L’autorizzazione “in variante” per impianti di smaltimento e di recupero di rifiuti ex art. 208 Codice dell’Ambiente e i relativi rapporti con la competenza comunale in materia di pianificazione urbanistica

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SOMMARIO 1. Dall’art. 27 D. Lgs. 5 febbraio 1997, n. 22 all’art. 208 del Codice dell’Ambiente: l’autorizzazione che «costituisce, ove occorra, variante» 2. Il dibattito giurisprudenziale sulla norma e la riserva di competenza di pianificazione urbanistica in capo al Comune 3. Una nuova posizione ermeneutica: l’autorizzazione come variante puntuale 4. Conseguenze del “valore di variante” del provvedimento conclusivo e sorte della localizzazione incompatibile 5. Varianti puntuali e organicità della pianificazione 6. La variante puntuale come deroga alla competenza naturale (e non esclusiva) in materia di pianificazione 7. Dissenso del Comune e onere di motivazione rafforzata del provvedimento autorizzatorio 8. Dal valore alla forza di variante: automatismo degli effetti conformativi sulla pianificazione

L’art. 208 del Codice dell’Ambiente (D.lgs. 3 aprile 2006, n. 152)[1] prevede una procedura unitaria per il rilascio dell’autorizzazione unica agli impianti di smaltimento e recupero rifiuti, da svolgersi nella forma della conferenza di servizi con amministrazione procedente la Regione competente per territorio[2]. Tale formula procedimentale si pone in linea con una più generale tendenza dell’ordinamento a prediligere moduli unitari di sintesi per veicolare in unica sede procedimenti originariamente paralleli, nel segno di una concentrazione dell’attività amministrativa che ne assicuri – almeno auspicabilmente – concentrazione, speditezza ed efficacia.

Nel particolare caso dell’autorizzazione unica in parola, di particolare interesse sono le interrelazioni tra il provvedimento autorizzatorio e la disciplina urbanistica e, più nello specifico, gli effetti che il primo produce sulla seconda. A questo tema è dedicato qualche breve cenno, in estrema sintesi, di seguito, con riferimento alla più recente giurisprudenza in subiecta materia.

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Dall’ art. 27 D. Lgs. 5 febbraio 1997, n. 22 all’art. 208 del Codice dell’Ambiente: l’autorizzazione che «costituisce, ove occorra, variante»

L’art. 208 già richiamato, almeno nella parte che qui rileva, adotta una formulazione in gran parte analoga al previgente art. 27 D. Lgs. 5 febbraio 1997, n. 22[3], che disciplinava la specifica fattispecie in epoca immediatamente antecedente.

Il comma sesto dell’art. 208 prevede infatti che il provvedimento autorizzatorio unico per gli impianti di smaltimento e recupero rifiuti «sostituisce ad ogni effetto visti, pareri, autorizzazioni e concessioni di organi regionali, provinciali e comunali, costituisce, ove occorra, variante allo strumento urbanistico e comporta la dichiarazione di pubblica utilità, urgenza ed indifferibilità dei lavori».

La prima parte dell’inciso normativo riportato disciplina l’assorbimento nell’unico provvedimento regionale di ogni atto d’assenso riservato in via ordinaria alla competenza degli altri enti. In realtà, tale disposizione speciale nulla aggiunge al regime generale della conferenza di servizi per come delineato dalla legge fondamentale del procedimento amministrazione (L. 7 agosto 1990, n. 241). Già in via generale, infatti, la determinazione che conclude una conferenza di servizi «sostituisce a ogni effetto tutti gli atti di assenso, comunque denominati, di competenza delle amministrazioni e dei gestori di beni o servizi pubblici interessati». In effetti, proprio in questo risiede la valenza semplificatrice della conferenza di servizi che concentra in un modulo unitario e organico una molteplicità di procedimenti geneticamente autonomi e paralleli.

La seconda parte del comma sesto riportato supra contiene invece una specificazione che, nel prisma dei dubbi sollevati dalla successiva giurisprudenza, si rivela di assoluto interesse: il provvedimento autorizzatorio «costituisce» variante urbanistica. Proprio nella particolare scelta lessicale del verbo “costituire” risiede il nodo gordiano dell’interpretazione dell’intero passaggio normativo, che ha vivacemente coinvolto le riflessioni pretorie.

Il dibattito giurisprudenziale sulla norma e la riserva di competenza di pianificazione urbanistica in capo al Comune

In una prima fase del dibattito giurisprudenziale, la portata effettiva dell’art. 208 dal punto di vista della conformazione urbanistica era stata in certa misura sterilizzata da una particolare prudenza interpretativa, informata alla tutela rafforzata della competenza comunale in materia di pianificazione.

