L’automatica ammissione al patrocinio a spese dello Stato della persona offesa secondo quanto previsto dalla normativa vigente non è costituzionalmente illegittima

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Corte cost., 3 dicembre 2020 (ud. 3 dicembre 2020, dep. 11 gennaio 2020), n. 1 (Presidente Coraggio, Redattore Coraggio)

(Dichiarata non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 76, comma 4-ter, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, recante «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia (Testo A)», nella parte in cui determina l’automatica ammissione al patrocinio a spese dello Stato della persona offesa dai reati indicati nella norma medesima, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 24, terzo comma, della Costituzione, dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Tivoli, con l’ordinanza indicata in epigrafe)

(Riferimento normativo: d.P.R., 30/05/2002, n. 115, art. 76, c. 4-ter)

Il fatto e le questioni prospettate nell’ordinanza di rimessione

Con ordinanza il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Tivoli sollevava, in riferimento agli artt. 3 e 24, terzo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 76, comma 4-ter, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, recante «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia (Testo A)», nella parte in cui, come interpretato dalla Corte di cassazione, determina l’automatica ammissione al patrocinio a spese dello Stato della persona offesa dai reati, indicati nella norma medesima, di cui agli artt. 572, 583-bis, 609-bis, 609-quater, 609-octies e 612-bis, nonché, ove commessi in danno di minori, dai reati di cui agli artt. 600, 600-bis, 600-ter, 600-quinquies, 601, 602, 609-quinquies e 609-undecies del codice penale, a prescindere dai limiti di reddito di cui al precedente comma l e senza riservare alcuno spazio di apprezzamento e discrezionalità valutativa al giudice.

Il rimettente premetteva prima di tutto che, nell’ambito di un giudizio per il reato di cui all’art. 609-bis cod. pen., veniva depositata istanza di ammissione al patrocinio a spese dello Stato da parte della persona offesa, senza la corredata dichiarazione – prevista dall’art. 79, comma 1, lettera c), del d.P.R. n. 115 del 2002, a pena di inammissibilità dell’istanza – attestante la sussistenza delle condizioni di reddito stabilite come requisito per l’ammissione stessa e, dal canto suo, il GIP del Tribunale di Tivoli, con ordinanza interlocutoria notificata al difensore, sospendeva l’esame della domanda di ammissione al beneficio invitando ad integrarla con l’indicazione delle condizioni reddituali e patrimoniali dell’istante.

Ciò posto, a sua volta, il difensore depositava una nota in cui osservava che il reato di cui all’art. 609-bis cod. pen. è «tra quelli per i quali il patrocinio a spese dello Stato è sempre concesso alla parte offesa prescindendo dalle condizioni reddituali» e che, di conseguenza, «le richieste del giudice […] non appaiono motivate rispetto al procedimento in quanto nessuna analisi delle condizioni reddituali dell’istante deve compiere il giudice, a differenza dei procedimenti ordinari, in quanto il requisito non è richiesto nella particolare fattispecie della vittima del reato di violenza sessuale».

Tanto premesso in punto di rilevanza – assumendo il giudice rimettente che la procedura instaurata con il deposito dell’istanza di ammissione al patrocinio a spese dello Stato non potesse essere definita indipendentemente dalla risoluzione della prospettata questione di legittimità costituzionale –, in punto di non manifesta infondatezza, veniva affermato che l’art. 76, comma 4-ter, del d.P.R. n. 115 del 2002, per come interpretato dalla Corte di cassazione, contrasta con gli artt. 3 e 24, terzo comma, Cost..

In particolare, la Suprema Corte ha affermato il diritto della persona offesa da uno dei reati indicati nella norma a fruire del patrocinio a spese dello Stato per il solo fatto di rivestire tale qualifica a prescindere dalle proprie condizioni di reddito che, dunque, non devono neanche essere oggetto di dichiarazione o attestazione ai sensi del successivo art. 79, comma 1, lettera c), del d.P.R. n. 115 del 2002 rilevandosi al contempo, da un lato, come tale lettura sarebbe stata imposta dalla ratio della norma «posto che la finalità della norma in questione appare essere quella di assicurare alle vittime di quei reati un accesso alla giustizia favorito dalla gratuità dell’assistenza legale» (Corte di cassazione, sezione quarta penale, sentenza 20 marzo 2017, n. 13497, successivamente recepita anche dalla Corte di cassazione, sezione quarta penale, sentenza 23 novembre 2018, n. 52822), dall’altro, che siffatte ripetute affermazioni del giudice di legittimità, in assenza di decisioni di segno diverso, – a parere del rimettente – rendevano “diritto vivente” la descritta interpretazione dell’art. 76, comma 4-ter, del d.P.R. n. 115 del 2002 ponendo il giudice dinanzi all’alternativa di uniformarvisi o di rendere un provvedimento difforme e di segno negativo verosimilmente destinato all’annullamento o alla riforma.

