Le concentrazioni nel diritto antitrust italiano

Redazione 01/10/01
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Di Pasquale Lo Cane

1. Brevi cenni sui rapporti tra il diritto antitrust nazionale e comunitario. Prima di esaminare gli aspetti tecnico procedurali, della normativa antitrust italiana relativi al controllo delle concentrazioni giova procedere ad un breve excursus sulle problematiche suscitate dall’articolo 1 della legge 287/90. Premesso che il controllo delle concentrazioni di dimensione comunitaria, alla luce dell’articolo 21 del Regolamento 4064/89, rientra nella competenza esclusiva della Commissione delle Comunità Europee, non appare comunque irrilevante procedere ad un esame dei rapporti che intercorrono tra la legge antitrust nazionale e la disciplina comunitaria della concorrenza; tali rapporti potrebbero, sul piano teorico, essere improntati su tre modelli operativi: a) la c.d. doppia barriera; b) la c.d. barriera unica; c) la c.d. barriera unica omogenea[1].

a) La doppia barriera; con tale espressione si identificano quei sistemi giuridici nazionali che non si preoccupano di evitare che la medesima fattispecie possa essere oggetto di valutazione sulla base sia del diritto interno sia di quello comunitario[2]. Sulla base di tale modello potrebbero verificarsi situazioni quantomeno anomale; si pensi infatti alla “possibilità che un ordinamento nazionale vieti un accordo esentato ai sensi dell’articolo 85 § 3”[3]. Si tratta inoltre di un sistema che impone costi elevati alle medie e grandi imprese, costrette a sottoporsi ad un duplice livello di controlli, correndo il rischio di non poter realizzare le operazioni programmate a causa dell’esito negativo di anche una sola delle verifiche;

b) La barriera unica; vengono in tal modo qualificati quei sistemi che, per imposizione dell’ordinamento comunitario[4]o per scelta dell’ordinamento nazionale, si escludono a vicenda con una netta divisione delle sfere di competenza. Alla luce della preminenza del diritto comunitario è solitamente il legislatore nazionale ad autolimitarsi, non rinunciando però a disciplinare quelle fattispecie che non ricadono nella sfera di applicazione della normativa europea. Si tratta del modello più diffuso; presenta però una serie di inconvenienti: in primis non favorisce l’armonizzazione del diritto nazionale con quello comunitario, in secondo luogo può determinare una disparità di trattamento tra fattispecie che, per le loro dimensioni, ricadono nell’orbita del diritto comunitario e fattispecie analoghe ma di minore entità, che rientrano invece nel campo di applicazione del diritto antitrust interno;

c) La barriera unica omogenea; si tratta di un modello nuovo, delineato da Francesco DENOZZA, in un suo saggio[5], sulla base dell’ esame dell’ articolo 1§4 della legge n.287 del 1990; tale norma dispone testualmente che “l’interpretazione delle norme contenute nel presente titolo è effettuata in base ai principi dell’ordinamento delle Comunità europee in materia di disciplina della concorrenza”. L’ Autore ha da ciò desunto che la disposizione in questione non abbia solo lo scopo di creare un “retroterra giurisprudenziale”[6] inesistente in materia nel nostro Paese, fornendo agli operatori giuridici una serie di concetti di natura tecnica, come ad esempio le nozioni di intesa e posizione dominante, ma abbia soprattutto la funzione di armonizzare i principi contenuti nella L.287/90 con quelli enucleati dalla normativa comunitaria, dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia e dalla prassi della Commissione delle Comunità Europee. Vi sarebbero quindi due sistemi di controllo, nazionale e comunitario, tra loro alternativi ma ispirati alla medesima ratio.

Tra i modelli appena esaminati il più interessante sembra essere l’ultimo che presenta indubbiamente molti aspetti positivi ma anche alcuni difetti; il pregio maggiore della costruzione del DENOZZA è quello di fornire al giurista italiano una serie di criteri interpretativi ed operativi improntati ad un marcato pragmatismo, che potranno risultare senz’altro utili per affrontare i problemi causati dall’inesperienza del legislatore italiano in materia di normativa antitrust. Tale modello favorisce inoltre un trattamento uniforme per fattispecie analoghe, anche se di dimensioni diverse. Tuttavia, la soluzione prospettata dall’Autore potrebbe comportare elevati costi sociali; infatti l’ordinamento comunitario protegge la concorrenza come valore a sè stante, mentre l’ordinamento italiano la inserisce in un contesto di valori parimenti tutelati, per cui l’applicazione tout court dei principi provenienti dall’ordinamento comunitario potrebbe comportare un ingiusto ed illegittimo sacrificio di interessi anche costituzionalmente protetti. Il modello della barriera unica omogenea è però, nonostante tutto, innovativo e proiettato nel futuro ma sembra necessitare di alcuni ritocchi che lo rendano a pieno titolo conforme al dettato costituzionale.

2. La disciplina nazionale in materia di controllo delle concentrazioni. Precisati quali siano in linea di principio i rapporti che intercorrono tra la disciplina comunitaria e quella nazionale, occorre procedere ad un esame più approfondito delle disposizioni della legge antitrust che riguardano le concentrazioni.

La legge italiana, al pari del Regolamento comunitario n.4064 del 1989, non definisce cosa sia una concentrazione ma, all’articolo 3, individua una serie di ipotesi nelle quali se ne presume la realizzazione: si tratta in particolare di fusione, assunzione di controllo e creazione di un’impresa comune. Vengono comunque escluse dalle operazioni concentrative quelle che hanno come oggetto o per effetto principale il “coordinamento di imprese indipendenti”[7].

Dal dettato normativo è quindi possibile desumere che si ha concentrazione quando si incide in modo duraturo sulla struttura delle imprese partecipanti; è da rilevare inoltre che il legislatore italiano non ha effettuato distinzioni tra operazioni concentrative “infragruppo” ed “extragruppo” disponendo in ogni caso l’applicazione della normativa antitrust. Si deve però ricordare come con il provvedimento n.76 del 15 maggio 1991, Alumix/Aluminia et al., l’Autorità garante abbia, sia pur marginalmente, preso in considerazione il carattere “infragruppo” dell’operazione al fine di decidere se aprire o meno l’istruttoria[8].

Le soglie quantitative previste per l’applicazione della normativa alle concentrazioni sono elencate dal §1 dell’articolo 16; la citata disposizione impone una comunicazione preventiva delle operazioni di concentrazione, qualora il fatturato totale realizzato a livello nazionale dall’insieme delle imprese interessate sia superiore a cinquecento miliardi di lire o qualora il fatturato totale realizzato a livello nazionale dall’impresa di cui è prevista l’acquisizione sia superiore a cinquanta miliardi di lire[9]. Il Formulario per la comunicazione delle operazioni di concentrazione, emanato nel maggio 1991 dall’ Autorità antitrust, ha precisato che il fatturato da prendere in considerazione, ai fini dell’applicazione della normativa, è quello del gruppo cui l’impresa fa capo, rilevato nell’ultimo esercizio.

Quando la concentrazione si realizza attraverso l’acquisto di parti di una o più imprese è computato, per il cedente, il solo fatturato relativo alle parti oggetto della cessione[10].

Passando invece ad analizzare il procedimento occorre precisare che si articola in una serie di tappe: una necessaria fase preistruttoria, un’eventuale fase istruttoria ed un momento decisorio.

La prima si apre con la comunicazione dell’operazione di concentrazione[11] inviata dalle imprese partecipanti all’Autorità garante; ha durata limitata a 30 giorni[12] e può condurre ad un duplice esito: o si deciderà di non avviare[13] l’istruttoria o l’operazione verrà ritenuta suscettibile di essere vietata ai sensi dell’ articolo 6 della legge antitrust[14] e ne si ordinerà l’apertura[15]. L’articolo 16§7 attribuisce all’Autorità il potere di aprire la fase istruttoria oltre i termini previsti in presenza di gravi inesattezze, incompletezza e falsità delle informazioni fornite dalle imprese.

La seconda fase, una volta avviata, dovrà concludersi entro 45 giorni dal suo inizio[16]; essa ha lo scopo di permettere all’Autorità di raccogliere tutti gli elementi che le sono necessari per prendere le proprie decisioni.

3. Poteri dell’ Autorità garante della concorrenza e del mercato in ordine al controllo delle concentrazioni. A) Poteri istruttori. I poteri riconosciuti all’Autorità Garante dall’articolo 14 della legge antitrust le consentono di acquisire un quadro sufficientemente dettagliato dell’ operazione di concentrazione in itinere; il §2 del citato articolo attribuisce all’Authority la facoltà di richiedere ad imprese, enti o persone di fornire informazioni ed esibire documenti in loro possesso; essa potrà inoltre disporre ispezioni dirette a controllare documenti aziendali, ordinare perizie ed analisi economiche e statistiche, consultare esperti “in ordine a qualsiasi elemento rilevante ai fini dell’istruttoria”; per l’effettuazione delle ispezioni potrà valersi anche di altri organi dello Stato[17]. Informazioni e dati acquisiti nel corso dell’istruttoria sono coperti dal segreto d’ufficio, anche nei confronti delle Pubbliche Amministrazioni[18].

B) Poteri cautelari. A differenza del sistema comunitario, non esiste nella disciplina nazionale l’istituto della sospensione ipso iure delle operazioni di concentrazione in pendenza di procedimento. All’Autorità antitrust sono stati però attribuiti poteri di natura cautelare azionabili dopo l’apertura dell’istruttoria e diretti a congelare l’iter dell’operazione sino all’adozione di una decisione che chiuda il caso[19].

