Le denominazioni locali e la circolazione dei corrispondenti prodotti nel territorio dell’Unione europea

Rubino Vito 08/09/11
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Sommario: 1) Introduzione: gli obiettivi della P.A.C. dopo il Trattato di Lisbona ed il ruolo delle indicazioni geografiche nel sistema; 2) la strutturazione di una protezione dell’origine “multilivello” per via giurisprudenziale; 3) problemi e prospettive; 3.1) la notorietà fra indicazione geografica e di provenienza; 3.2) tutela assoluta delle indicazioni di provenienza e proporzionalità ex art. 36 TFUE; 3.3) la circolazione delle indicazioni di provenienza nella U.E.: problemi e prospettive.

  1. Sebbene l’articolo 39 del nuovo Trattato sul Funzionamento dell’Unione europea abbia mantenuto con scelta in parte criticata[1] la stessa formulazione del precedente articolo 33 T.C.E.[2], evidenziando ancora richiami all’incremento produttivo ed alla assicurazione degli approvvigionamenti, il miglioramento qualitativo e l’apprezzamento economico dei fattori di produzione mantengono uno spazio determinante nella strategia di sviluppo rurale dell’Unione europea.

In questo ambito le denominazioni geografiche dei prodotti alimentari svolgono un ruolo fondamentale.

Il Libro Verde sulla qualità dei prodotti agricoli[3] ed il più recente pacchetto qualità[4] evidenziano infatti che la domanda di prodotti con un’origine determinata, nonostante le comprensibili variazioni conseguenti alla crisi economica, continua a garantire maggiore rimuneratività contribuendo in modo rilevante all’aumento del reddito agricolo: i profitti ottenuti dai produttori D.O.P. – I.G.P. sono superiori a quelli garantiti dai prodotti generici ed il mercato degli alimenti con riconoscimento dell’origine viene attualmente stimato in 21 miliardi di euro al consumo per anno, con una quota di export non inferiore al 18,4%[5].

Il successo di questo segmento ha determinato negli ultimi anni il moltiplicarsi di iniziative su scala nazionale volte ad evidenziare e valorizzare tradizioni produttive locali[6]. Conseguentemente il quadro giuridico è divenuto più complesso, rendendo necessario in più occasioni l’intervento dalla Corte di giustizia per fornire indicazioni sul rapporto fra le norme europee di riferimento e le diverse forme nazionali di tutela delle indicazioni di provenienza.

La materia ha così palesato non solo la rilevanza dei propri risvolti economici, ma anche la complessità per certi aspetti non ancora del tutto risolta delle questioni giuridiche ad essa sottese.

  1. Il regolamento 2081/92 CEE sulle denominazioni di origine ed indicazioni geografiche protette (oggi 510/06 CE)[7], con scelta in parte divergente dalla tradizionale impostazione internazionale[8], è tardivamente[9] intervenuto a regolamentare la materia delle denominazioni geografiche degli alimenti di qualità introducendo una distinzione fra i prodotti interamente ottenuti in un determinato territorio e che devono essenzialmente o esclusivamente le proprie caratteristiche a questo legame agro-ambientale (D.O.P.[10]) dai prodotti che vedono il proprio legame con la terra evocata dal toponimo ridursi anche ad una sola fase della produzione-trasformazione ed alla sola notorietà acquisita dal savoir faire locale (I.G.P.[11]).

La precisazione della portata della norma e la sua tendenziale completezza hanno posto anzitutto il problema di comprendere se ed entro quali limiti gli Stati membri abbiano conservato successivamente alla sua approvazione il potere di identificare, riconoscere e proteggere sul proprio territorio prodotti a denominazione geografica.

La nota sentenza Exportur[12] già nel 1991 aveva chiarito che le denominazioni comunemente chiamate indicazioni geografiche semplici, riferite a prodotti che abbiano acquisito nel tempo reputazione pur senza dipendere da specifici legami agro-ambientali con il luogo di origine, sono proteggibili dagli Stati membri senza con ciò violare le regole sulla libera circolazione delle merci.

In questo caso, infatti, “queste denominazioni possono (…) costituire per i produttori stabiliti nei luoghi che esse designano un mezzo essenziale per costruirsi una clientela”, sì da far rientrare l’eventuale tutela nazionale nelle eccezioni di cui all’art. 36 T.C.E. (oggi 36 TFUE) relative alla salvaguardia della lealtà commerciale e della proprietà industriale[13].

L’approvazione del regolamento 2081/92 CEE, se per un verso ha spinto la Corte ha dichiarare l’illegittimità anche sotto questo profilo[14] dei c.d. “marchi pubblici di qualità”[15], ha per altro verso resa necessaria una ulteriore precisazione sui confini di applicazione della norma.

Con la nota sentenza Warsteiner[16] la Corte ha chiarito che il regolamento ha ad oggetto solo le indicazioni geografiche per le quali esiste un nesso diretto tra una particolare qualità, la reputazione o un’altra caratteristica del prodotto da un lato, e la sua origine geografica dall’altro.

La puntualizzazione, secondo la Corte, rende “pacifico che le denominazioni geografiche semplici, che non implicano alcun rapporto tra le caratteristiche del prodotto e la sua origine geografica, non rientrano in questa definizione, e non possono pertanto trovare protezione in virtù del regolamento 2081/92 CEE. Tuttavia non vi è nulla nel Regolamento che indichi che tali indicazioni di origine geografica non possano essere tutelate in forza di una disciplina nazionale di uno Stato membro[17].

Se dunque la Corte ha ribadito la possibilità di proteggere le indicazioni di provenienza a livello nazionale anche dopo l’entrata in vigore del regolamento sulle DOP – IGP, con le due sentenze “BUD”[18] il Giudice comunitario si è spinto oltre nell’analisi del rapporto fra i diversi toponimi, dichiarando legittime forme di protezione reciproca assoluta delle indicazioni di provenienza indirette attuate dagli Stati membri con accordi internazionali che inibiscano l’uso del nome tutelato a prodotti di diversa origine a prescindere dall’esistenza di qualsivoglia rischio di “confusione” fra il prodotto originale e quello straniero[19].

Viceversa, secondo la Corte, la natura “esaustiva” del sistema D.O.P. – I.G.P. precluderebbe al nome geografico non registrato di un prodotto che possieda un legame qualitativo essenziale con la zona di origine tutela con sistemi di riconoscimento nazionali, poiché ciò potrebbe costituire un ostacolo alla piena ed incondizionata attuazione del regolamento su tutto il territorio della U.E.[20]

Infatti secondo la Corte il sistema creato dal regolamento 2081/92 CEE non assume valore “complementare” rispetto ai precedenti analoghi istituti giuridici nazionali, ma li sostituisce totalmente integrando le procedure decisionali nazionali e comunitaria in un unico strumento[21].