In questa particolare prospettiva, un certo ramo giurisprudenziale aveva maturato il convincimento che il provvedimento autorizzatorio potesse costituire variante urbanistica unicamente nel caso in cui l’Amministrazione comunale, coinvolta nel procedimento ex art. 208, avesse espresso parere favorevole[4] o, comunque, finisse per consentire alla variante. La necessità di un tale consenso, che certamente non si rinviene nella lettera della norma, era invocata sulla base di riflessioni sistematiche in ordine alla organicità della pianificazione.

La posizione ermeneutica pocanzi ricordata si fondava sul convincimento che la norma in discorso[5] non avesse inteso sottrarre porzioni di competenza al Comune, il quale avrebbe vantato una “riserva” di competenza in ordine alla pianificazione territoriale, da tenersi immune anche dall’invasione degli altri enti.

Non sono mancati pronunciamenti allineati a questo fronte in epoca recente: in un caso relativo all’autorizzazione di un impianto di demolizione, recupero e rottamazione di veicoli a motore e rimorchi fuori uso[6], il T.A.R. Piemonte ha ritenuto sussistere un «equivoco» sui limiti entro cui l’autorizzazione può costituire variante urbanistica.

A parere del giudice amministrativo subalpino, il procedimento autorizzatorio unico «non ha certamente sottratto al Comune la competenza, riservatagli in via esclusiva, ad esprimersi in ordine alle questioni di tipo urbanistico, ma ha inteso semplificare la procedura evitando, in caso di parere positivo del Comune, l’avvio dell’ulteriore procedura di variante urbanistica».

Una tale impostazione teorica non è priva di increspature ed è stata oggi revocata in dubbio.

Una nuova posizione ermeneutica: l’autorizzazione come variante puntuale

Già da tempi meno recenti, una certa linea giurisprudenziale[7] aveva accolto l’idea che il provvedimento autorizzatorio unico potesse invece determinare una variante urbanistica indipendentemente dall’assenso del Comune e, anzi, persino in caso di dissenso espresso.

In tale ordine di idee, il provvedimento autorizzatorio è idoneo a spiegare direttamente effetti sulla pianificazione territoriale, costituendo di per sé una variante puntuale che non abbisogna di alcuna manifestazione di assenso da parte degli organi in via ordinaria competenti per la pianificazione (nello specifico il Comune).

Una tale posizione ben si sposa con la nozione generale di conferenza di servizi come modulo procedimentale di semplificazione, la cui ratio è appunto concentrare in un’unica autorizzazione competenze originariamente – e geneticamente – rimesse ad amministrazioni diverse.

Il Comune, in quest’ottica, conserva pur sempre il diritto di partecipazione procedimentale in seno alla conferenza dei servizi e ivi può esprimere, nelle forme e nei modi tipici di tale modulo organizzativo dell’azione amministrativo, le proprie considerazioni anche di segno negativo in ordine alla localizzazione dell’impianto. Ivi può, dunque, argomentare sulla opportunità (o meno) di variare lo strumento urbanistico. Non ha però alcuna competenza riservata, protetta dalle intrusioni conferenziali.

Conseguenze del “valore di variante” del provvedimento conclusivo e sorte della localizzazione incompatibile

Occorre anzitutto evidenziare una prima conseguenza diretta di queste premesse: l’incompatibilità urbanistica non è da sola sufficiente a cagionare il rigetto della domanda di autorizzazione ex art. 208 Codice dell’Ambiente.

Ciò perché l’eventuale autorizzazione ha la facoltà di modellare la pianificazione urbanistica e di conformarla ortopedicamente per legittimare la collocazione dell’impianto e dunque «ne consegue che la localizzazione dell’impianto può essere autorizzata anche su un’area incompatibile secondo le previsioni dello strumento urbanistico»[8].

Assumendo che la determinazione favorevole, come opina la giurisprudenza più recente, possa essere adottata in conferenza dei servizi a prescindere (ovvero persino nonostante) il parere del Comune, la disciplina urbanistica della porzione di suolo su cui l’impianto è destinato a sorgere finisce per essere rimessa alla competenza pianificatoria – puntuale e in certa misura anomala – della conferenza.

Anzi, avuto riguardo alla morfologia da ultimo disegnata per tale modulo procedimentale dal legislatore anche nella prestigiosa sede della legge fondamentale sul procedimento amministrativo[9], la competenza finisce per essere attratta in larga misura nelle facoltà dall’amministrazione procedente[10], con le (limitate) salvezze procedimentali per le amministrazioni dissenzienti[11].