C) Poteri decisori. Terminata l’istruttoria l’Autorità dovrà valutare l’impatto della concentrazione sul mercato[20]; nel compiere tale operazione dovrà prendere in considerazione una serie di elementi, di cui è venuta a conoscenza nelle fasi precedenti, alla luce dei parametri indicati dall’articolo 6§1 della legge antitrust. Si tratta in particolare di: a) quote di mercato risultanti dalla concentrazione[21]; occorre però precisare che tale indice viene citato dall’Autorità come ragione determinante della approvazione della concentrazione solo ove si attesti su valori minimi [22]; b) struttura concorrenziale del mercato; maggiore sarà la presenza sul mercato di concorrenti qualificati, minore sarà il pericolo che la concentrazione possa produrre effetti anticoncorrenziali; c) barriere all’entrata; la presenza di ostacoli all’ingresso di nuovi operatori sul mercato è idonea a rendere pericolosa, per un corretto funzionamento del sistema concorrenziale, anche una concentrazione che coinvolga imprese che non occupano quote rilevanti di mercato[23]; d) andamento della domanda e dell’offerta dei prodotti o servizi in questione; risulterà infatti difficile configurare una posizione dominante in mercati caratterizzati da grosse variazioni dei flussi di domanda ed offerta, determinati per lo più dalle preferenze dei consumatori.

Sulla base di tali indici l’Autorità Garante, ove riscontri che la operazione di concentrazione comporta la “costituzione o il rafforzamento di una posizione dominante sul mercato nazionale in modo da eliminare o ridurre in modo sostanziale e durevole la concorrenza”[24], potrà vietarla o autorizzarla “prescrivendo le misure necessarie a impedire tali conseguenze”[25].

Se l’operazione è già stata portata a termine l’Autorità potrà “disporre le misure necessarie a ripristinare le condizioni di concorrenza effettiva, eliminando gli effetti distorsivi”[26].

Nel caso in cui i risultati dell’istruttoria inducano l’Autorità antitrust a non adottare provvedimenti che vietino la realizzazione della concentrazione, essa dovrà darne immediata comunicazione alle imprese interessate ed al Ministro dell’industria, commercio ed artigianato, esponendo le proprie conclusioni in merito; un provvedimento analogo potrà essere adottato anche su richiesta delle imprese interessate che provino di aver rimosso gli elementi, contenuti nel progetto originario di concentrazione, che apparivano idonei a produrre effetti distorsivi della concorrenza.

D) Poteri sanzionatori. L’articolo 19 della legge antitrust predispone un apparato sanzionatorio a garanzia dell’applicazione della disciplina prevista per il controllo delle concentrazioni[27].

4. I poteri governativi in tema di controllo delle concentrazioni. La normativa antitrust italiana presenta caratteristiche peculiari in quanto inserisce tra i soggetti preposti al controllo delle concentrazioni anche il Governo, organo che per proprio ruolo istituzionale deve provvedere ai bisogni primari della comunità nazionale; proprio nello esercizio di tali compiti interviene per tutelare “rilevanti interessi generali dell’economia nazionale nell’ambito dell’integrazione europea”[28] determinando in linea “generale e preventiva i criteri sulla base dei quali l’Autorità può eccezionalmente autorizzare operazioni di concentrazione” che altrimenti ricadrebbero nel divieto posto dallo articolo 6 della legge 287/90.

Si tratta però di interventi di natura straordinaria che non possono determinare un’eliminazione totale della concorrenza nel mercato in questione nè restrizioni non giustificate dalla tutela degli interessi generali citati. In ogni caso l’Autorità Garante dovrà disporre le “misure necessarie” per ristabilire condizioni di concorrenza effettiva entro un termine da essa fissato.

Il §2 dell’articolo 25 riconosce inoltre al Governo il potere di vietare, “per ragioni essenziali di economia nazionale”, operazioni di concentrazione non colpite dal divieto di cui all’articolo 6§2, alle quali però partecipino enti o imprese di Stati che hanno atteggiamenti discriminatori nei confronti di enti o imprese italiane; è in tal caso richiesta una deliberazione del Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro dell’industria, del commercio e dell’artigianato, che autorizzi il Presidente del Consiglio dei Ministri a vietare la concentrazione[29].

5. I poteri dell’autorità giudiziaria e l’antitrust. L’Autorità garante è un organo amministrativo e come tale non può in alcun caso annullare una concentrazione; essa può solamente emanare provvedimenti amministrativi diretti alla cura di un interesse pubblico, nel caso in questione si tratta della vigilanza sulla funzionalità concorrenziale del mercato.

Contro tali atti è ammesso, ai sensi dell’articolo 33 della legge antitrust, ricorso al T.A.R. Lazio in sede di giurisdizione esclusiva; il §2 della norma appena citata riserva invece al giudice ordinario, in particolare alla Corte d’Appello competente per territorio, la giurisdizione in ordine alla tutela cautelare ed alle azioni di nullità e risarcimento del danno[30].

6. La nozione di joint venture ai sensi della legge n.287 del 1990. Il termine impresa comune è, nella legislazione italiana, di nuovo conio; compare infatti per la prima volta all’articolo 5§1 della legge n.287 del 1990, il quale testualmente recita: “l’operazione di concentrazione si realizza (…) quando due o più imprese procedono, attraverso la costituzione di una nuova società, alla costituzione di un’impresa comune”. La definizione proposta dal legislatore italiano differisce, sul piano linguistico, da quella accolta in sede comunitaria, ove le joint ventures vengono qualificate come “imprese controllate congiuntamente da varie altre imprese, società fondatrici”[31]. Occorre però ricordare che, ai sensi della disciplina comunitaria, si considera l’impresa come un “insieme organizzato di risorse umane e materiali volto a perseguire su base stabile uno scopo economico definito”[32], ponendo quindi in evidenza il dato economico, indipendentemente dalla “forma” giuridica adottata[33]. In sede comunitaria l’elaborazione di una definizione di impresa è risultata opera complessa e travagliata ed ha portato all’individuazione di concetti diversi in funzione di diversi ambiti nei quali avrebbero dovuto essere impiegati; per ciò che concerne il diritto comunitario della concorrenza si è superata la “corrispondenza fra l’unità-autonomia dell’entità economica e l’individualità di quella giuridica”[34].

A questo punto occorre valutare se ed in quale misura i principi elaborati in sede comunitaria abbiano trovato cittadinanza nella disciplina antitrust nazionale. La legge n.287 del 1990 si inserisce in un contesto normativo nel quale il dato formale riveste importanza notevole, a volte preponderante, rispetto alla sostanza delle cose, recependo quindi da tale situazione un’impronta caratteristica, che si riverbera nel dato testuale; il legislatore nazionale ha però, saggiamente, previsto all’articolo 1§4[35] la possibilità, per l’Autorità garante della concorrenza e del mercato, di attingere in sede interpretativa al patrimonio di esperienze provenienti dal diritto comunitario.

La normativa antitrust si pone quindi su un piano di “specialità normativa e definitoria, giustificata dalla natura del fenomeno economico regolato”[36] ed alla luce dei suoi caratteri peculiari recepisce tramite l’articolo 1§4 la speciale nozione di impresa elaborata in sede comunitaria[37].

Il problema appena esposto non risulta privo di importanza per le implicazioni che determina in ordine al fenomeno joint venture, in quanto il legislatore nazionale ha riconosciuto esplicitamente tale qualifica alle società di nuova costituzione controllate congiuntamente da due o più imprese. Occorre quindi chiedersi se l’interpretazione alla luce dei principi elaborati in sede comunitaria possa spingersi sino a stravolgere il dato testuale e, sulla base della nozione di impresa ivi accolta ed indirettamente recepita nella legislazione antitrust nazionale, sia possibile qualificare come imprese comuni fattispecie diverse dalla costituzione di nuove società controllate congiuntamente da due o più imprese.

Parte della dottrina[38] ritiene che la ristrettezza della definizione formulata dal legislatore nazionale sia dovuta ad un’imprecisione linguistica e che, pertanto, ricadrebbero nell’ambito delle imprese comuni anche fattispecie ad essa non riconducibili. Altra dottrina[39] ha invece giustificato tale scelta affermando che si è resa necessaria per chiarire che, nella fattispecie prevista all’articolo 5§1 lett. c, il controllo delle operazioni di concentrazione risulta possibile nonostante manchi un vero e proprio atto di acquisto del controllo, inteso come trasferimento di ricchezza da una parte all’altra, per cui risulterebbero correttamente qualificabili come imprese comuni le sole fattispecie rientranti nel dettato normativo, mentre tutto ciò che risulti ad esso estraneo potrà, di volta in volta, essere qualificato come intesa o concentrazione.

L’Autorità garante dal canto suo ha preferito, quantomeno inizialmente, non discostarsi dal dato testuale applicando il test di coordinamento previsto dall’articolo 5§3[40] alle sole operazioni dirette alla costituzione di nuove società controllate congiuntamente da due o più imprese, riconoscendo invece natura concentrativa ad ogni altra ipotesi di acquisto di controllo congiunto[41].

In un secondo momento invece l’Autorità, discostandosi dal dato letterale, ha riconosciuto in sintonia con gli orientamenti comunitari l’esistenza di una joint venture indipendentemente dalla nuova costituzione di un’impresa o dall’adozione della forma societaria[42], applicando di conseguenza il test di coordinamento ad un ventaglio di ipotesi più ampio che in precedenza.