In altre parole laddove oggetto della protezione sia un prodotto che corrisponda alle definizioni di D.O.P. o I.G.P. contenute nel regolamento gli Stati membri non possono mantenere in vigore i precedenti “titoli” di riconoscimento e protezione o introdurne di nuovi, ma devono necessariamente procedere alla registrazione dell’indicazione geografica secondo le procedure previste dall’Unione europea[22].

L’insieme delle pronunce sinteticamente richiamate sembrerebbe così aver creato un sistema multilivello di tutela dei toponimi in cui a ciascuna denominazione corrisponde uno strumento più o meno esteso di protezione a seconda delle caratteristiche del prodotto, della sua importanza economica e della sua conseguente capacità di proiettarsi sui mercati internazionali.

Alla base di quella che potremmo definire una vera e propria “piramide” si potrebbero così collocare le denominazioni locali, la cui tutela dovrebbe poter essere garantita sia tramite gli strumenti di contrasto dell’illecito anticoncorrenziale, sia, ove lo Stato provveda in tal senso, attraverso norme ad hoc che inibiscano a chiunque non ne abbia titolo di fare uso del toponimo per prodotti che non corrispondano all’origine ed alle caratteristiche dell’alimento noto.

Al vertice si collocherebbero gli strumenti previsti dall’Unione europea (D.O.P. – I.G.P.) ed i relativi vantaggi: impossibilità della progressiva volgarizzazione su tutto il territorio U.E. della denominazione riconosciuta, creazione di una protezione “uniforme” del toponimo e di un valore aggiunto derivante dalla visibilità accordata dai segni comunitari.

  1. Il quadro descritto potrebbe sembrare sufficientemente chiaro ed esaustivo. In realtà le diverse sentenze richiamate lasciano aperti ancora alcuni margini di incertezza interpretativa di non secondaria importanza.

Un primo problema è costituito dalla effettiva esistenza di uno spazio concettuale e giuridico fra i toponimi tutelati ex reg. 510/06 CE e le denominazioni totalmente volgarizzate in cui possano trovare collocazione le c.d. indicazioni di provenienza.

Occorre in altre parole domandarsi se il fatto che l’I.G.P. possa fondarsi anche solo sulla “reputazione” che un alimento abbia acquisito nel tempo non sovrapponga di fatto questa categoria alle c.d. denominazioni geografiche semplici e, nel caso, quali conseguenze ne possano derivare per queste ultime.

Al riguardo occorre prendere atto che fra le due fattispecie non sembra esservi dal punto di vista sostanziale una notevole differenziazione. Si può forse osservare come il regolamento comunitario intenda riconoscere e proteggere solo le denominazioni di prodotti che possiedano comunque una “tradizione” e che siano, dunque, l’espressione di un particolare know-how produttivo formatosi nel tempo[23], mentre la notorietà delle indicazioni di provenienza si può acquisire anche in modo repentino per fattori occasionali (particolari eventi, campagne mass-mediatiche, investimenti pubblicitari di alcuni operatori interessati etc.). Tuttavia al di fuori dell’ipotesi in cui l’indicazione di provenienza non possieda ancora “l’anzianità” necessaria per ottenere il riconoscimento europeo i requisiti fondamentali sembrerebbero- almeno nella versione “basilare” delle I.G.P.- in larga misura condivisi.

Si può dunque concludere che laddove i toponimi possiedano i requisiti per un riconoscimento europeo non sia possibile garantirne la protezione con misure esclusivamente nazionali?

Nella sentenza Bud II la Corte afferma che il regolamento 510/06 CE “riveste una natura esauriente di modo che questo regolamento osta all’applicazione di un sistema di tutela (…) che conferisce ad una denominazione di origine una tutela in un altro Stato membro (…) quando siffatta denominazione di origine non ha costituito oggetto di una domanda di registrazione in forza di detto regolamento[24].

L’utilizzo ambiguo del termine “tutela” potrebbe lasciar intendere che sia preclusa agli Stati ogni forma di protezione e che, dunque, paradossalmente questi toponimi qualificati, se non registrati come D.O.P. – I.G.P., rimarrebbero privi anche di quelle forme di salvaguardia accordate invece alle indicazioni di provenienza.

In realtà leggendo i diversi passaggi motivazionali sul punto e confrontandoli con le altre versioni linguistiche della sentenza[25] si può forse tentare di ricostruire una coerenza complessiva della pronuncia ritenendo che la Corte non intenda in realtà negare agli Stati il potere di esercitare azioni di contrasto all’illecito anticoncorrenziale mediante approvazione di norme di protezione di questi toponimi dalle imitazioni.

Ciò, infatti, costituirebbe un inspiegabile discriminazione rispetto al trattamento riservato alle indicazioni di provenienza e contrasterebbe con la stessa disciplina sull’etichettatura e pubblicità degli alimenti[26] (di cui il regolamento 510/06 CE rappresenta norma complementare[27]) ove si vietano le etichette che possano trarre in inganno il consumatore sugli elementi essenziali del prodotto, fra cui l’origine[28].

Il Giudice europeo si preoccupa, piuttosto, di impedire che gli Stati, mantenendo in vita o introducendo ex novo sistemi di riconoscimento ed attestazione pubblica della qualità legata all’origine creino o conservino strumenti di costruzione di valore aggiunto potenzialmente competitivi con le D.O.P. – I.G.P. indebolendone agli occhi del consumatore il significato e l’apprezzamento[29].

In altre parole non sarebbe più concessa né concepibile l’introduzione su scala nazionale di un sistema di attestazioni pubbliche di qualità analogo alle D.O.C. antecedenti al regolamento 2081/92 CEE, cosicché l’illegittimità del “titolo” e la necessaria disapplicazione delle norme relative alla denominazione riconosciuta travolgerebbero anche le disposizioni specifiche dedicate al contrasto dei tentativi di imitazione della stessa[30].

Ciò, tuttavia, non impedirebbe il ricorso ai più generali strumenti di lotta alla contraffazione ed alla pubblicità ingannevole, il cui impiego è certamente concepibile anche a favore di questi toponimi a prescindere dalla loro registrazione nell’Unione europea e fors’anche la creazione di norme specifiche di protezione assoluta non del titolo, ma dell’indicazione geografica semplice che ne è alla base[31].

