interruzioni -, qualora si tratti di prodotti finanziari non quotati né diffusi tra il pubblico);
c) pubblicazione del prospetto;
d) tutto quant’altro stabilito nel T.U.F. e nella regolamentazione di CONSOB.
Giova ribadire che, allo stato attuale, esiste una nuova direttiva comunitaria sul prospetto, non ancora attuata nell’ordinamento italiano e dalla quale scaturiranno novità sul tema (dir. 2003/71/CE).
L’art. 100 T.U.F., attuato con reg. emittenti CONSOB, contempla casi di inapplicabilità totale della disciplina sulla sollecitazione all’investimento:
a) offerte rivolte esclusivamente ad investitori istituzionali, quali identificati dall”art. 31, reg. intermediari di CONSOB; e
b) offerta con unnumero di destinatari inferiori a 200 soggetti, ovvero
– offerta il cui importo complessivo non supera 40.000 Euro (CONSOB, reg. n. 11971/1999, art. 33);
c) offerta di soli prodotti finanziari emessi da banche, però diversi dalle azioni o dagli strumenti finanziari che permettono di accquisire o sottoscrivere azioni;
d)  offerta di soli prodotti assicurativi.
Unitamente alla (sopra evidenziata col carattere corsivo di “ovvero”) alternatività tra (b) e (c), la dottrina ha precisato che il computo dei 200 destinatari “deve essere correttamente riferito all’operazione riguardata a priori nella sua astratta configurazione negoziale, e non già a posteriori nel suo concreto svolgimento o nei suoi effetti. Così, perché possa qualificarsi come pubblica, l’operazione deve essere idonea a sollecitare all’investimento almeno duecento soggetti: essere, in altre parole, diretta a un gruppo composto da almeno duecento unità” (AA.VV., Testo unico della finanza, cit., p.842).
Sul piano della ratio, al di sotto delle soglie quantitative – e segnatamente quella del numero di destinatari – l’offerta, ai fini degli artt. 94 ss. T.U.F., non è quindi delineata come “pubblica”. Quanto invece alla ratio delle esenzioni di cui sopra ai punti (c) e (d), essa è assai difficilmente ravvisabile. Infatti non pochi prodotti, anche se emessi da banche o da compagnie assicurative, pongono serie esigenze di tutela dell’investitore in termini di disclosure, specie quando codesti prodotti sono tecnicamente complessi, hanno una natura d’investimento difficilmente revocabile in dubbio, oppure contengono al loro interno una componente chiaramente riconducibile a strumenti finanziari. Basti pensare alle unit linked o alle polizze strutturate con cedole (cfr.AA.VV., L’ordinamento finanziario italiano, cit., p. 629).  
 
 
7.- Sulle società finanziarie di cui agli artt. 106, 113, e 107 T.U.B.
 