Il proprium del fenomeno joint venture, come si è già precisato in precedenza, è costituito dall’esistenza di una situazione di controllo congiunto, dal fatto cioè che l’impresa comune sia soggetta, di diritto o di fatto, all’influenza determinante delle sue fondatrici[43].

Secondo una recente ed autorevole dottrina[44] l’Autorità garante, in sede di valutazione del controllo congiunto, non si sarebbe discostata in misura significativa dagli orientamenti elaborati in sede comunitaria; personalmente ritengo l’osservazione pertinente e condivisibile, in quanto il Garante ha a più riprese fatto proprie le argomentazioni della Commissione Europea, utilizzandole per giustificare i provvedimenti adottati.

Occorre, a questo punto della trattazione, procedere ad un breve esame delle fattispecie nelle quali suole manifestarsi il controllo congiunto, rinviando però al capitolo precedente per gli opportuni approfondimenti; determina sicuramente una presunzione di esistenza di controllo congiunto, una ripartizione del capitale sociale su base paritetica; si tratta però di una presunzione iuris tantum potendo infatti venir meno ove ad un’eguale distribuzione del capitale sociale non corrispondano i medesimi poteri decisionali in seno agli organi di gestione ma, al contrario, si abbia un’unica società fondatrice in grado di determinare la politica industriale dell’impresa partecipata[45]. Le ipotesi maggiormente problematiche si inseriscono però in un quadro caratterizzato da una diseguale partecipazione al capitale sociale; gli elementi costitutivi del controllo congiunto dovranno in tal caso essere reperiti su due piani differenti: quello dei poteri decisionali e quello dei diritti di veto. Per ciò che concerne il primo aspetto, sembra sufficiente ricordare che una delle fondatrici, pur non controllando una porzione di capitale sociale pari a quella della propria partner, potrebbe godere del diritto di nominare la metà dei componenti gli organi decisionali.

In realtà è sul terreno dei diritti di veto che si rinvengono le fattispecie più interessanti, in quanto a tale livello potrebbero risultare conferiti all’azionista di minoranza, in via parasociale o agendo sui quorum, poteri atti a rafforzarne la posizione, idonei addirittura a paralizzare le decisioni più importanti per l’attività dell’impresa comune, determinando quindi la necessità di adottare di comune accordo le decisioni strategiche; le tecniche utilizzabili per la costituzione di diritti di veto sono molteplici, per cui mi limiterò, avendo già esaminato il problema in precedenza, ad analizzarne alcune. In primis occorre menzionare le modifiche dei quorum deliberativi o la “stipulazione di patti parasociali che impongono alle imprese fondatrici di assumere in comune le deliberazioni attinenti alle strategie ed alla politica della società controllata”[46]; si tratta infatti di fattispecie in ordine alle quali l’Autorità Garante si è ripetutamente espressa[47]. Rimane dubbio però se un mero obbligo di consultazione tra le parti, che non si traduca in un impegno vincolante al rispetto di una condotta uniforme in sede di gestione dell’impresa, sia sufficiente a configurare un’ipotesi di controllo congiunto[48]. Non è necessario che i poteri di veto si estendano alla totalità delle decisioni concernenti l’impresa comune, in quanto risulta sufficiente una loro idoneità a paralizzare le decisioni strategiche per l’attività della joint venture; l’Autorità garante ha, infatti, affermato che l’esistenza di diritti di veto in ordine ad investimenti, sviluppo commerciale e gestione della società, è sufficiente ad integrare ipotesi di controllo congiunto[49]. Risulta invece estraneo alle dinamiche del fenomeno quel complesso di poteri normalmente spettanti agli azionisti di minoranza a difesa del capitale investito[50]. Non si richiede poi il concreto esercizio dei diritti di veto ma risulta sufficiente la loro esistenza, cui si accompagna la possibilità di opporsi efficacemente alle scelte di ogni altra impresa fondatrice. Le ipotesi fin ora esaminate presuppongono l’esistenza di due sole imprese madri ma le conclusioni cui si è pervenuti, adottati gli opportuni accorgimenti, sono valide anche in presenza di fattispecie diverse[51].

Tirando le somme, risulta quindi possibile affermare che, in materia di controllo congiunto, l’attività dell’Autorità garante si è caratterizzata per una sostanziale adesione agli orientamenti elaborati in sede comunitaria; l’unico punto rispetto al quale l’Authority sembra essersi discostata dalla prassi della Commissione consiste nell’asserita esistenza di fenomeni di controllo congiunto tra imprese appartenenti al medesimo gruppo. Le istituzioni comunitarie, sulla base della nozione economico-oggettiva di impresa, escludono la configurabilità stessa di tali fattispecie in seno ad un gruppo; a soluzioni diverse era invece approdato il Garante per la concorrenza ed il mercato.

All’epoca del suo debutto, l’Autorità nazionale aveva infatti affermato la necessità di comunicare preventivamente le operazioni di concentrazione infragruppo che oltrepassassero le soglie di cui all’articolo 16 della legge n.287 del 1990, per cui anche le “operazioni di joint venture” in tal modo realizzate risultavano soggette all’obbligo di notifica e suscettibili di controllo ai sensi della normativa antitrust. In dottrina la soluzione adottata non aveva riscosso molti consensi in quanto, giustamente, si era rilevato come in seno ad un gruppo non fosse possibile parlare di controllo congiunto, essendo tutte le imprese partecipanti soggette al controllo esclusivo dell’holoding capogruppo[52].

Ad ogni modo, ritenuta possibile l’esistenza di una joint venture infragruppo, teoricamente occorreva valutare se ed in quale misura fosse applicabile il test di coordinamento; l’Autorità garante ne ha, tuttavia, sempre escluso l’esperimento qualificando in ogni caso la fattispecie come concentrativa[53]. Il 28 marzo 1995 lo scenario è in parte mutato; infatti in tale data è stato pubblicato un avviso concernente la comunicazione preventiva delle operazioni di concentrazione[54] nel quale il Garante afferma che non deve più considerarsi necessaria la comunicazione delle operazioni realizzate tra società controllate de iure dal medesimo soggetto[55], per cui, a tali condizioni, sfugge ora all’obbligo di notifica e, di conseguenza, al controllo ai sensi della legge n.287 del 1990, anche la costituzione di una “joint venture infragruppo”. Occorre infine ricordare che non viene attribuita valenza autonoma a situazioni di controllo congiunto di un’impresa che risultino avere natura transitoria[56].

7. In bilico tra intese e concentrazioni. La polivalenza del fenomeno joint venture si riflette anche nel dettato normativo della legge antitrust, al pari di quanto avveniva in sede di disciplina comunitaria delle concentrazioni[57] anteriormente alla riforma del 1997. L’articolo 5 della legge n.287 del 1990 stabilisce infatti al §1 che un’operazione di concentrazione si può realizzare anche “quando due o più imprese procedono (…) alla costituzione di un’impresa comune” ed al §3 che le “operazioni aventi quale oggetto o effetto principale il coordinamento del comportamento concorrenziale di imprese indipendenti non danno luogo a concentrazione”. Tra le righe della normativa italiana risulta quindi possibile individuare una linea di demarcazione tra imprese comuni concentrative e cooperative[58] foriera di implicazioni, tanto sul piano procedurale che su quello sostanziale.

Prima di procedere ad un’analisi della valutazione sostanziale del fenomeno, ritengo opportuno delineare brevemente i più significativi risvolti procedurali della distinzione. La qualificazione di un’operazione di joint venture come concentrativa determina l’applicazione delle disposizioni della normativa antitrust dedicate a tala categoria di operazioni; di conseguenza, superate le soglie indicate nell’articolo 16 della legge n.287 del 1990, sorgerà l’obbligo di comunicazione all’Autorità garante[59].

Al contrario, ove l’operazione abbia natura cooperativa, la comunicazione risulterà un onere il cui adempimento avrebbe lo scopo di evitare possibili sanzioni pecuniarie inflitte dall’Autorità, qualora essa abbia avviato l’istruttoria d’ufficio o su denunzia di terzi, nonché l’esercizio di azioni di nullità e di risarcimento del danno; la comunicazione permette inoltre di richiedere un’esenzione dal divieto di intese restrittive della concorrenza.

Per quanto riguarda la fase istruttoria, in materia di intese essa dovrà essere aperta, a pena decadenza del relativo potere[60], entro 120 giorni dalla comunicazione mentre in sede di controllo delle concentrazioni il termine per l’apertura è di 30 giorni dalla comunicazione o dal momento in cui l’Autorità sia venuta a conoscenza dell’operazione[61]. Le modalità di espletamento della fase istruttoria sono identiche in ambedue le ipotesi.

Sul piano sanzionatorio sussistono invece significative differenze. Infatti, le operazioni concentrative in violazione del divieto di cui all’articolo 6 della legge n.287 del 1990 potranno essere vietate ove non ancora realizzate, mentre verranno adottate misure idonee a ripristinare condizioni di concorrenza effettiva ove la concentrazione sia già avvenuta; le operazioni cooperative invece, qualora determinino una restrizione consistente della concorrenza, risulteranno nulle ad ogni effetto. Sono inoltre previste sanzioni pecuniarie.

8. Le joint ventures concentrative nella normativa antitrust nazionale. “Per aversi un’impresa comune concentrativa, essa deve svolgere su base stabile tutte le funzioni di un’entità economica autonoma, e non può avere come oggetto o per effetto il coordinamento tra imprese indipendenti”[62]. In campo comunitario le concentrazioni vengono qualificate come operazioni strutturali, per cui la costituzione di un’impresa comune concentrativa può essere definita come un’operazione che determina un mutamento durevole nell’attività delle imprese fondatrici[63]; l’orientamento comunitario, tramite l’articolo 1 della legge antitrust, è quindi penetrato in campo nazionale[64].