3.2. Chiarito come sopra il pensiero della Corte rimane un interrogativo sul limite di proporzionalità necessariamente collegato all’applicazione della deroga ex art. 36 TFUE per le indicazioni di provenienza.

Le pronunce richiamate hanno evidenziato la legittimità della tutela anche nella c.d. “forma assoluta”, ossia in assenza di qualsivoglia pericolo di confusione fra il prodotto originale e quello proveniente da un altro Stato.

In applicazione della giurisprudenza “Bud”, infatti, gli Stati hanno diritto di vietare l’uso dell’indicazione geografica semplice ancorché questo sia ispirato dalla semplice volontà di indicare sinteticamente una ricetta e sia chiaramente specificata la diversa provenienza dell’alimento[32].

La forza di simili provvedimenti nazionali- che per contenuti si avvicinano ad una privativa quale quella concessa per i marchi- pone quindi l’interrogativo sulla loro piena rispondenza al principio di proporzionalità, e, dunque, sulla possibilità di individuare misure meno afflittive per garantire il contemperamento dei diritti degli utilizzatori legittimi con gli interessi degli altri operatori economici ad una certa libertà commerciale[33].

La risposta all’interrogativo risiede nella corretta individuazione delle ragioni per le quali la Corte ha ritenuto legittimo questo livello di protezione e nella conseguente corretta identificazione del criterio applicativo del principio richiamato.

Se infatti si muove dal presupposto che la ratio della tutela sta nel diritto delle popolazioni di una determinata regione che hanno “inventato” e “promosso” il prodotto conosciuto con il toponimo di riferimento di trarne tutti i benefici economici è del tutto evidente che la diffusione sul mercato di alimenti con analoghe denominazioni realizzati all’estero avrebbe il potenziale di annacquare il valore del prodotto autentico ed al contempo di precludere la formazione dei presupposti per un eventuale salto futuro verso la I.G.P.[34]

Il danno arrecato ai legittimi utilizzatori dell’indicazione geografica non avrebbe, così, alcuna giustificazione né risulterebbe possibile individuare strumenti alternativi alla mera “preclusione” dell’uso del toponimo per garantire i diritti portati dalla denominazione in questione.

L’elemento di proporzionalità, dunque, deve essere individuato non nei limiti della tutela accordata ad un prodotto già noto, ma, piuttosto, nella limitazione della privativa ai soli nomi geografici che tale notorietà abbiano già raggiunto, ossia, in definitiva, nell’esistenza di una “ragione” per applicare la protezione[35].

3.3. Le riflessioni condotte evidenziano la possibilità di garantire ai toponimi una tutela forte nel proprio Paese di origine. Le vicende circolatorie dei prodotti contrassegnati con queste denominazioni sono, invece, condizionate dai limiti delle diverse legislazioni nazionali.

Non trattandosi di D.O.P. – I.G.P., infatti, questi alimenti non potranno godere di un regime di protezione uniforme su tutto il territorio dell’Unione eurpopea. Rimarranno così esposti alle diverse concezioni nazionali circa la meritevolezza della tutela ed ai conseguenti strumenti giuridici, o, in casi eccezionali, all’esistenza di Accordi internazionali che possano vincolare alcuni Stati membri[36].

Ciò che a livello nazionale può quindi godere di protezione “assoluta” potrebbe così rimanere esposto in altri Stati ad evocazioni mediante l’impiego di termini come “tipo”, “modo” “maniera” etc., o, in casi estremi, a vere e proprie preclusioni a causa della registrazione di marchi nazionali, nei limiti in cui ciò sia consentito[37].

L’unico limite a questa oggettiva debolezza delle indicazioni di provenienza è quindi individuabile nella tutela dei consumatori e della lealtà commerciale, e, dunque, nel profilo di possibile ingannevolezza delle etichette che ne facciano indebitamente uso. Con riferimento alle denominazioni di vendita, infatti,  la direttiva 2000/13 CE pur demandando agli Stati membri le relative scelte in assenza di specifica armonizzazione impone comunque il rispetto dei più generali principi di correttezza e trasparenza previsti dall’art. 2, in ciò peraltro in linea con gli artt. 5 e 6   della direttiva 2005/29 CE sulla pubblicità e le pratiche commerciali sleali[38].

La tutela di questi toponimi, dunque, pur se non legata a forme di riconoscimento pubblicistico, potrebbe trovare efficace copertura anche all’estero nelle disposizioni attuative di queste norme comunitarie la cui applicazione è senz’altro demandata ex officio agli Stati membri[39].

Naturalmente perché ciò possa effettivamente avvenire si renderà necessaria una adeguata sensibilizzazione degli Stati verso le indicazioni di provenienza, a tutt’oggi percepite come diritti minori nel complesso sistema multilivello che caratterizza le indicazioni geografiche nell’Unione europea.

Avv. Vito Rubino

Ricercatore di Diritto U.E., Facoltà di Giurisprudenza, Università degli Studi del Piemonte Orientale.

 


Il presente scritto costituisce la sintesi annotata dell’intervento tenuto al convegno “Dalla riforma del 2003 alla PAC dopo Lisbona. I riflessi sul diritto agrario, alimentare e ambientale” tenutosi a Ferrara nei giorni 6-7 Maggio 2011 ed espone i risultati della ricerca condotta dall’Unità locale dell’Università del Piemonte Orientale nel progetto PRIN 2007 dedicato a “Le norme dell’organizzazione mondiale del commercio e la conseguente riforma della PAC del 2003: riflessi sul diritto agrario, ambientale e alimentare italiani. Verso un’agricoltura sempre meno di prodotti e sempre più di servizi?” coordinato dal Prof. L. Costato e dal prof. L. Russo.