7.1- Il titolo V del d.lgs. 385/1993 (T.U.B.), rubricato “Soggetti operanti nel settore finanziario” all’art. 106 primo comma T.U.B., dispone testualmente quanto segue:
“L’esercizio nei confronti del pubblico delle attività di assunzione di partecipazioni, di concessioni di finanziamenti sotto qualsiasi forma, di prestazione di servizi di pagamento e di intermediazione in cambi è riservato a intermediari finanziari iscritti in apposito elenco tenuto dall’UIC”.
In generale, la concreta individuazione della nozione di ”attività finanziaria” risulta non agevole, semmai dando origine a perplessità teorico-pratiche – specie allorquando lo statuto di una società indichi quale oggetto sociale un variegato elenco di attività di natura più o meno finanziaria.
Risulta spesso difficile operare una riconduzione di questa o quell’attività alle fattispecie astratte contemplate. E ciò dipende sia dallo sviluppo, nella prassi, di una variegata e sempre crescente tipologia di operazioni finanziarie e di modalità di organizzazione delle stesse nell’ambito di un’attività imprenditoriale, sia per il rapido susseguirsi – negli ultimi anni – di numerosi provvedimenti normativi in materia.
Con riferimento specifico alle società finanziarie di cui all’art. 106 T.U.B., il Ministero del Tesoro (ora Economia e delle Finanze), sentita la Banca d’Italia e l’Ufficio Italiano Cambi, specifica il contenuto delle attività di cui al comma 1 sopra riportato.
Ed è ancora il Ministero stesso a dettare in quali circostanze ricorre l’esercizio nei confronti del pubblico, il quale è l’elemento – insieme appunto al tipo di attività – che disegna i confini della riserva di cui all’art. 106.
Il d.m. del tesoro 6 luglio 1994, integrato dal d.m. 28 giugno 1996 e dal d.m. 1 settembre 1998, specifica il contenuto delle attività menzionate dall’art.106, primo comma, T.U.B.. Tale decreto, al suo art. 7, ha altresì stabilito che gli intermediari finanziari possono esercitare, fatte salve le riserve di attività previste dalla legge, ‘anche le attività previste dall’art. 1, comma 2, lett.f), nn. da 2 a 12 e n. 15 T.U.B., oltre a quelle strumentali o connesse a quelle finanziarie svolte, delle quali è fornito un elenco a titolo indicativo nell’art. 8 dello stesso d.m..Naturalmente la elencazione, così come il contenuto delle singole attività, possono essere ampliate da eventuale e ulteriore provvedimento dell’autorità di Governo. 
 
7.2- Per quanto riguarda la assunzione di partecipazioni (la prima attività indicata nel primo comma dell’art. 106 T.U.B.), il decreto menziona l’acquisizione, la detenzione e la gestione dei diritti, rappresentati o meno da titoli, sul capitale di altre imprese, che ha come obiettivi la riorganizzazione aziendale, lo sviluppo produttivo e/o il soddisfacimento delle esigenze finanziarie dei soggetti partecipati e la successiva vendita finale delle partecipazioni stesse.
Affinché si configurino i requisiti richiesti, le assunzioni in partecipazioni devono essere finalizzate all’alienazione e, per il periodo di detenzione, devono essere caratterizzate da interventi volti alla riorganizzazione aziendale o allo sviluppo produttivo o al soddisfacimento delle esigenze finanziarie delle imprese partecipate – anche tramite il recepimento del capitale di rischio.
Si individua in tal modo un’attività legata ad operazioni finanziarie, piuttosto che alla gestione nei modi tipici di una holding. E ciò è in armonia con l’esclusione dell’applicazione dell’art. 106 alle società finanziarie che operano all’interno di un gruppo, per mancanza – secondo il decreto ministeriale – dello svolgimento dell’attività finanziaria nei confronti del pubblico.
 
7.3.- Quanto alla concessione di finanziamenti sotto qualsiasi forma (seconda attività menzionata nel primo comma dell’art. 106 T.U.B.), il decreto ministeriale identifica tale attività con la erogazione di somme di denaro a favore di privati o di imprenditori privati, oltre che di ”credito al consumo”. Si aggiungono: la concessione di crediti, compreso il rilascio di garanzie sostitutive del credito e di impegni di firma, nonché ogni tipo di finanziamento connesso con una vasta gamma di operazioni, come la locazione finanziaria, il credito al consumo, il credito ipotecario, il prestito su pegno, il rilascio di garanzia.
E se il primo comma dell’art. 106 T.U.B. riserva l’esercizio di alcune attività finanziarie agli intermediari iscritti nell’apposito elenco, il secondo comma consente a codesti intermediari anche l’esercizio di ulteriori attività finanziarie, purché non riservate dalla legge ad altri intermediari.
Ciò rientra in un disegno complessivo, che include ovviamente le banche e le imprese di investimento.
Un disegno il quale mira a creare, accanto alle attività riservate a ciascun intermediario, un’area comune di attività esercitabili, la quale è suscettibile di variare nel tempo in virtù dell’evoluzione dei mercati finanziari e delle regole introdotte dalla normativa comunitaria.
 