L’Autorità garante ha infatti negato natura concentrativa ad una serie di imprese comuni prive di autonomia ed economicamente dipendenti dalle società fondatrici, che spesso rimangono concorrenti effettive della joint venture[65].

Fondamentale per il riconoscimento della natura concentrativa dell’operazione è una valutazione positiva sotto il profilo dell’autonomia funzionale; infatti tale qualifica è stata negata ad imprese comuni ab origine prive di una propria struttura aziendale e quindi costrette ad appoggiarsi costantemente alle strutture delle società fondatrici[66]. Recentemente però l’Autorità sembra aver modificato in parte il proprio orientamento, adeguandosi così alle ultime evoluzioni del diritto comunitario, riconoscendo natura concentrativa ad imprese comuni operanti sul mercato alle medesime condizioni praticate dalle altre imprese presenti e dotate di un complesso di funzioni e strutture idoneo a permettere alla joint venture di potersi muovere autonomamente[67].

Come in sede comunitaria, anche in ambito nazionale la permanenza delle fondatrici sul mercato dell’impresa comune risulta ostativa al riconoscimento di natura concentrativa all’operazione[68], mentre la totale assenza delle società madri è indice della mancanza di coordinamento del comportamento concorrenziale tra le imprese interessate e di conseguenza del carattere concentrativo della joint venture.

L’Autorità garante non sembra poi tenere in particolare considerazione un indice invece caro alla Commissione Europea: la concorrenza potenziale; una recente ed autorevole dottrina ha ventilato la possibilità che l’atteggiamento dell’Authority sia dovuto all’adesione ai risultati raggiunti negli Stati Uniti dagli studi di BRODLEY, in base ai quali la possibilità per le imprese fondatrici di rientrare, o di entrare per la prima volta, sul mercato dell’impresa comune, terminata la collaborazione, rafforzerebbe il gioco concorrenziale stimolando la joint venture ad aumentare la propria produzione[69].

Ove l’impresa comune si situi in mercati a monte o a valle rispetto a quello delle fondatrici l’inquadramento della fattispecie diviene più complesso; in un primo momento l’Autorità Garante era solita negare natura concentrativa all’operazione[70], mentre successivamente ha in parte mutato orientamento in seguito ad un’analisi più approfondita del fenomeno. E’ stata infatti riconosciuto carattere concentrativo ad imprese comuni operanti a monte o a valle delle fondatrici, che conducevano però anche attività autonome nelle successive fasi di produzione e distribuzione di beni e servizi ed a joint ventures che fornivano un modesto apporto alle funzioni svolte dalle fondatrici[71]. Recentemente, inoltre, l’Autorità garante sembra aver accolto la dottrina della leadership industriale, in base alla quale il coordinamento del comportamento concorrenziale risulta escluso ove sul mercato dell’impresa comune rimanga un’unica fondatrice che ne assuma la guida operativa[72].

Sul punto, è’ importante ricordare che nella Relazione annuale sull’attività svolta per il 1995, l’Autorità, in ossequio agli orientamenti comunitari, ha affermato che “la sola restrizione concorrenziale rilevante, al fine di accertare la natura” delle joint ventures, è quella tra le società fondatrici. Occorre infine ricordare che un eventuale coordinamento relativo ad attività di modesta entità o in mercati esterni rispetto al territorio nazionale, non conferisce natura cooperativa all’operazione[73].

9. La legge antitrust italiana e le joint ventures cooperative. L’altro volto del fenomeno joint venture è costituito dalle operazioni a carattere cooperativo, esaminate in precedenza per ciò che concerne i profili comunitari, la cui analisi si presenta complessa ma estremamente interessante.

In realtà tale categoria potrebbe essere suddivisa in due comparti, uno comprendente le operazioni che mascherano dei veri e propri cartelli di fissazione dei prezzi o di ripartizione dei mercati ed un altro al cui interno si possono collocare le c.d. joint ventures “strutturali”, cioè imprese comuni che, pur non possedendo i requisiti necessari per essere qualificate come concentrative, costituiscono il risultato di una integrazione di risorse di notevole entità da parte delle fondatrici al fine di costituire strutture ausiliarie comuni. Il problema delle imprese comuni strutturali in sede comunitaria è stato uno dei fulcri attorno ai quali si è sviluppato il processo di riforma del Regolamento del Consiglio n.4064 del 1989; l’Autorità garante, nel dibattito suscitato dal Libro Verde della Commissione del 1996, ha espresso sul punto posizioni molto vicine a quelle successivamente accolte dalle Istituzioni comunitarie, caldeggiando le ipotesi di esaminare le operazioni dirette a costituire joint ventures cooperative strutturali alla luce della normativa sulle concentrazioni[74].

La distinzione, di importanza notevole in sede comunitaria, assume connotati peculiari alla luce della normativa antitrust nazionale e della prassi applicativa del Garante; se ne parlerà però più avanti.

Ciò che caratterizza quell’insieme di operazioni che va sotto il nome di imprese comuni cooperative è il fatto che due o più imprese controllino congiuntamente una filiale comune non destinata però a soppiantare le attività individuali delle fondatrici in un mercato determinato, ma ad affiancarsi ad esse, svolgendo così gli effetti di un’intesa tra concorrenti, richiedendo di conseguenza una valutazione di tipo diverso rispetto alle operazioni aventi natura concentrativa.

Non sempre però, in concreto, una joint venture appare come totalmente concentrativa o interamente cooperativa, in quanto può accadere che vi sia nell’operazione realizzata una commistione dei due elementi; qualora gli aspetti concentrativi siano separabili da quelli cooperativi si avranno valutazioni distinte, viceversa l’intera fattispecie dovrà essere esaminata alla luce della disciplina dettata per le intese[75].

Nel 1992[76] l’Autorità garante ha affermato che devono considerarsi cooperative quelle imprese comuni che siano “prive di una propria autonomia ed indipendenza economica dal lato della domanda e dell’offerta”, che fungono quindi da “struttura servente rispetto agli interessi delle imprese fondatrici, che spesso rimangono pienamente operanti sul medesimo mercato dell’impresa comune, ovvero su mercati a monte o a valle, o anche semplicemente contigui”; essa ha di conseguenza valutato alla stregua di intese una serie di joint ventures operanti esclusivamente con o per conto delle fondatrici[77].

Il Garante, nella Relazione annuale sull’attività svolta per il 1993[78], ha inoltre precisato che ove le imprese fondatrici operino sullo stesso mercato della joint venture generalmente l’operazione comporterà “un effetto di coordinamento tra imprese indipendenti”[79]; successivamente però l’attività dell’Authority si è caratterizzata per una più approfondita analisi del fenomeno, in esito alla quale il riconoscimento di natura cooperativa è stato limitato a quelle operazioni mirate alla costituzione di imprese comuni del tutto prive di autonomia, che fungono esclusivamente da strutture ausiliarie delle imprese fondatrici[80].

L’Autorità recentemente è inoltre arrivata ad escludere ogni coordinamento verticale e di conseguenza la natura cooperativa dell’operazione ove vi sia, a monte o a valle dell’impresa comune, un’unica fondatrice che ne assuma la direzione operativa[81].

10. Valutazione sostanziale del fenomeno joint venture. Il trattamento riservato alle operazioni di joint venture risulta differenziato in funzione della pericolosità stimata dal legislatore in ordine alla categoria cui l’impresa comune risulta in concreto inserita.

Le operazioni di tipo concentrativo, ritenute in linea di principio ipotesi meno pericolose delle intese, potranno essere vietate esclusivamente nel caso in cui “comportino la costituzione o il rafforzamento di una posizione dominante sul mercato nazionale in modo da eliminare o ridurre in modo sostanziale e durevole la concorrenza”[82]; i pericoli cui il mercato risulta soggetto devono essere valutati sulla base di una serie di parametri indicati dalla seconda parte dell’articolo 6§1 della legge antitrust[83]. Ove in esito all’istruttoria l’Autorità garante non rilevi la sussistenza delle condizioni previste per l’interdizione, dovrà autorizzare l’operazione[84]; altrimenti vieterà la concentrazione o la autorizzerà prescrivendo le misure necessarie ad evitare restrizioni considerevoli al gioco concorrenziale[85].

Per le operazioni di tipo cooperativo il problema si pone invece in termini sensibilmente diversi; si tratta infatti di fattispecie ad elevata pericolosità per il corretto funzionamento del mercato che, pertanto, risulteranno vietate “ove abbiano per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare in maniera consistente il gioco della concorrenza all’interno del mercato nazionale o in una sua parte rilevante”[86]. La normativa italiana quindi sostanzialmente riproduce il contenuto dell’articolo 81 del Trattato di Roma., con una importante particolarità però: essa richiede infatti, al fine di rendere operante il divieto di intese, che vi sia una “consistente” restrizione della concorrenza. Una dottrina molto autorevole ritiene che il legislatore abbia in tal modo introdotto una rule of reason[87] nella disciplina antitrust italiana, in quanto il divieto dovrebbe applicarsi unicamente qualora l’intesa sia intervenuta tra soggetti che dispongono di un potere di mercato sufficiente a rendere verosimile una minaccia per il gioco della concorrenza[88]. Altra dottrina ha invece rilevato come l’Autorità garante abbia scelto di perseguire un’applicazione “flessibile” del divieto di intese, individuando in un primo momento l’eventuale presenza di un effetto restrittivo, sulla base di un’analisi economica dei mercati che prenda in considerazione anche l’esistenza di diritti di proprietà industriale, e successivamente valutandone la consistenza[89].