Varianti puntuali e organicità della pianificazione

Il provvedimento autorizzatorio, in questo ordine di idee, prevale sulla pianificazione generale, anzi, è esso stesso strumento di pianificazione particolare, puntiforme.

Dunque la conferenza di servizi, nella particolare fattispecie qui in indagine, ha la facoltà di approvare una variante puntuale che si impone sulla pianificazione generale. Potrebbe, a tal segno, generarsi nell’interprete la ragionevole perplessità che una tale facoltà contrasti con un generale principio di organicità della pianificazione, la cui unità viene di regola assicurata proprio con la riserva in favore dell’ente comunale, fisiologicamente più vicino al territorio.

Tale principio – che è in radice corretto – può dirsi però solo tendenziale e dunque non dispensato da eccezioni.  Già nella sua orditura naturale, la pianificazione non è riservata in via del tutto esclusiva al Comune, bensì per un verso assume una struttura multilivello integrata, per l’altro vive una interrelazione di apporti pubblici e privati che ne definiscono il contenuto. La giurisprudenza più recente[12], infatti, ha ricordato a tal proposito il rilevante ruolo che provincia e regione svolgono a vari livelli nella formazione degli strumenti di pianificazione territoriale, in disparte la possibilità di varianti puntuali d’altro genere che comunque sono ammesse dall’ordinamento.

La variante puntuale come deroga alla competenza naturale (e non esclusiva) in materia di pianificazione

Per ciò esso non è sufficiente invocare un generico interesse all’organicità della pianificazione per piegare l’interpretazione dell’art. 208 Codice dell’Ambiente al di là del suo netto dato letterale che, evidentemente, integra nel provvedimento autorizzatorio il “valore” qualitativo di variante.

Ciò non equivale, come si teme, a una sottrazione della competenza comunale, ma a una sua rimodulazione nell’involucro procedimentale della conferenza di servizi. Le ragioni di interesse pubblico di cui si fa tutore il Comune e dunque lo stesso interesse all’organicità della pianificazione di dettaglio sono infatti veicolati nelle forme della conferenza dei servizi e, dunque, del parere, superabile dell’Amministrazione procedente.

Il che non viola i principi autonomistici in materia di formazione della pianificazione territoriale, atteso che, come ha ricordato la stessa Corte Costituzionale[13], questi trovano adeguata soddisfazione nella partecipazione e nel “coinvolgimento” procedimentale. Sicché la competenza per così dire naturale del comune in materia di pianificazione non postula un’esclusività assoluta nelle scelte regolatorie, ma può dirsi appagata dalla semplice partecipazione[14] a un procedimento plurilaterale.

Il legislatore ha quindi facoltà, come nel caso di specie, di rimodulare la competenza in materia di pianificazione puntuale, compatibilmente con questi principi.

Dissenso del Comune e onere di motivazione rafforzata del provvedimento autorizzatorio

Se è vero che l’Amministrazione procedente può superare l’eventuale dissenso del comune anche quando motivato da ragioni di pianificazione urbanistica e quindi direttamente interconnesso con il valore di variante del provvedimento autorizzatorio, una tale opzione deve rinvenire solide evidenze giustificatrici nel bilanciamento degli opposti interessi cui è deputata la conferenza di servizi, evidenze da riversarsi nel provvedimento finale.

Ciò si traduce ragionevolmente in un onere motivazione rafforzato, sia in virtù del principio di leale collaborazione tra amministrazioni, sia per omaggio alle regole generali del modulo procedimentale della conferenza dei servizi, in ottemperanza alle quali il superamento dei dissensi deve trovare organica motivazione nel provvedimento finale.

In questi termini si è espresso recentemente il Consiglio di Stato[15] in un caso che, pur concernendo una legge regionale[16], presenta profili di evidente continuità con la specifica fattispecie qui in discorso.

Dal valore alla forza di variante: automatismo degli effetti conformativi sulla pianificazione

Da ultimo occorre interrogarsi su come il provvedimento autorizzatorio incida sugli strumenti di pianificazione generale: se direttamente, conformandoli in automatico oppure se sia comunque richiesto un atto di adeguamento o di recepimento da parte del Comune.