[1] Il Trattato di Lisbona ha in parte modificato la P.A.C. introducendo la procedura legislativa ordinaria in luogo di quella speciale per la maggior parte degli atti agricoli, revisionando la comitologia e incidendo sugli aspetti finanziari attraverso la nuova disciplina di bilancio. A fronte di ciò il Trattato, con scelta per certi versi inattesa, ha lasciato inalterati i riferimenti sostanziali della materia, mantenendo nella formulazione del nuovo articolo 39 T.F.U.E. una elencazione di obiettivi non del tutto coerenti con l’evoluzione della politica agricola comune degli ultimi decenni (e.g. garanzia della food security, stabilizzazione dei mercati ed assicurazione di prezzi moderati al consumo, di cui si è segnalata la divergenza con il nuovo regime disaccoppiato, la rinuncia alla regolazione delle produzioni con incentivo e l’approccio multifunzionale competitivo impresso all’agricoltura europea dall’ultima riforma del 2003). Sul punto si vedano, per una più ampia disamina, F. Albisinni, Istituzioni e regole dell’agricoltura dopo il Trattato di Lisbona, in RDA, 2/2010, pp. 206 e ss.; L. Costato, Poteri delegati e poteri di esecuzione della Commissione U.E.: dalla P.A.C. al T.F.U.E., in Riv. Dir. Alim., www.rivistadirittoalimentare.it; 2010, I, pp. 3 e ss. ; F. Gencarelli, La PAC e il Trattato di Lisbona : quali cambiamenti ? in DGAA, 2010, pp. 734-740 ; A.M . Calamia, Nuovi equilibri istituzionali dopo Lisbona, RDA, II, 2010, pp. 173-192 ; F. Adornato, Agricoltura, politiche agricole e istituzioni comunitarie nel Trattato di Lisbona: un equilibrio mobile, RDA, 2010, II, pp. 261-284.

[2] L’art. 39 T.F.U.E. recita: “1. Le finalità della politica agricola comune sono: a) incrementare la produttività dell’agricoltura, sviluppando il progresso tecnico, assicurando lo sviluppo razionale della produzione agricola come pure un impiego migliore dei fattori di produzione, in particolare della manodopera; b) assicurare così un tenore di vita equo alla popolazione agricola, grazie in particolare al miglioramento del reddito individuale di coloro che lavorano nell’agricoltura; c) stabilizzare i mercati; d) garantire la sicurezza degli approvvigionamenti; e) assicurare prezzi ragionevoli nelle consegne ai consumatori. 2. Nell’elaborazione della politica agricola comune e dei metodi speciali che questa può implicare, si dovrà considerare: a) il carattere particolare dell’attività agricola che deriva dalla struttura sociale dell’agricoltura e dalle disparità strutturali e naturali fra le diverse regioni agricole; b) la necessità di operare gradatamente gli opportuni adattamenti; c) il fatto che, negli Stati membri, l’agricoltura costituisce un settore intimamente connesso all’insieme dell’economia”.

[3] Cfr. Commissione europea, Libro Verde sulla qualità dei prodotti agricoli: norme di prodotto, requisiti di produzione e sistemi di qualità, COM (2008) 641 def., disponibile on line sul sito dell’Unione europea all’indirizzo internet http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=COM:2008:0641:FIN:IT:PDF.

[4] Il “pacchetto qualità”, presentato dalla Commissione europea il 10 dicembre 2010 e discusso al Consiglio dei ministri dell’agricoltura il 14 aprile 2011, è composto una serie di proposte dirette a istituire una politica di qualità dei prodotti agricoli coerente e finalizzata ad aiutare gli agricoltori a comunicare meglio le qualità, le caratteristiche e le proprietà dei prodotti agricoli nel contesto di una adeguata informazione dei consumatori. Il pacchetto qualità comprende: una proposta di regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio sui regimi di qualità dei prodotti agricoli [COM(2010) 733 def.]; una proposta di modifica del regolamento (CE) n. 1234/2007 (c.d. “O.C.M. unica”) riguardante le norme di commercializzazione dei prodotti agricoli [COM(2010) 738 def.]; orientamenti che stabiliscono le buone pratiche per l’elaborazione e il funzionamento dei regimi di certificazione relativi ai prodotti agricoli e alimentari [C(2010) 341] e orientamenti sull’etichettatura dei prodotti alimentari ottenuti da ingredienti a denominazione di origine protetta (DOP) e a indicazione geografica protetta (IGP) [C(2010) 341/03]. I documenti citati sono disponibili sul sito “Europa” all’indirizzo internet http://ec.europa.eu/agriculture/quality/policy/quality-package-2010/index_en.htm.

[5] I dati sono tratti dalla relazione della Commissione europea sulla proposta di regolamento sui regimi di qualità dei prodotti agricoli cit. discussa al Consiglio dei Ministri dell’agricoltura del 14 aprile 2011.

[6] Per rimanere al caso italiano si pensi, a titolo esemplificativo, ai Prodotti Agroalimentari Tradizionali (P.A.T.), Regolati dall’art. 8 co. 1 del D.Lgs. 173 del 30 aprile 1998 (“Disposizioni in materia di contenimento dei costi di produzione e per il rafforzamento strutturale delle imprese agricole a norma dell’articolo 55, commi 14 e 15, della L. 27 dicembre 1997 n. 449, in G.U.R.I. n. 129 del 5 giugno 1998), nonché dal successivo D.M.  n. 350 del 8 settembre 1999 (“Regolamento recante norme per l’individuazione dei prodotti tradizionali di cui all’art. 8, Co. 1, del decreto legislativo 30 aprile 1998, n. 173, in G.U.R.I. n. 240 del 12 ottobre 1999). L’elenco dei prodotti censiti viene aggiornato annualmente dal Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali in collaborazione con le Regioni (cfr. da ultimo il D.D. 16 giugno 2010, “Decima revisione dell’elenco nazionale dei prodotti agroalimentari tradizionali”, in G.U.R.I. n. 154 del 5 luglio 2010, S.O. n. 145). Si vedano, inoltre, le Denominazioni Comunali di Origine, istituite da molti Comuni italiani in forza del combinato disposto degli artt. 117-118 della Costituzione e 3-8-13 del T.U.E.L. (cfr. d.lgs. 18 agosto 2000 n. 267 “Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali”, in G.U.R.I. 28 settembre 2000, n. 227, S.O. n. 162), da cui si ricaverebbe la competenza dei Comuni ad adottare tutte le iniziative volte a proteggere e valorizzare la cultura e l’economia locale. Le De.C.O. sono oggetto di una attività di promozione e coordinamento da parte dell’A.N.C.I. (Associazione Nazionale Comuni Italiani), che ha creato apposite linee guida per la redazione dei relativi regolamenti comunali (cfr. http://www.anci.it/index.cfm?layout=dettagli&IdSez=2535&IdDett=10696) e propone l’utilizzo di un logo unitario per  contraddistinguerle in etichetta.

[7] Cfr. il Regolamento del Consiglio del 14 luglio 1992 relativo alla protezione delle indicazioni geografiche e delle denominazioni d’origine dei prodotti agricoli ed alimentari, in G.U.U.E. L 208 del 24 Luglio 1992, pp. 1 – 8, sostituito nel 2006 dal regolamento del Consiglio n. 510 del 20 marzo 2006 relativo alla protezione delle indicazioni geografiche e delle denominazioni d’origine dei prodotti agricoli e alimentari, in G.U.U.E. L 93 del 31.3.2006, pp. 12-25.