Ricordava, dunque, il giudice a quo, che, per consolidato orientamento della giurisprudenza costituzionale, invocare l’intervento del giudice delle leggi è possibile anche allorquando il giudice remittente ha l’alternativa di «adeguarsi ad un’interpretazione che non condivide o assumere una pronuncia in contrasto, probabilmente destinata ad essere riformata» (sentenza n. 240 del 2016) atteso che, «[p]ur essendo indubbio che nel vigente sistema non sussiste un obbligo per il giudice di merito di conformarsi agli orientamenti della Corte di cassazione (salvo che nel giudizio di rinvio), è altrettanto vero che ,quando questi orientamenti sono stabilmente consolidati nella giurisprudenza – al punto da acquisire i connotati del “diritto vivente” –, è ben possibile che la norma, come interpretata dalla Corte di legittimità dai giudici di merito, venga sottoposta a scrutinio di costituzionalità poiché la norma vive ormai nell’ordinamento in modo cosi radicato che è difficilmente ipotizzabile una modifica del sistema senza l’intervento del legislatore o di questa Corte» (sentenza n. 350 del 1997).

Detto questo, sempre a parere del giudice rimettente, tale interpretazione – che esclude qualsiasi margine di valutazione giudiziale imponendo l’ammissione automatica al beneficio e qualificando come superflua l’autocertificazione reddituale pur tuttora richiesta dal combinato delle disposizioni vigenti – istituisce un automatismo legislativo poiché, al solo verificarsi del suo presupposto (e cioè assumere l’istante la veste di persona offesa di uno dei reati indicati dalla norma) determina una conseguenza inderogabile, ossia l’ammissione al beneficio.

Da ciò si giungeva alla conclusione secondo cui, a parere del GIP del Tribunale di Tivoli, come per ogni forma di automatismo, vi sarebbero nel caso di specie ricadute negative sul principio di uguaglianza poiché verrebbero assimilate tra di loro situazioni diverse e non equiparabili dal momento che l’ammissione indiscriminata al beneficio de quo di qualsiasi persona offesa non consente alcun margine di valutazione al giudice in ordine alle condizioni reddituali e patrimoniali (al punto da vietargli di richiedere la relativa dichiarazione pur prescritta dall’art. 79, comma 1, lettera c, del d.P.R. n. 115 del 2002) e preclude ogni verifica giudiziale circa il possibile ricorrere, o la sicura assenza, di ostacoli e remore di indole economica che la norma intende rimuovere trasferendo sulla collettività i costi della difesa tecnica.

Oltre a ciò, veniva denotato che, nella giurisprudenza costituzionale, è frequente al riguardo il riferimento al generale obbiettivo di limitare le spese giudiziali ritenendo cruciale, in tema di patrocinio a spese dello Stato, l’individuazione di un punto di equilibrio tra garanzia del diritto di difesa per i non abbienti e necessità di contenimento della spesa pubblica in materia di giustizia.

Inoltre, sempre in tale prospettiva di salvaguardia dell’equilibrio dei conti pubblici e di contenimento della spesa in tema di giustizia, il giudice rimettente evocava anche l’art. 24, terzo comma, Cost. il quale a sua avviso si porrebbe «non solo come primario strumento di garanzia per assicurare ai non abbienti l’effettivo esercizio del diritto alla tutela giurisdizionale, ma anche quale presidio diretto ad evitare che gli oneri che ne conseguono siano aggravati da improprie e ingiustificate estensioni dei benefici a soggetti non ragionevolmente definibili “non abbienti” e pertanto non bisognosi del sostegno economico della collettività».

 

Le argomentazioni sostenute dalle parti

 

Nel giudizio interveniva il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione venisse dichiarata inammissibile o infondata.

In particolare, tale parte riteneva come la questione sarebbe stata inammissibile in quanto il giudice a quo non avrebbe considerato la ratio e l’ambito applicativo della norma censurata, al fine di valutarne la ragionevolezza; inoltre sarebbe richiesto “il sindacato nel merito di una scelta legislativa di promozione di valori costituzionalmente tutelati in mancanza di un’irragionevolezza delle modalità individuate”.

Oltre a ciò, veniva fatto presente che se il primo profilo di inammissibilità riguardava la mancanza di un’analisi sulle ragioni del trattamento differenziato introdotto dalla norma ai fini della valutazione dell’asserita irragionevolezza della previsione, a parere dell’Avvocatura, nell’ordinanza di rimessione non sarebbe stato in alcun modo valutato se la tipologia dei reati (sotto il profilo oggettivo) e delle persone istanti (sotto il profilo soggettivo) per i quali il beneficio è accordato giustifichi un trattamento differenziato.