7.4.- Per quanto riguarda poi le società finanziarie di cui all’art. 113 T.U.B., il dettato del primo comma è assai chiaro. Nell’apposita sezione dell’elenco generale, tenuto dall’UIC, debbono essere iscritti quei soggetti che svolgono sì le attività di cui all’art. 106 (v. supra in questo paragrafo), ma non nei confronti del pubblico.
E qui va sottolineato che, per non essere svolta nei confronti del pubblico, l’attività deve essere svolta o a vantaggio dello stesso agente, ovvero in alternativa a vantaggio di una società appartenente allo stesso gruppo; tertium non datur.
 
 
7.5. – All’art. 107 T.U.B., infine, è contemplato un elenco speciale, tenuto dalla Banca d’Italia, nel quale deve essere iscritta una categoria peculiare d’intermediari finanziari, riconducibile alle holding di partecipazione (holding “di famiglia”, ad esempio).
Rispetto a questa attività relativamente statica, l’attività dinamica di merchant banking è invece ricondotta all’art. 106, per siffatta azione intendendosi l’assunzione di partecipazioni nei confronti del pubblico, non finalizzata alla immobilizzazione delle medesime, bensì alla gestione/allo smobilizzo di esse nel breve/medio periodo di tempo (così l’Ufficio Italiano dei Cambi, a http://uic.it/uicdcd/owa/p_grafici.crea_pag_pres).
 
 
B).- Conclusione
 
Ecco che, sulla scorta del percorso sin qui compiuto, si possono tirare le fila del nostro tema.
L’impresa non autorizzata può:
          prestare servizi d’investimento – così come elencati all’art. 1, comma 5, T.U.I.F. – a terzi in guisa non professionale, laddove non-professionalità significa carattere minoritario – in tutti i sensi – di questa attività rispetto ad altre;
          prestare servizi d’investimento a imprese endo-gruppo;
          prestare a terzi tutti i c.d. servizi accessori, così come elencati nell’art. 1, comma 6, T.U.I.F.;
          prestare consulenza, in materia di strumenti finanziari, a emittenti e/o investitori. Sul punto della consulenza su strumenti a investitori, occorre prestare attenzione alla prossima attuazione italiana della direttiva sui mercati, laddove tale attività è destinata a diventare riservata;
          procedere a collocamento/offerta-al-pubblico di strumenti/prodotti finanziari da sé emessi/sottoscritti-quale-parte (collocamento diretto). Qui la nuova direttiva su mercati e strumenti, una volta attuata in Italia, potrebbe dischiudere, alla impresa in parola, la possibilità di procedere a collocamento/offerta al pubblico – nei limiti della non-professionalità/prevalenza – di prodotti finanziari che non sono strumenti finanziari e che non sono più necessariamente emessi/sottoscritti dall’impresa stessa;
          procedere a offerta fuori sede di strumenti finanziari nei confronti di imprese appartenenti allo stesso gruppo  e nei confronti di investitori professionali;
          procedere alla sollecitazione all’investimento – in sede o fuori sede – di prodotti/strumenti finanziari nei confronti di operatori qualificati;
          fare offerte al pubblico di prodotti/strumenti finanziari, senza superare le soglie fissate dalla Consob per la sollecitazione all’investimento (meno di duecento oblati, ecc.) – e senza che ciò assurga ad attività professionale dell’impresa;
          svolgere attività di acquisto e smobilizzazione, nel breve/medio termine, di strumenti finanziari per conto proprio o d’imprese endo-gruppo;
          possedere e amministrare partecipazioni quali immobilizzazioni, senza che ciò assurga a elemento prevalente nella complessiva attività d’impresa. 
 
FEDERICO MARIA GIULIANI
LL. M., Int’l Tax’n, Regent, VA, US
Già Professore a contratto nella Università degli Studi del Piemonte Orientale
Avvocato in Milano

Giuliani Federico Maria

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