[8] La Convenzione di Unione di Parigi del 1883 inserisce per la prima volta le “indications of source” e le “appellations of origin” in uno strumento pattizio di ampio respiro finalizzato alla tutela dei diritti di proprietà industriale, ma non ne fornisce una definizione. L’Accordo di Lisbona del 31 ottobre 1958 sulla protezione delle denominazioni di origine e sulla loro registrazione internazionale fornisce una definizione esaustiva delle denominazioni in oggetto, definendole come toponimi di un paese, una regione o una località utilizzate per designare un prodotto che ne è originario e di cui le qualità o i caratteri sono dovuti esclusivamente o essenzialmente all’ambiente geografico comprendente i fattori naturali o umani che lo compongono. Non viene fornita, invece, alcuna distinta definizione delle “indicazioni geografiche”. Infine l’Accordo TRIPs allegato al Trattato di Marrakesh definisce le indicazioni geografiche come le indicazioni che identificano un prodotto come originario di un territorio, una regione o una località situati in uno Stato membro e di cui una determinata qualità, la reputazione o altre caratteristiche siano attribuibili all’origine geografica. La definizione si pone, dunque, a cavaliere fra la disciplina dell’Arrangement di Lisbona e quella dettata dai regolamenti comunitari citati. Per ulteriori indicazioni normative, giurisprudenziali e di dottrina sia consentito rinviare al mio lavoro Le denominazioni di origine dei prodotti alimentari, Alessandria, ed. Taro, 2007.

[9] La disciplina dei vini di qualità prodotti in regioni determinate è piuttosto risalente, trovando una prima regolamentazione già nel regolamento CEE del Consiglio n. 24/62 (cfr. Regolamento del Consiglio nr. 24 relativo alla graduale attuazione di una organizzazione comune del mercato vitivinicolo, in G.U.C.E. L  989 del 20 aprile 1962 pp. 989  e ss ). Al contrario la prima disciplina di tutela delle indicazioni geografiche degli altri prodotti alimentari di qualità, come detto, risale solamente al 1992. Ciò ha comportato una serie di problemi in ordine alle possibili erosioni delle denominazioni dei prodotti più noti e diffusi nei vari mercati nazionali. Sul punto si veda F. Capelli, La libera circolazione dei prodotti alimentari nel mercato unico europeo, in DCSCI, 1993, pp. 7 e ss., nonché, dello stesso A., La protezione giuridica dei prodotti agro-alimentari di qualità e tipici in Italia e nell’Unione europea, in DCSCI, n. 1/2001, pp. 177 e ss.

[10] La definizione di D.O.P. contenuta nel regolamento, rimasta invariata nella versione aggiornata del 2006, indica nel sistema U.E. “il nome di una regione, di un luogo determinato o, in casi eccezionali, di un paese che serve a designare un prodotto agricolo o alimentare: – originario di tale regione, di tale luogo determinato o di tale paese, – la cui qualità o le cui caratteristiche sono dovute essenzialmente o esclusivamente ad un particolare ambiente geografico, inclusi i fattori naturali e umani, e – la cui produzione, trasformazione e elaborazione avvengono nella zona geografica delimitata

[11] La definizione di I.G.P. contenuta nel regolamento, rimasta invariata nella versione aggiornata del 2006, indica nel sistema U.E. “il nome di una regione, di un luogo determinato o, in casi eccezionali, di un paese che serve a designare un prodotto agricolo o alimentare: – come originario di tale regione, di tale luogo determinato o di tale paese e – del quale una determinata qualità, la reputazione o altre caratteristiche possono essere attribuite a tale origine geografica e – la cui produzione e/o trasformazione e/o elaborazione avvengono nella zona geografica delimitata”.

[12] Cfr. sentenza della Corte di giustizia CE 10 novembre 1991 Exportur S.A. e Confiserie du Tech, in causa c-3/91, in Racc., 1992, pp. I- 05529 e ss., punto 28. Su questa pronuncia si vedano i commenti di P. Quaia, La tutela delle denominazioni geografiche tra diritto nazionale e diritto comunitario, in DCSCI, 1996, PP. 27-285; M. Gargallo- M. Del Mar, Las indicaciones de procedencia y el principio comunitario de libre circulaciòn de mercancias, in Actas de Derecho Indutrial, 1993, Tomo XV, pp. 205-229, nonché le note di R. Roland in Eur. Food Law Rev., 1993, pp. 252-257; M. C. Bergerès, in Recueil Dalloz Sirey, 1993, Jur., pp. 546-549; O. W. Brouwer, in Common Market Law Rev., 1993, pp. 1209-1227; F. K. Beier, in Int. Rev. of Industrial Property and Copyright Law, 1994, pp. 73-81.

[13] Cfr. punto 37 della sentenza.

[14] La Corte di giustizia si è mostrata in passato tendenzialmente ostile a questi marchi per il loro potenziale contrasto con la disciplina sulla libera circolazione delle merci. Sul punto si vedano le sentenze 24 novembre 1982 in causa 249/81, Commissione c. Irlanda, in Racc., 1982, pp. 4005 e ss.; 6 marzo 2003 in causa C-6/02, Commissione c. Repubblica Francese, in Racc. pp. 2389 e ss.; 17 giugno 2004 in causa C-255/93, Commissione c. Regno del Belgio, non pubblicata, disponibile sul sito http://www.curia.eu.

[15] Cfr. sentenza 6 marzo 2003 Commissione c. Repubblica Francese  cit., ove al punto 13 si legge che “dopo l’entrata in vigore del regolamento n. 2081/92 CEE, che mira precisamente a definire in maniera esclusiva le condizioni alle quali può essere istituita la protezione di una denominazione che stabilisce il nesso tra taluni prodotti agricoli ed alimentari da un lato, e un’origine geografica particolare dall’altro, la protezione delle denominazioni di origine e delle indicazioni geografiche potrebbe ormai essere effettuata unicamente nell’ambito definito da tale regolamento”.