L’Autorità garante dal canto suo ha precisato che l’intensità dell’effetto distorsivo deve essere determinata in concreto, tenuto conto del grado di concorrenza del mercato in situazioni di normalità[90]; la soluzione adottata dal Garante permette di sottrarre all’ambito di applicazione della legge antitrust fattispecie in concreto estranee alla ratio della norma[91], riservando invece lo strumento dell’esenzione ad ipotesi che comportano comunque un consistente effetto restrittivo della concorrenza.

Il Garante ha quindi concluso in fase preistruttoria la maggior parte dei procedimenti che hanno visto coinvolte delle joint ventures cooperative[92], mentre lo strumento dell’esenzione è stato riservato a fenomeni comunque distorsivi ma che, contemporaneamente “diano luogo a miglioramenti nelle condizioni di offerta sul mercato i quali abbiano effetti tali da comportare un sostanziale beneficio per i consumatori e che siano individuati anche tenendo conto della necessità di assicurare alle imprese la necessaria concorrenzialità sul piano internazionale e connessi in particolare con l’aumento della produzione stessa o della distribuzione ovvero con il progresso tecnico o tecnologico”[93]. Qualora invece l’effetto anticoncorrenziale risulti consistente e non sussistano le condizioni per la concessione di un’esenzione l’operazione dovrà essere vietata[94].

Tirando quindi le somme, risulta possibile affermare che, in ambito nazionale, le imprese comuni cooperative strutturali sono state ritenute, per la maggior parte, come non rientranti nel divieto di intese in quanto fattispecie normalmente inidonee a pregiudicare il funzionamento del sistema concorrenziale; ove invece è stata rilevata una distorsione consistente è stata concessa un’esenzione[95].

Viceversa, le operazioni di joint venture che in realtà celano cartelli di prezzi, di produzione o di ripartizione del mercato sono soggette ad un trattamento molto più severo, risultando normalmente interdette ove producano consistenti effetti restrittivi del gioco concorrenziale[96].

In presenza di situazioni ibride di tipo cooperativo, cioè di imprese comuni strutturali accanto alle quali si collocano ulteriori accordi restrittivi, occorrerà valutare l’eventuale scindibilità del fenomeno, sottoponendo le singole fattispecie ad analisi distinte solo qualora ne sussista la possibilità; viceversa l’operazione dovrà essere valutata globalmente alla stregua di un qualunque cartello[97].

Occorre infine ricordare che l’Autorità non potrà autorizzare intese in grado di eliminare la concorrenza in una parte sostanziale del mercato nazionale e che l’autorizzazione eventualmente concessa rimane sempre revocabile ove l’interessato ne abusi o qualora venga meno alcuno dei suoi presupposti[98].

11. Joint ventures, disciplina comunitaria ed Authority antitrust. Il problema che si intende affrontare a questo punto della trattazione si sostanzia nel valutare quali siano i poteri spettanti all’Autorità garante nei confronti di operazioni di joint venture di dimensione comunitaria che producono i loro effetti sul territorio italiano.

Nell’analisi del fenomeno occorre in primis distinguere tra operazioni di tipo concentrativo e fattispecie cooperative; nel primo caso, in forza del disposto del Regolamento del Consiglio Europeo n.4064/89, l’unico soggetto competente a conoscere dell’operazione è la Commissione Europea alla quale l’Autorità garante potrà eventualmente richiedere che il caso di concentrazione le sia sottoposto ai sensi dell’articolo 9 della citata normativa comunitaria.

Ipotesi invece ben più problematica ed interessante appare essere la seconda, ancorchè, in virtù della riforma del 1997, debba considerarsi limitata ad un numero inferiore di casi; essa si situa al di fuori della competenza esclusiva della Commissione Europea sulla base dell’applicabilità diretta dei principi enunciati agli articoli 81§1 ed 82 del Trattato di Roma. L’articolo 1§2 della legge n.287 del 1990, dispone però che “per le fattispecie in relazione alle quali risulti già iniziata una procedura presso la Commissione delle Comunità europee in base alle norme richiamate nel comma 1[99], l’Autorità sospende l’istruttoria, salvo che per gli eventuali aspetti di esclusiva rilevanza nazionale”; la norma citata si pone quindi sullo stesso piano dell’articolo 9§3 del Regolamento del Consiglio n.17/62, il quale stabilisce che, fin quando la Commissione non abbia iniziato alcuna procedura, le autorità degli Stati membri sono competenti per l’applicazione dell’articolo 81§1 e dell’articolo 82 del Trattato.

I problemi da analizzare risultano quindi essere sostanzialmente due: a) individuare quali siano in concreto i poteri del Garante; b) valutare sin quando sia possibile esercitarli. La risposta al primo quesito risulta ora fornita dalla legge comunitaria per il 1994[100] che, all’articolo 54, dispone testualmente che “l’Autorità Garante della concorrenza e del mercato, in quanto autorità nazionale competente in materia di concorrenza, applica, (…), gli articoli 81, paragrafo 1, ed 82 del Trattato istitutivo della Comunità europea, utilizzando i poteri ed agendo secondo le procedure di cui al Titolo II, Capo II” della legge n.287 del 1990.

Si tratta di una disposizione particolarmente importante che nelle intenzioni del legislatore avrebbe dovuto rimuovere ogni dubbio circa la possibilità per il Garante di applicare le norme comunitarie citate, predisponendo inoltre un apparato procedurale utilizzabile a tal fine.

La seconda parte dell’articolo 54 della legge comunitaria per il 1994 fornisce poi una parziale risposta al secondo quesito, statuendo che “l’Autorità informa la Commissione delle Comunità europee e sospende lo svolgimento del procedimento qualora la Commissione inizi, con riguardo alla medesima fattispecie, una procedura a norma dei regolamenti comunitari”; la risposta è parziale in quanto non è la norma italiana a dare contenuto concreto alla definizione “inizio di procedura”, ma è l’esperienza comunitaria[101].

Una dottrina molto recente ha rilevato che, “poiché l’applicazione della normativa interna o di quella comunitaria non richiede diverse indagini istruttorie, ma eventualmente comporta solo una diversa valutazione dei fatti, l’Autorità” potrebbe “fondare la decisione sulla normativa interna o su quella comunitaria o su entrambe in via gradata, senza bisogno di avviare distinti procedimenti, col solo onere, (…), di informare le imprese interessate che essa si propone di valutare i fatti anche o solo sulla base degli articoli 85 e 86 in modo da consentire alle imprese di difendersi anche alla luce di tali disposizioni”[102].

Personalmente però ritengo che il fenomeno si manifesti con contorni più sfumati, in quanto il modus operandi della Commissione Europea risulta diverso da quello dell’Autorità garante rispetto al problema joint venture. Per quanto riguarda le imprese comuni cooperative “strutturali” infatti, mentre l’Authority è normalmente orientata a ritenere inapplicabile il divieto di intese in mancanza di un consistente effetto restrittivo del gioco concorrenziale, la Commissione soleva, invece, utilizzare lo strumento dell’esenzione ai sensi dell’articolo 81§3 del Trattato. Il potere di concedere esenzioni non risulta però in alcun modo conferito al Garante che, di conseguenza, si potrebbe trovar costretto a vietare operazioni che, ove non fossero di dimensione comunitaria, non ricadrebbero neppure nel divieto di intese ai sensi della legge antitrust nazionale, oppure ad interpretare le norme comunitarie in modo difforme rispetto agli orientamenti della Commissione, ponendo quindi in essere provvedimenti amministrativi sostanzialmente illegittimi. In realtà però non esiste alcuna alternativa in quanto il Garante non potrà che scegliere la prima strada, trovandosi però costretto a “tradir sè stesso”[103].

Per quanto riguarda le joint ventures cooperative strutturali, il problema ha però trovato soluzione in sede di revisione del Regolamento n.4064/89, in quanto la proposta della Commissione contenuta nel Libro Verde del 1996 ed accolta dal Consiglio nel più volte citato Regolamento n.1310/97 prevede la possibilità di includere tali figure nell’ambito della normativa comunitaria sulle concentrazioni, escludendo di conseguenza, a partire dall’1 marzo 1998, ogni possibilità di intervento delle autorità nazionali rispetto alle fattispecie di dimensione comunitaria; tuttavia, il problema continua a porsi per quelle operazioni prive dei requisiti di bilancio che legittimano l’applicazione del Regolamento sulle concentrazioni.

La qualifica di joint venture, attribuita ad un’operazione posta in essere da due o più imprese, è foriera di una pluralità di conseguenze sul piano della normativa antitrust, in funzione della “natura”, di volta in volta, ad essa riconosciuta. Questa “etichetta” nulla dice però rispetto agli assetti organizzativi cui si giustappone.

Avendo già ampiamente esaminato la distinzione tra imprese comuni cooperative e concentrative, sembra opportuno, adesso, porsi due interrogativi: a) a tale dicotomia corrisponde l’utilizzo di specifici “schemi” organizzativi di diritto privato? e b) è possibile dare una risposta univoca e costante all’interrogativo precedente?. Mi sento in dovere di premettere che, in un campo particolarmente “fluido” come quello del diritto antitrust, la pretesa di una risposta completa ed esaustiva è destinata a rimanere insoddisfatta; appare tuttavia possibile tentare, attraverso un’analisi del fenomeno, la sistematizzazione di alcuni principi orientativi.