La prima opzione sembrerebbe suffragata dal recentissimo precedente del Tribunale Amministrativo Campano già richiamato[17], secondo cui al rilascio dell’autorizzazione in variante, lo strumento urbanistico «resta automaticamente variato in senso conforme alla destinazione dell’impianto autorizzato, senza necessità di attivare previamente la complessa procedura dello strumento urbanistico prevista dalla normativa di settore (cfr.: T.A.R. Campania, Napoli, sez. V,01/04/2015, n. 1883)». In questa prospettiva, al provvedimento autorizzatorio è attribuita non soltanto la “valenza” sostanziale di variante, ma anche la sua “forza” formale: l’autorizzazione medesima diventa quindi atto di pianificazione in sé e per sé.

Secondo un’altra lettura giurisprudenziale, residuerebbe comunque in capo all’ente comunale un obbligo di recepimento, che traduce nel tessuto della pianificazione generale la variante puntuale[18]. Questo secondo orientamento, alimentato da una certa prudenza operativa delle amministrazioni locali, ha ricevuto una certa adesione nella prassi: la deliberazione consiliare ricognitiva del provvedimento autorizzatorio si è quindi tipizzata come atto amministrativo di pianificazione, “vincolato” nella prassi.

Eppure, anche in questo caso nessuna norma prevede una riserva “di ricognizione” in capo al Comune, che s’impone semmai solo per ragioni di ordinata tenuta della pianificazione generale. Anche l’anomalo atto ricognitivo comunale si rivela dunque più un prodotto della prudenza amministrativa, che non della logica sistematica.

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Note

[1] Con previsioni in parte analoghe al previgente art. 27 D. Lgs. 5 febbraio 1997, n. 22, nei termini che si vedranno appresso.

[2] Salvo, naturalmente, il caso di delega, non infrequente nella prassi.

[3] Anche ivi si legge «L’approvazione sostituisce ad ogni effetto visti, pareri, autorizzazioni e concessioni di organi regionali, provinciali e comunali. L’approvazione stessa costituisce, ove occorra, variante allo strumento urbanistico comunale, e comporta la dichiarazione di pubblica utilità, urgenza ed indifferibilità dei lavori.».

[4] Per T.A.R. Emilia Romagna, sez. stacc. Parma, I, 24 giugno 2015, n. 196 l’assenso del Comune, manifestato anche nella sede procedimentale della conferenza di servizi costituisce un vero e proprio “presupposto” al valore di variante del provvedimento conclusivo.

[5] L’art. 208 del Codice dell’Ambiente ma già prima l’art. 27 D. Lgs. 5 febbraio 1997, n. 22.

[6] Tra tutti T.A.R. Piemonte, I, sent. 13 aprile 2017, n. 480.

[7] T.A.R. Liguria, I, sent. 23 maggio 2012, n. 723.

[8] T.A.R. Campania, V, sent. 14 luglio 2020, n. 3086.

[9] La conferenza di servizi come modulo procedimentale generale è stata da ultimo riformata dall’articolo 1, comma 1, del D.Lgs. 30 giugno 2016, n. 127, che ha sostituito interamente gli articoli 14, 14-bis, 14-ter, 14-quater e 14-quinquies della legge 7 agosto 1990, n. 241.

[10] Nel caso dell’autorizzazione ex art. 208 è la Regione, come chiarisce espressamente la norma.

[11] Nel modello di conferenza di servizi introdotto nel 2016, la decisione conclusiva sull’esito del procedimento è rimessa all’Amministrazione procedente, cui compete mediare e sintetizzare gli interessi in gioco manifestati e promossi da tutte le amministrazioni coinvolte. L’Amministrazione procedente può quindi superare senza particolari formalità il dissenso di una o più amministrazioni. L’unico rimedio di natura procedimentale riconosciuto è riservato unicamente alle Amministrazioni ì preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, dei beni culturali o alla tutela della salute e della pubblica incolumità, le quali possono proporre opposizione ex art. 14 quinquies, comma 1, L. 7 agosto 1990, n. 241. Alle

[12] T.A.R. Veneto, III, sent. 1° giugno 2017, n. 549.

[13] Corte costituzionale, 21 ottobre 1998, n. 357, in contesto comunque diverso.

[14] «Quello che appare essenziale è che il Comune non sia completamente pretermesso dalle scelte pianificatorie direttamente incidenti sul suo territorio», T.A.R. Veneto, III, sent. 1° giugno 2017, n. 549 cit.

[15] Cons. St., IV, sent. 10 agosto 2020, n. 4991.

[16] L.R. Veneto n. 3/2000.

[17] T.A.R. Campania, V, 14 luglio 2020, n. 3086 cit.

[18] Cons. St., V, sent. 25 maggio 2020, n. 3109.

Avv. Gambetta Davide

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