[16] Cfr. la sentenza della Corte di giustizia 7 novembre 2000 in causa C-312/98, Schutzverband gegen Unvesen in der Wirtschaft eV c. Warsteiner Brauerei Haus Cramer Gmbh, in Racc., p. I-9187 e ss. La sentenza è stata commentata da A. Vedaschi, Le indicazioni geografiche semplici e la corretta informazione del consumatore, in DPCE, 2001, pp. 384- 387; F. Capelli, La sentenza Warsteiner in materia di denominazioni di origine: un contributo alla soluzione di un equivoco, DCSCI, 2001, pp. 287-298; M. Valletta, Non solo DOP e IGP: territorialità del prodotto e informazione del consumatore dopo il caso Warsteiner, RDA, 2002, II, pp. 142 – 154; E. Montelione, Il territorio come regola: alcune considerazioni a margine del caso Warsteiner, in Giur. It., 2001, pp. 1650 – 1653; E. I. Obergfell, Simple Geographic Indications of Source in the Overlap. Where German and European Law Compete, in The Eur. Legal For., 2001, pp. 245-251.

[17] Cfr. punti 44-45 sent.

[18]  Cfr. sentenze della Corte di giustizia CE 18 novembre 2003, causa C?216/01, Bud?jovický Budvar in Racc. pp. I?13617 e ss., 8 settembre 2009, causa C-478/07, Bud?jovický Budvar, in Racc., pp. I-7721e ss.  per un commento si vedano A. Alemanno, Libre circulation des marchandises. Arrêt “Budweiser”, Revue du droit de l’Union européenne, 2003, n. 4, pp. 931-936; L. Zaccaria, La tutela delle indicazioni geografiche semplici ed indirette e la successione degli Stati nei trattati nella giurisprudenza della Corte comunitaria: il caso della “birra Bud”, Giustizia civile, 2004, I, pp. 1418-1423; J. Reed, ECJ Protects Simple Geographical Indications for they Bud-dy, European Intellectual Property Review, 2005, pp. 25-30; F. Casolari, La successione degli Stati nei trattati bilaterali al vaglio della Corte di giustizia: il caso Budvar, RDI, 2005, pp. 121-148; F. Capelli, La Corte di giustizia, in via interpretativa, attribuisce all’Unione europea una competenza esclusiva in materia di riconoscimento delle denominazioni di origine e delle indicazioni geografiche protette, riferite ai prodotti agroalimentari, mediante la sentenza Bud II motivata in modo affrettato, contraddittorio e per nulla convincente, DCSCI, 2010, n. 3, pp. 401 e ss.

[19] Cfr. punti 99 – 100 sentenza “BUD I” e 77-85 sentenza “BUD II”.

[20] Cfr. i punti 11-112 della sentenza “BUD II” ove si legge che “il regolamento n. 510/2006, adottato in base all’art. 37 CE, costituisce uno strumento della politica agricola comune mirante essenzialmente a garantire ai consumatori che i prodotti agricoli muniti di un’indicazione geografica registrata in forza di detto regolamento presentino, a causa della loro provenienza da una determinata zona geografica, talune caratteristiche particolari e, pertanto, offrano una garanzia di qualità dovuta alla loro provenienza geografica, allo scopo di consentire agli operatori agricoli che abbiano compiuto effettivi sforzi qualitativi di ottenere in contropartita migliori redditi e di impedire che terzi si avvantaggino abusivamente della reputazione discendente dalla qualità di tali prodotti.  Orbene, se fosse lecito per gli Stati membri consentire ai loro produttori di utilizzare sui loro territori nazionali una delle diciture o uno dei simboli riservati dall’art. 8 del regolamento n. 510/2006 alle denominazioni registrate in forza di detto regolamento, basandosi su un titolo nazionale il quale potrebbe rispondere ad obblighi meno severi di quelli imposti nell’ambito di detto regolamento per i prodotti di cui trattasi, la garanzia di qualità in parola, che costituisce la funzione essenziale dei titoli conferiti in forza del regolamento n. 510/2006, rischierebbe di non essere assicurata (…).

[21] Cfr. punti 113-114 e 117 sentenza Bud II. Nel punto 114 la Corte afferma esplicitamente che “il regolamento n. 510/2006 mira non a stabilire, accanto a norme nazionali che possono continuare ad essere vigenti, un regime complementare di tutela delle indicazioni geografiche qualificate, alla guisa ad esempio di quello istituito con il regolamento (CE) del Consiglio 20 dicembre 1993, n. 40/94, sul marchio comunitario (GU 1994, L 11, pag. 1), ma a prevedere un sistema di tutela uniforme ed esauriente per siffatte indicazioni”.

[22] La Corte non utilizza mezzi termini nell’affermare che le procedure di riconoscimento di queste tipologie di prodotti “non possono esistere al di fuori del sistema di tutela comunitaria” (cfr. punto 117 della sentenza Bud II). Nel successivo punto 127 il Giudice comunitario aggiunge che “la tutela nazionale d’indicazioni geografiche qualificate esistenti è consentita soltanto se sono soddisfatte le condizioni delle norme di diritto transitorio specificamente previste per siffatte indicazioni, tra cui quella di presentare una domanda di registrazione entro un termine di 6 mesi (…)”. L’intervenuta incompatibilità con la normativa in questione dei titoli nazionali in relazione ai quali viene disposta la tutela farebbe cadere anche le norme specifiche di protezione, che non potrebbero trovare più applicazione. Si pensi, per assurdo, all’ipotesi in cui l’Italia non avesse proceduto a suo tempo ad inoltrare ai sensi dell’art. 17 reg. 2081/92 CEE domanda di protezione per il “Prosciutto di Parma”. Scaduto il termine il titolo “DOC” riconosciutogli dalla l. legge 4 luglio 1970 n. 506 (Norme relative alla tutela della denominazione di origine del prosciutto di Parma, alla delimitazione del territorio di produzione ed alle caratteristiche del prodotto, in G.U.R.I. N. 179 del 17 luglio 1970), sostituita dalla legge 13 febbraio 1990 n. 26 (Tutela della denominazione di origine “prosciutto di Parma”, in G.U.R.I. n. n. 42 del 20 febbraio 1990) non avrebbe più potuto essere utilizzato, e, con esso, sarebbe venuta automaticamente meno la tutela prevista dalla norma stessa, concepita come protezione specifica di un diritto non più esistente

[23] Cfr. art. 3 co. 1 regolamento N. 1898/2006 della Commissione del 14 dicembre 2006 recante modalità di applicazione del regolamento (CE) n. 510/2006 del Consiglio, relativo alla protezione delle indicazioni geografiche e delle denominazioni d’origine dei prodotti agricoli e alimentari, in G.U.U.E. L 369 del 23.12.2006, nonché il corrispondente art. 4 co. 3 lett. E) del Decreto del Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali  21 Maggio 2007 “procedura a livello nazionale per la registrazione di D.O.P. – I.G.P. ai sensi del regolamento 510/2006”, in G.U.R.I. n. 123 del 29.5.2007.