In linea teorica, si potrebbe sostenere l’esistenza di una corrispondenza tra l’utilizzo dello strumento societario e la qualifica dell’operazione congiuntamente realizzata come concentrativa; l’adozione dello schema consortile o di quello del raggruppamento temporaneo di imprese, denoterebbe invece il carattere cooperativo dell’impresa comune. In linea di principio questa potrebbe essere una ricostruzione plausibile del fenomeno joint venture, osservato dal punto di vista del diritto privato italiano; l’utilizzo dello schema societario, infatti, ben si presta alla realizzazione di mutamenti “strutturali”, conferendo loro una ben maggiore stabilità rispetto a quello consortile o a quello del raggruppamento temporaneo di imprese.

Tuttavia, ciò che, sul piano teorico, appare lineare, potrebbe manifestarsi in concreto con contorni più sfumati. L’operatore del diritto antitrust, per sua stessa natura, non può arrestarsi ad un’analisi di tipo “formale”, peraltro decisamente utile per rilevare a prima vista indizi di un eventuale comportamento restrittivo della concorrenza, ma deve sondare la “sostanza” delle cose, valutando ogni fattispecie concreta per ciò che, sul piano concorrenziale, essa rappresenta; pertanto, quale che sia la “forma” giuridica utilizzata dalle imprese fondatrici, ogni operazione di joint venture dovrà essere valutata dal punto di vista economico in un primo momento e, in via consequenziale, da quello giuridico. In concreto potrebbe infatti accadere che sul mercato di un’impresa comune societaria operino anche le imprese madri, per cui risulterebbe arduo qualificare tale operazione come concentrativa; d’altro canto però, anche un’impresa comune consortile, destinata ad intrattenere relazioni esterne ed operante in mercati a monte o a valle delle imprese consorziate, a loro volta assenti dal mercato della joint venture, che svolga prevalentemente attività in nome e per conto proprio, potrebbe essere considerata concentrativa, qualora le parti consorziate si siano impegnate ad assicurare stabilità all’iniziativa per un periodo di tempo piuttosto lungo. Certo è, tuttavia, che i consorzi che non svolgono attività esterna ed i raggruppamenti temporanei di imprese, ben difficilmente potrebbero risultare qualificabili come concentrazioni.

Ritornando ai due interrogativi che ci si era in precedenza posti, ritengo di poter dare una risposta positiva al primo, in quanto credo che, in linea di principio, un parallelismo tra joint ventures cooperative o concentrative ed imprese comuni consortili o societarie sussista; per quanto riguarda il secondo invece, ritengo di dover rispondere negativamente, risultando imprescindibile un’analisi caso per caso delle operazioni realizzate.

[1]DENOZZA, Un nuovo modello per i rapporti tra diritto comunitario e diritto antitrust nazionale: la barriera unica omogenea, Quadrimestre, 1992, 640.

[2]Tale sistema è presente per es. nella legislazione britannica che vieta una serie di pratiche commerciali tra costruttori e rivenditori di autoveicoli, in quanto considerate anticompetitive; queste operazioni risultano invece, in campo comunitario legittime, in quanto esentate dal Regolamento della Commissione n.123/85.

[3]DENOZZA, Un nuovo modello per i rapporti tra diritto comunitario e diritto antitrust nazionale: la barriera unica omogenea, cit., 642.

[4] Come accade in materia di concentrazioni.

[5]DENOZZA, Un nuovo modello, cit , p.641.

[6]Tesi invece affermata, tra gli altri, da GUARINO, Sul rapporto tra la nuova legge antitrust e la disciplina comunitaria della concorrenza, Contratto e Impresa, 1991, 639 e seguenti.

[7]Art.5§3 L.287/90.

[8]Nel caso cit. non lo ha fatto poiché ha ritenuto che l’operazione si risolvesse “in un riassetto organizzativo interno al gruppo, privo di riflessi esterni e che non comporta la costituzione od il rafforzamento di una posizione dominante sul mercato tale da eliminare o ridurre in modo sostanziale e durevole la concorrenza”.

[9]Tali valori devono essere incrementati annualmente in proporzione all’aumento del deflattore dei prezzi del P.I.L.; l’operazione ha lo scopo di evitare che il tasso di inflazione falsi, col passare del tempo, i valori monetari assunti dalla legge come parametro della propria applicazione.

[10]Per il calcolo del fatturato degli istituti bancari e finanziari sono previste, dal §2 dell’art.16, regole particolari.

[11]Nei 5 giorni seguenti l’Autorità ne dà notizia al Presidente del Consiglio dei Ministri ed al Ministro dell’industria, del commercio e dell’artigianato.

[12]Termine che l’Autorità non ritiene perentorio.

[13]In tal caso l’Autorità dovrà darne comunicazione alle imprese interessate ed al Ministro dell’industria, del commercio e dell’artigianato esponendo inoltre le proprie conclusioni.

[14]In quanto apparentemente idonea a determinare la “costituzione o il rafforzamento di una posizione dominante sul mercato nazionale in modo da eliminare o ridurre in modo sostanziale e durevole la concorrenza”.

[15]Per le operazioni di concentrazione che si realizzano mediante O.P.A. vigono regole speciali; in primis l’O.P.A. deve essere contestualmente comunicata sia alla Authority antitrust che alla Consob, in secondo luogo la fase preistruttoria dovrà concludersi entro 15 giorni e dovrà esserne data comunicazione anche all’ organo di sorveglianza sul mercato dei valori mobiliari.

[16]Termine perentorio ai sensi dell’art.16§8 e prorogabile nel corso della istruttoria per altri 30 giorni, in caso di atteggiamenti ostruzionistici delle imprese interessate, mediante comunicazione alle imprese ed al Ministro dell’industria, del commercio e dell’artigianato delle conclusioni di merito cui è pervenuta l’Autorità. L’inerzia dell’Authority, secondo ALESSI e OLIVIERI, La disciplina della concorrenza e del mercato, Torino, 1991, 171, dovrà essere considerata come silenzio inadempimento.

[17]Il §1 dell’articolo 14 è invece diretto ad assicurare, all’interno del procedimento, il diritto alla difesa, disponendo l’obbligo di notificare l’apertura dell’istruttoria ad imprese ed enti interessati e riconoscendo ai loro titolari o legali rappresentanti il diritto di essere sentiti, nonché la facoltà di presentare deduzioni e pareri.

L’ultima parte dell’ articolo, il §5, si preoccupa di fornire all’Autorità Garante gli strumenti necessari a rendere effettivo ed utile l’espletamento della fase istruttoria; vengono infatti previste sanzioni amministrative pecuniarie, fino a cinquanta milioni di lire, per chi senza giustificato motivo rifiuti o ometta di fornire informazioni o di esibire documenti e, fino a cento milioni di lire, per chiunque fornisca informazioni non veritiere o esibisca documenti falsi.

[18]Art.14§3 L.287/90.

[19]Non sono suscettibili di sospensione le O.P.A. comunicate ritualmente all’Autorità Garante, a patto che “l’acquirente non eserciti i diritti di voto inerenti ai titoli in questione”; la norma, al contrario dello articolo 7§3 del Regolamento del Consiglio sulle concentrazioni, non esenta l’esercizio dei diritti di voto al solo fine di mantenere il valore dei capitali investiti. Ciò sembra riconducibile alla natura discrezionale della sospensione prevista dalla normativa nazionale, in quanto l’esenzione riconosciuta dal Regolamento comunitario ha lo scopo di sottrarre l’ O.P.A. alla sospensione che la colpirebbe ex lege in seguito all’ esercizio dei diritti di voto. E’ da rilevare inoltre che il legislatore nazionale non ha preso espressamente in considerazione le offerte pubbliche di scambio, al contrario del legislatore comunitario, che pertanto sembrano restare disciplinate dalla normativa generale dettata dalla legge antitrust in materia di concentrazioni.

[20]Il mercato geografico rilevante coincide per lo più con l’intero territorio nazionale, anche se occorre ricordare che, nell’Appendice 2 del Formulario per la comunicazione delle operazioni di concentrazione, si specifica che il mercato geografico rilevante comprende anche quelle aree nazionali nelle quali le condizioni di concorrenza sono omogenee e che è possibile distinguere dalle zone contigue in quanto caratterizzate da condizioni di concorrenza sensibilmente diverse. Per ciò che concerne il mercato merceologico occorre precisare che esso comprende tutti i prodotti ed i servizi considerati intercambiabili o sostituibili dal consumatore; bisogna dire però che l’Autorità Garante ha, alcune volte, individuato mercati molto estesi: per es. nel Provv. Silbail International/Società Leasimpresa, n.56 del 19 marzo 1991, “ha individuato un mercato italiano del leasing, evidentemente considerando che non si potesse suddividere in specifici sottosettori il variegato mercato di chi fornisce servizi mediante questo innovativo strumento giuridico-finanziario”; tutto ciò viene precisato da DE NICOLA, La disciplina della concorrenza e del mercato: il controllo delle concentrazioni in Italia, Giur. Comm., I, 1992, p.543.

[21]Non sono previste dalla legge quote che non devono essere superate affinchè l’operazione si presuma compatibile con il mercato; al contrario il 15° considerando relativo al Regolamento comunitario 4064/89 presume la compatibilità della operazione “qualora la quota di mercato delle imprese interessate non sia superiore al 25% del mercato comune nè in una sua parte sostanziale”.

[22]Normalmente l’uno o il due per cento del mercato rilevante.

[23]L’assenza di barriere all’entrata è stata presa in considerazione in una serie di

provvedimenti autorizzatori: si vedano per tutti i Provv.ti n.85, del 29 maggio 1991, Hiram Walker/S.P.I.R.I.T.; n.71, dell’8 maggio 1991, Aleina/Fiar; n.91, del 12 giugno 1991, GFT Sportswear/Texfin.

[24]Art.6§1 L.287/90.

[25]Art.6§2 L.287/90.

[26]Art.18§3 L.287/90.

[27]Il §1 dell’articolo si occupa delle operazioni portate a termine nonostante il divieto imposto dall’Autorità Garante ai sensi dell’articolo 16§1 e della violazione delle prescrizioni contenute nel provvedimento che dispone le misure necessarie a ripristinare condizioni di concorrenza effettive, adottato ove la decisione che dichiara la concentrazione contraria all’ articoli 6§1 sia posteriore alla conclusione dell’ operazione; la norma dispone che il Garante infligga “sanzioni amministrative pecuniarie non inferiori all’1% e non superiori al 10% del fatturato delle attività di impresa oggetto della concentrazione”. In caso di inottemperanza dell’obbligo di comunicazione preventiva l’Autorità può infliggere alle imprese sanzioni amministrative pecuniarie di ammontare non superiore all’1% del fatturato dell’anno precedente quello in cui è avvenuta la contestazione; tali sanzioni sono cumulabili con quelle esaminate in precedenza.

[28]Art.25§1 L.287/90.

[29]Il tutto dovrà avvenire entro 30 giorni dalla comunicazione dell’operazione al Governo.

[30]Parte della dottrina ritiene che l’articolo 33 n.2 della legge n.287 del 1990 non debba essere interpretata come una riserva di giurisdizione, bemsì come una riserva di competenza e, pertanto, “nulla osta di per sé alla conoscibilità degli arbitri di questioni attinenti alle azioni di nullità o di risarcimento del danno relative, per esempio, ad accordi o intese che l’Autorità garante ha considerato violare le norme antitrust”; in tal senso FRANCESCHELLI, Antitrust e arbitrabilità delle controversie, in Diritto e Pratica delle società, n.5, 1999, 34.

[31]Comunicazione della Commissione del 14 agosto 1990.

[32]Comunicazione della Commissione del 14 agosto 1990.

[33]Sul punto si veda GUIZZI, Il concetto di impresa tra diritto comunitario, legge antitrust e codice civile, in Riv. Dir. Comm., I, 1993,. 277 ss..

[34]GUACCERO, L’impresa comune nella disciplina antitrust nazionale, Riv. Dir. Comm., I, 1993, 758.

[35]“L’interpretazione delle norme contenute nel presente titolo è effettuata in base ai principi dell’ordinamento delle Comunità europee in materia di disciplina della concorrenza”.

[36]GUACCERO, L’impresa comune nella disciplina antitrust nazionale, cit., 762.

[37]Nozione che risulta però utilizzabile ai soli fini della normativa antitrust.

[38]CALBOLI, La nozione di impresa comune: disciplina comunitaria e nazionale a confronto. Il caso Cementir/Sacci, in Giur. Comm., II, 1993, 335 ss..

[39]CERRAI, La normativa antitrust a tutela del pluralismo informativo, in Trattato delle società per azioni, diretto da COLOMBO e PORTALE, vol. 8, Torino, 1992, 469.

[40]“Le operazioni aventi quale oggetto o effetto principale il coordinamento del comportamento di imprese indipendenti non danno luogo ad una concentrazione”.

[41]Sul punto si vedano i Provv. n.2824, Edizione Holding-La Leonardo Finanziaria/Euromercato, in Boll. n.7/95; n.2814, Edizione Holding-La Leonardo Finanziaria-Movenpick Holding/SME, in Boll. n.7/95.

[42]Sul punto si veda il Provv. n.1575, Praevidentia/Tirrenia, in Boll. n.34/93 e la Relazione annuale sull’attività svolta per il 1994, Roma, 1994.

[43]L’art.7 della legge n.287 del 1990 afferma che “si ha controllo nei casi contemplati dall’art.2359 c.c. ed inoltre in presenza di diritti, contratti o altri rapporti giuridici che conferiscono, da soli o congiuntamente, e tenuto conto delle circostanze di fatto e di diritto, la possibilità di esercitare un’influenza determinante sulle attività di un’impresa, anche attraverso: a) diritti di proprietà o di godimento sulla totalità o su parti del patrimonio di un’impresa; b) diritti, contratti o altri rapporti giuridici che conferiscono un’influenza determinante sulla composizione, sulle deliberazioni o sulle decisioni degli organi di un’impresa”.

[44]GHEZZI, Le imprese comuni nel diritto della concorrenza, Milano, 1996, 395.

[45]Sul punto si vedano i Provv. n.251, Benetton Fashion/Benetton Undercolors, in Boll. n.13/91; n.1274, Autogrill/Procace, in Boll. n. 15-16/93; n.1525, Vacanze Italia/Rudargia Service, in Boll. n.31/93.

[46]GHEZZI, Le imprese comuni nel diritto della concorrenza, Milano, 1996, 369.

[47]Si vedano sul punto i Provv. n.109, Rinascente/Sogema, in Boll. n.5/91; n.144, Fisia/Consulacqua, in Boll. n.7/91; n.88, Pirelli Servocavi/Fujikura, in Boll. n.3/91; n.728, Cogefar/Omasa, in Boll. n.19/92; n.628, Bayer/Apichem, in Boll. n.14/92; n.395, C.Risp.Torino/C.Risp.Città di Castello, in Boll. n.4/92; n.1064, Alitalia/Malev, in Boll. n.7/93; n.1971, Partecipations/Tempo Libero-Covaltur, in Boll. n.42/94.

[48]L’Autorità garante, nel Provv. n.2139, Banca di Roma/Banca Mediterranea, in Boll. n.28-29/94, ha ritenuto che la presenza di un obbligo di consultazione fosse sufficiente a determinare una situazione di controllo congiunto sulla Banca Mediterranea da parte della Banca di Roma e del c.d. Gruppo Somma.

[49]Provv. n.628, Bayer/Apichem, in Boll. n.14/92.

[50]Ad esempio i poteri inerenti alle decisioni che incidono sullo statuto o sulla struttura dell’impresa.

[51]Ad esempio si possono avere più di due imprese fondatrici in situazione di controllo congiunto, come nel caso Nord Calce, conclusosi con il Provv. n.1310, pubblicato in Boll. n.18-19/93; nella fattispecie vi erano quattro imprese madri che detenevano individualmente il 25% del capitale dell’impresa comune e si trovavano in situazione di controllo congiunto in quanto lo statuto prevedeva un quorum deliberativo del 76% del capitale sociale per la nomina di amministratori e sindaci e per le deliberazioni in sede di assemblea straordinaria.

[52]Si ,vedano sul punto i Provv. n.238, SAI/Fin, G.It./Sopafin, in Boll. n.4/91; n.22, Selenia/Elsag, in Boll. n.1/91; n.902, Fiat Avio/Fiat Ciei, in Boll. n.1/93; n.904, Reti Televisive Italiane/Elettronica Industriale, in Boll. n.1/93; n.1446, Assitalia/Praevidentia, in Boll. n.15/93; n.1740, CTG/Italcementi/Technodes, in Boll. n.3/94; n.2319, AEM/Malpensa Energia, in Boll. n.38/94; n.2648, Italinpa-Teleleasing/Primafin 83, in Boll. n.51-52/94.

[53]Sul punto si veda la Relazione annuale dell’Autorità Garante della concorrenza e del mercato per il 1990, Roma, 1991, 32.

[54]Pubblicato in Boll. n.12/95.

[55]Le operazioni devono invece essere comunicate ove “per il carattere esclusivamente finanziario della partecipazione” non vi sia un vero e proprio rapporto di dipendenza tra le società interessate.

[56]Si veda sul punto la Relazione annuale dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato per il 1996, Roma, 1996, 187.

[57]Si veda sul punto l’art.3§4 del Reg.4064/89.

[58]Distinzione analizzata approfonditamente, per ciò che concerne la disciplina comunitaria, al Cap. II.

[59]Ciò si verifica quando il fatturato realizzato in Italia dai gruppi cui le imprese fondatrici appartengono supera i 500 miliardi di lire; oppure quando il fatturato realizzato dall’impresa comune è maggiore di 50 miliardi di lire; oppure quando la somma dei fatturati dei gruppi delle imprese fondatrici e dell’impresa comune è superiore a 500 miliardi.

[60]Salvo il caso di comunicazioni incomplete o non veritiere; art.13§1 legge n.287/90.

[61]Regole speciali sono previste per le O.P.A.; Art.16 paragrafi 5 e 6 della legge n.287/90.

[62]GHEZZI, Le imprese comuni nel diritto della concorrenza, cit., 408-409.

[63]Le intese vengono invece considerate operazioni “il cui oggetto o effetto è il coordinamento delle attività concorrenziali che rimangono reciprocamente indipendenti”; 23° considerando al Reg.4064/89. Sul piano pratico però la distinzione risulta molto più sfumata, in quanto anche le intese possono determinare modifiche strutturali e le concentrazioni coordinamenti comportamentali.

[64]Anche se, per ciò che concerne le imprese comuni cooperative, l’Autorità ha elaborato soluzioni originali; se ne parlerà più avanti.

[65]Sul punto si veda la Relazione annuale dell’Autorità Garante della concorrenza e del mercato per il 1992, Roma, 1992, 30.

[66]Si vedano sul punto i Provv. n.915, Himont Italia/Commerfin, in Boll. n.2/93; n.379, Cementir/Sacelit , in Boll. n.3/92; n.109, Rinascente/Sogema, in Boll. n.5/91.