[24] Cfr. punto 129 delle motivazioni e dispositivo della sentenza.

[25] Nella versione tedesca il termine tutela è indicato come “Regelungen zum schutz” o sinteticamente come “Schutzregelungen”. In inglese è indicato talora come “system of protection” (cfr. punti 114,116, 117, 118. 122) talora come “national protection” (cfr. punti 118, 123, 126, 127, 128) ed in un caso- significativamente- come “system of designations” (cfr. punto 120). Nella versione francese viene tradotto come “regime de protection” o come “système de protection”.

[26] Cfr. la direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio del 20 marzo 2000 relativa al ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri concernenti l’etichettatura e la presentazione dei prodotti alimentari, nonché la relativa pubblicità in G.U.U.E. L 109 del 6.5.2000 pp. 29-42.

[27] Il regolamento 510/06 CE, così come il precedente regolamento n. 2081/92 CEE, afferma nel quinto considerando introduttivo il proprio rapporto di complementarietà rispetto alla direttiva 2000/13 CE con riferimento ai soli aspetti “addizionali” della presentazione delle D.O.P. – I.G.P., quali, ad esempio, l’apposizione obbligatoria del “bollino” comunitario, l’uso del nome protetto nell’esatta formulazione registrata etc. Sul punto si veda altresì la sentenza della Corte di giustizia CE 10 settembre 2009 in causa C-446/07, Alberto Severi c. Regione Emilia Romagna, in Racc., pp. 8041 e ss.

[28] cfr. l’art. 2 della direttiva, a norma del quale “l’etichettatura e le relative modalità di realizzazione non devono: a) essere tali da indurre in errore l’acquirente, specialmente: i) per quanto riguarda (…)l’origine o la provenienza (…)”.

[29] Ciò si rileva in modo chiaro nel punto 112 della sentenza, ove la Corte spiega che “se fosse lecito per gli Stati membri consentire ai loro produttori di utilizzare sui loro territori nazionali una delle diciture o uno dei simboli riservati dall’art. 8 del regolamento n. 510/2006 alle denominazioni registrate  in forza del detto regolamento, basandosi su un titolo nazionale il quale potrebbe rispondere ad obblighi meno severi di quelli imposti nell’ambito di detto regolamento per i prodotti di cui trattasi, la garanzia della qualità in parola, che costituisce la funzione essenziale dei titoli conferiti in forza del regolamento 510/2006 rischierebbe di non essere assicurata”.

[30] Si pensi all’applicazione dell’art. 517 bis c.p. a norma del quale “Le pene stabilite dagli articoli 515, 516 e 517 sono aumentate se i fatti da essi previsti hanno ad oggetto alimenti o bevande la cui denominazione di origine o geografica o le cui specificità sono protette dalle norme vigenti (…)”. Laddove la norma di riconoscimento nazionale del toponimo fosse dichiarate illegittima perché incompatibile con il regolamento 510/06 CE verrebbero meno anche i presupposti applicativi della sanzione penale.

[31] Volendo confrontare queste indicazioni con la già citata realtà italiana attuale (cfr. nota 6) la disciplina dei prodotti agroalimentari tradizionali di cui al D. Lgs. 173/98, limitandosi ad attestare con un elenco pubblicato in Gazzetta Ufficiale l’esistenza di determinate tradizioni produttive sul territorio, sembrerebbe compatibile con le indicazioni fornite dalla Corte, ed anzi, lo Stato italiano potrebbe persino implementare la propria disciplina sanzionatoria che oggi resta ancorata essenzialmente all’esistenza di un profilo di ingannevolezza (e.g. art. 517 c.p., art. 19 Codice del Consumo) mediante l’approvazione di disposizioni ad hoc recanti una tutela “assoluta” (ossia a prescindere da ogni confondibilità sul mercato). Al contrario la diffusione delle Denominazioni Comunali di Origine organizzate in sistema dall’A.N.C.I. con la creazione di un logo comune da utilizzare per i diversi prodotti riconosciuti dai Comuni italiani, a cui spesso i regolamenti comunali annettono valenza qualitativa, potrebbe ingenerare confusione andando ad interferire con la visibilità e l’apprezzamento delle D.O.P. – I.G.P., e creando di fatto quel sistema complementare negato dalla Corte.

[32] Naturalmente ciò è possibile nei limiti in cui la denominazione non si sia volgarizzata. Si pensi all’ipotesi di una Torta Sbrisolona alla mantovana, in cui l’etichettatura rechi chiaramente l’indicazione del (diverso) luogo di fabbricazione, ovvero al già citato caso del Pesto alla genovese realizzato in una località non italiana facilmente individuabile dal consumatore.

[33] Il problema è particolarmente acuto per la difficoltà di relazionarsi con una disciplina protettiva delle indicazioni geografiche semplici frammentata a livello nazionale, che crea evidenti difficoltà conoscitive.

[34] La tutela nazionale, inibendo l’uso del toponimo ai soggetti non legittimati, consente di evitare pericolosi fenomeni di erosione del significato evocativo della denominazione quantomeno nel luogo di origine. Le sentenze “Parmesan” (cfr. sentenza 25 febbraio 2002, in causa C-66/00, Dante Bigi, in Racc., pp. 5917 e ss.) e Feta II (cfr. sentenza 25 ottobre 2005 in cause riuniteC-465/02 e C-466/02, Repubblica Federale di Germania e Regno di Danimarca c. Commissione, in Racc., pp. 9115 e ss.) hanno infatti chiarito che nell’equilibrio dei diversi fattori indicati dall’art. 3 reg. 2081/92 CEE occorre comunque tenere in considerazione tutti gli elementi di valutazione, ivi compresa l’esclusione della volgarizzazione nello Stato in cui è maggiore il consumo del prodotto (ossia, tendenzialmente, quello di origine). Sul punto si rinvia ai commenti di L. Costato, Parmigiano e Parmesan, in RDA, 2003, II, 183 e ss.; M. Borraccetti, Parmigiano Reggiano, “Parmesan” e denominazioni di origine, in RDA, 2003, II, pp. 187 e ss.; S. Scarcella, la tutela delle denominazioni di origine protetta, in Riv. Dir. Ind., 2002, II, pp. 428 e ss. O. Fiumara, la tutela comunitaria del parmigiano reggiano, in Rass. Avv. St., 2002, II, pp. 58 e ss.; S. Masini, Territorio di origine, nomen e mercato: il caso Feta ancora alla ribalta, in DGAA, 2006, fasc. 3, pp. 168 e ss.; J. Reed, Feta: a Cheese or a Fudge? In E.I.P.R., nr. 10/2006, pp. 535 e ss.; C. Benatti, Il revirement della Corte di giustizia sul caso “feta”, in RDA, 2006, pp. 110 e ss.