[67]Si veda sul punto il Provv. n.1709, Api/Semeraro, in Boll. n.1-2/94.

[68]Si veda sul punto il Provv. n.508, Cementir/Sacci, in Boll. n.9/92, nel quale l’Autorità, nel qualificare l’operazione diretta alla costituzione dell’impresa comune Cemsa come intesa, ha dato un peso rilevante al fatto che Cementir e Sacci fossero rimaste concorrenti attuali nel mercato dell’impresa comune.

[69]GHEZZI, Le imprese comuni, cit., 416.

[70]Si vedano ad esempio i Provv. n.1576, Società per i servizi bancari, in Boll. n.34/93; n.379, Cementir/Sacelit, in Boll. n.3/92.

[71]Si veda sul punto il Provv. n.2317, Exxon Chemical Company/Nalco Chemical Company, in Boll. n.34/94.

[72]Si vedano sul punto i Provv. n.1064, Alitalia/Malev, in Boll. n.7/93; n.1759, Credito Italiano/Banca Cattolica, in Boll. n. 4/94; n.2139, Pechinay Int.-CFL/Capolo Holding, in Boll. n.20/94; n.2073, Finflight/Air Europe, in Boll. n.25-26/94; n.3006, Gepafin/Novotel Italia, in Boll. n.18/95.

[73]Si veda sul punto il Provv. n.3038, Mc Neil PPC-Confab/Confab International, in Boll. n.19/95.

[74]“L’Autorità ha espresso una valutazione favorevole circa l’ipotesi di armonizzare le procedure applicabili alle imprese comuni cooperative strutturali alle procedure utilizzate nel controllo delle concentrazioni”. Relazione annuale dell’Autorità Garante della concorrenza e del mercato per il 1996, Roma, 1996, 213.

[75]Si veda sul punto il Provv. n.109, Rinascente/Sogema, in Boll. n.5/91.

[76]Relazione annuale dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato per il 1992, Roma, 1992, 30.

[77]Si vedano sul punto i Provv, n,1576, Società per i servizi bancari, in Boll. n.34/93 e n.915, Himont Italia/Commerfin, in Boll. n.2/93.

[78]Relazione annuale dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato per il 1993, Roma, 1993, 146.

[79]Sul punto si vedano i Provv. n.1794, Sapio-IGI-Siad/Chemgas, in Boll. n.4/94 e n.1797, Son-IGI-Siad/Igat, in Boll. n.4/94.

[80] Si veda sul punto il Provv. n.1797, Son-IGI-Siad/Igat, in Boll. n.4/94, nel quale l’operazione venne qualificata come intesa in quanto le imprese madri sarebbero divenute mere distributrici del gas prodotto dalla joint venture senza procedere ad alcuna ulteriore trasformazione.

[81] Questa è la c.d. dottrina della leadership industriale, valida anche nei rapporti tra operatori in concorrenza tra loro. Sul punto si vedano i Provv. n.1759, Credito Italiano/Banca Cattolica, in Boll. n.4/94 e n.2139, Pechinay Int.-CFL/Capolo Holding, in Boll. n.20/94.

[82]Art.6§1 legge n.287 del 1990.

[83]Si tratta in particolare di: possibilità di scelta di fornitori ed utilizzatori; posizione sul mercato delle imprese interessate; struttura dei mercati; situazione competitiva dell’industria nazionale; barriere all’entrata ed andamento della domanda e dell’offerta.

[84]Si veda sul punto il Provv. n.5363, Telecom Italia/Mediocredito Centrale, in Boll. n.40/97, nel quale l’Autorità ha autorizzato la costituzione dell’impresa comune concentrativa Fintech in quanto il mercato merceologico risultava essere in via di sviluppo e Telecom Italia, una delle fondatrici, risultava assente dal mercato della joint venture.

[85]“Emerge chiaramente come l’idoneità degli eventuali impegni adottati dalle imprese a rimuovere il rischio di una diminuzione sostanziale e durevole della concorrenza sia strettamente connessa alle specifiche restrizioni della concorrenza rilevate nel progetto originario di concentrazione notificato all’Autorità”. Relazione annuale dell’Autorità Garante della concorrenza e del mercato per il 1997, Roma, 1997, 182-183.

[86]Art.2§2 legge n.287 del 1990.

[87]Tale nozione nasce negli Stati Uniti e si manifesta per la prima volta nel caso Mitchel v. Reynolds, 1 P. Wms. 181, 24 Erg. Rep. 347 (K.B. 1711), nel quale si afferma che “tutti gli accordi contrattuali ove si riscontri una mera restrizione del commercio e niente di più, sono invalidi. Tuttavia, questa presunzione è esclusa se circostanze specifiche della fattispecie mostrano che il contratto è ragionevole e proficuo per gli interessi della collettività”; la traduzione del brano è tratta da G.Bernini, Un secolo di filosofia antitrust, Bologna, 1991, p.92. La Suprema Corte degli Stati Uniti applicò per la prima volta tale principio nel 1911, nei casi Standard Oil Co. of New Jersey v. U.S., 1, 31, Sup. Ct., 502 e U.S. v. American Tobacco Co., 221, U.S., 106, 181, 31, Sup. Ct., 632, 649 (1911). Negli Stati Uniti il diritto antitrust è stato ab origine condizionato dalla dicotomia rule of reason-per se condemnation che ha visto prevalere di volta in volta i principi più liberali rappresentati dalla prima oppure la condanna in sé e per sé delle pratiche restrittive che si manifesta nella seconda.

[88]PARDOLESI, Commento all’articolo 2, in Diritto Antitrust italiano, Bologna, 1993, 197.

[89]GHEZZI, Le imprese comuni nel diritto della concorrenza, Milano, 1996, 424-425.

[90]Relazione annuale dell’Autorità Garante della concorrenza e del mercato per il 1995, Roma, 1995, 130.

[91]Si tratta di fattispecie che, in sede comunitaria, si collocano al di sotto delle soglie de minimis o che vengono costantemente esentate ai sensi dell’art.81§3 del Trattato C.E..

[92]Si vedano sul punto i Provv. n. 94, Mitsui/Nippon, in Boll. n.4/91; n.379, Cementir/Sacelit, in Boll. n.3/92; n.109, Rinascente/Sogema, in Boll. n. 5/91; n.768, IBM-Generali/IGI, in Boll. n.21/92.

[93]Art.4§1 legge n,287 del 1990. Si vedano sul punto i Provv. n.1794,Sapio-IGI-Siad/Chemgas, in Boll. n.4/94 e n.1797, Son-IGI-Siad/Chemgas, in Boll. n.4/94, con i quali l’Autorità garante ha autorizzato la costituzione di due imprese comuni cooperative idonee a produrre effetti restrittivi della concorrenza ma, contemporaneamente, foriere di vantaggi, in termini economici e di servizi, per i consumatori.

[94]Si vedano sul punto i Provv. n.508, Cementir/Sacci, in Boll. n.9/92 e n.1310, Nord Calce, in Boll. n.18-19/93.

[95]Nel solo caso Cementir/Sacci un’impresa comune cooperativa strutturale risulta esser stata vietata; ciò è però avvenuto in quanto l’accordo diretto alla costituzione della joint venture Cemsa si situava nell’ambito di un complesso di intese stipulate tra Cementir e Sacci al fine di ripartire tra loro quote rilevanti del mercato del calcestruzzo nell’Italia centrale.

[96]Ciò è infatti avvenuto nel caso Nord Calce, nel quale l’omonima impresa comune mascherava un cartello di ripartizione del mercato, limitandosi esclusivamente a raccogliere e ripartire le commesse senza che vi fosse stata alcuna integrazione tra le fondatrici.

[97]Sul punto si veda GHEZZI, Le imprese comuni, cit., 434-435.

[98]Art.4 §1 e §2 legge n.287 del 1990.

[99] Si tratta degli articoli 65 e 66 del Trattato C.E.C.A. ed 81 e 82 del Trattato di Roma.

[100]Legge n.52 del 6 febbraio 1996.

[101]La procedura si considera aperta in seguito ad un atto formale della Commissione con il quale essa dichiara di voler pervenire ad una definizione del procedimento. Si veda sul punto la sent. della Corte di Giustizia delle Comunità Europee del 6 febbraio 1973, nel caso Brasserie De Haecht II.

[102]AUTERI, I rapporti tra la normativa antitrust nazionale e quella comunitaria dopo la legge comunitaria del 1994, in Contratto e Impresa/Europa, 1996, 535 ss..

[103]Il formale riconoscimento in capo all’Autorità garante della concorrenza e del mercato del potere di applicare gli articoli 81 e 82 del Trattato genera infatti nell’ipotesi di imprese comuni cooperative “strutturali” un fenomeno paradossale, dovuto a ragioni di natura tecnica, in quanto, in presenza di operazioni di dimensione comunitaria, l’applicazione della normativa europea si pone come necessaria, essendo di grado superiore rispetto alla disciplina nazionale; le disposizioni comunitarie risultano però solo parzialmente applicabile in sede decentrata, difettando al Garante la possibilità di concedere esenzioni ai sensi dell’articolo 81§3 del Trattato. Da ciò deriva che, qualora la situazione prospettata in ipotesi si verifichi, la soluzione che, purtroppo, si pone come necessaria (divieto ex art.81) risulterà in concreto distante sia dall’esperienza nazionale (inapplicabilità del divieto di intese in difetto di consistenti effetti distorsivi) che da quella comunitaria (divieto più esenzione individuale).

Redazione

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