[35] La giurisprudenza della Corte tanto con riferimento alle indicazioni di provenienza quanto con riferimento ai marchi  ha mostrato come i toponimi non costituiscono un sé un valore assoluto, ma lo acquisiscano nei limiti in cui assumono un significato comunicativo-commerciale che rappresenti il frutto dell’opera dell’uomo ed al contempo ne costituisca il premio. Cfr. sul punto le sentenze della Corte di giustizia CE 4 maggio 1999 in cause riunite C-108/97 e 109/97, Windsurfing Chiemsee, punti 44-47, e la già citata sent. BUD II punto 75. La possibilità di fare riferimento a località diverse da quella di effettiva origine del prodotto non deve, tuttavia, sconfinare nel tentativo di abbinare al prodotto sensazioni positive evocate dal luogo geografico citato, essendo ciò vietato dalla disciplina sulle pratiche commerciali sleali (cfr. direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio nr. 2005/29 CE del 11 maggio 2005 sulle pratiche commerciali sleali, in G.U.U.E. L 149 del 11 giugno 2005, pp. 22 – 39, art. 5).

[36] Come, per l’appunto, era avvenuto nel caso che ha dato origine ai rinvii pregiudiziali nelle due sentenze Bud citate, in cui esisteva un accordo internazionale fra Repubblica d’Austria e di Cecoslovacchia per la tutela reciproca delle rispettive denominazioni geografiche.

[37] In linea generale la registrazione di marchi geografici è preclusa. Nondimeno i c.d. “marchi notori” possono essere registrati ai sensi dell’art. 3 co. 3 direttiva 2008/95/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 22 ottobre 2008 sul ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di marchi d’impresa (in G.U.U.E. L 299, pp. 25 – 33).

[38] Il rapporto fra la direttiva 2000/13 CE e la direttiva 2005/29 CE è controverso. In alcuni casi la Corte di giustizia ha escluso l’utilizzabilità della direttiva sulla pubblicità ingannevole per valutare il contenuto delle etichette dei prodotti cosmetici o alimentari, siccome disciplina “speciale” rispetto alle regole generali della dir. 84/450 CEE (cfr. la sentenza della Corte di giustizia CE 24 ottobre 2002 in causa C-99/01, Linhart, in Racc., pp. 93 75 e ss. in cui la Corte ha valutato le espressioni “esaminato dermatologicamente” e “sperimentato clinicamente” alla luce della sola disciplina dell’etichettatura dei prodotti cosmetici escludendo il ricorso alla normativa generale in materia di pratiche commerciali sleali, punto 29. Si veda altresì la sentenza 23 gennaio 2003 in cause riunite C-241/2000, C-426/2000 e C-16/2001, Sterbenz/Haug, in Racc., 2003, pp. 1065 e ss.). Nella sentenza 13 gennaio 2000 in causa C-220/98, Estée Lauder, in Racc. pp. 117 e ss., al contrario, viene fatto riferimento alla direttiva sulla pubblicità ingannevole senza prendere in considerazione la normativa verticale di prodotto. Sul punto si rinvia, per una più ampia disamina, a A. Di Lauro, Comunicazione pubblicitaria e informazione nel settore agro-alimentare, Milano, Giuffré, 2005, pp. 334 – 342.

[39] Al riguardo è appena il caso di evocare la vicenda “Parmesan” in cui la Corte, con sentenza del 28 Febbraio 2008 in causa c-132/05, Commissione c. Repubblica federale di Germania, in Racc. pp. 957 e ss., ha stabilito che nell’attuale assetto della disciplina comunitaria delle D.O.P. – I.G.P. non è previsto l’obbligo per gli Stati di attivarsi ex officio per garantire la tutela sul proprio territorio delle denominazioni registrate. La sentenza ha creato, come facilmente prevedibile, numerose reazioni negative in dottrina (si vedano, al riguardo, i commenti di S. Ventura, Il caso Parmesan visto dalla Corte di giustizia, in DSCI nr. 2/2008, pp. 323-328, et ibidem, pp. 329-336, F. Capelli, La sentenza Parmesan della Corte di giustizia: una decisione sbagliata; A. Germanò, Gli Stati membri hanno l’obbligo di difendere di ufficio le denominazioni geografiche protette?, in DGAA, NR. 7-8/2008, pp. 478 –482; M. Borraccetti, Parmesan e Parmigiano: la Corte di giustizia interviene ancora una volta, in NGCC, I, 2008, pp. 1009- 1014; F. Albisinni, Prodotti alimentari e tutela transfrontaliera, in Rivista di Diritto Alimentare, n. 2/2009, on line all’indirizzo www.rivistadirittoalimentare.it; M. Pardo Leal, Protección de la denominación de origen del queso “Parmiggiano Reggiano“, Revista de Derecho Alimentario 2008 n. 34 pp.29-31; L. González Vaqué; J. M. Cortés Martín, TJCE – Sentencia de 26.02.2008, Comisión/Alemania, “Parmesan”, C-132/05 – Alcance de la protección de una denominación de origen registrada frente a su utilización abusiva, Revista de Derecho Comunitario Europeo 2008 pp. 545-563; C. Hauer, Using the Designation “Parmesan” for Hard Cheese (Grated Cheese) of Non-Italian Origin. Judgment of the ECJ of 26 February 2008 in case C-132/05 (Commission of the European Communities vs. Federal Republic of Germany), European Food and Feed Law Review 2008 Vol. 3, n. 6, pp. 387-393; C. Heath, Parmigiano Reggiano by Another Name – The ECJ’s Parmesan Decision, International Review of Intellectual Property and Competition Law, 2008, pp. 951-962; I. Canfora, Il caso “Parmigiano Reggiano”: denominazioni di origine composte e strumenti di tutela tra competenze nazionali e diritto comunitario, RDA, 2008, II, pp. 16-26; F. Gencarelli, Il caso “Parmesan”: la responsabilità degli Stati nella tutela delle DOP e IGP tra interventi legislativi e giurisprudenziali, DUE, 2008, pp. 825-834; N. Lucifero, Denominazione composte, denominazioni generiche e la tutela delle denominazioni di origine protette. Il caso “parmesan”, Giurisprudenza italiana, 2009, pp. 579-584).

Rubino Vito

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