Il giudice a quo, quindi, pur invocando quale parametro di costituzionalità l’art. 3 Cost., sempre ad avviso dell’Avvocatura, non avrebbe effettuato alcuna valutazione sulla ragionevolezza della previsione censurata, anche nell’interpretazione fatta propria dalla Corte di cassazione, così omettendo altresì di dare un’interpretazione costituzionalmente orientata della norma.

Detto questo, una volta dedotto che il secondo profilo di inammissibilità sarebbe derivato dall’insindacabilità delle scelte discrezionali affidate al legislatore, il quale deve essere libero – salvo il limite dell’irragionevolezza, in questo caso non superato – di tutelare valori costituzionali, quali la libertà personale, la salute e l’obbligatorietà dell’azione penale, attraverso norme incentivanti, idonee a far emergere episodi di criminalità odiosi in danno di vittime fisiologicamente vulnerabili o divenute tali in conseguenza del crimine, secondo l’Avvocatura generale, tale questione sarebbe stato comunque infondata osservandosi a tal proposito, prima di tutto, che la prospettata violazione del principio di uguaglianza non sarebbe stata dal giudice rimettente rinvenuta nella limitazione del beneficio solo alle persone offese dai reati indicati nella norma ma nella mancata considerazione della diversa situazione reddituale sussistente all’interno di tale categoria.

Invece, posto che la regola è che il beneficio competa ai non abbienti, cioè ai soggetti che percepiscano un reddito inferiore al limite posto dal comma 1 del censurato art. 76, occorrerebbe valutare, per tale parte costituita, se sia possibile prevedere che vi accedano anche soggetti – senza difficoltà reddituali – che siano persone offese di determinati reati indicati nella disposizione medesima atteso che l’eccezione introdotta dal legislatore non solo, per l’Avvocatura, non sarebbe stata  irragionevole ma avrebbe una precisa motivazione, valutabile positivamente, e cioè quella di tutela di soggetti vulnerabili, prima o in dipendenza del crimine, che potrebbero, per tale stato, avere delle remore a denunciare e a difendersi nei procedimenti penali nei confronti dei loro aggressori osservandosi altresì che, alla tutela di persone deboli, si aggiungerebbe, in senso più ampio, una finalità di prevenzione di crimini odiosi dato che vengono in rilievo reati abituali o facilmente ripetibili in ragione dell’attitudine di alcuni soggetti a ricreare in futuro situazioni analoghe.

Quanto, poi, al profilo specificamente legato alla sussistenza di un automatismo nel riconoscimento del beneficio, che precluderebbe al giudice di valutare la peculiarità della fattispecie concreta, l’Avvocatura generale escludeva la prospettata violazione dell’art. 3 Cost. e ciò in quanto l’automatismo si regge su una presunzione che può ritenersi immune da censure di irragionevolezza se risponde all’id quod plerumque accidit.

Pertanto, fermo restando che ogni automatismo, proprio perché regola meccanica che attinge la propria ratio alla sussistenza di un fatto presunto sulla base di una massima di esperienza, porta inevitabilmente con sé l’assimilazione di situazioni che nella realtà possono invece non corrispondere, va da sé che deve essere considerato irragionevole solo se smentita a livello empirico, cosa che in questo caso, per l’Avvocatura, non sarebbe avvenuta.

Sempre a parere dell’Avvocatura generale, sarebbe altresì infondata anche la censura relativa all’art. 24, terzo comma, Cost. dato che, se è ben vero che, in tema di patrocinio a spese dello Stato, è cruciale l’individuazione di un punto di equilibrio tra garanzia del diritto di difesa per i non abbienti e necessità di contenimento della spesa pubblica in materia di giustizia, la ricerca di tale punto di equilibrio competerebbe, comunque, al legislatore e rientrerebbe nella sua discrezionalità, nel delicato contemperamento con la tutela delle vittime di reati particolarmente odiosi, efferati e frequenti, e con la tutela dell’effettività della risposta sanzionatoria e di prevenzione di determinati reati.

 

Le valutazioni giuridiche formulate dalla Consulta

 

Il giudice delle leggi esaminava in via preliminare le eccezioni di inammissibilità, formulate dall’Avvocatura generale dello Stato, per carenza, nell’ordinanza di rimessione, di una adeguata considerazione della ratio e dell’ambito applicativo della norma censurata, come sarebbe stato invece necessario per valutare la ragionevolezza della scelta ivi introdotta rispetto alla regola del limite reddituale posta dal comma 1, e per la richiesta di un «sindacato nel merito di una scelta legislativa di promozione di valori costituzionalmente tutelati in mancanza di un’irragionevolezza delle modalità individuate».

Orbene, quanto al primo profilo, per la Consulta, non sussisteva alcun difetto di motivazione posto che il giudice a quo aveva argomentato adeguatamente le proprie censure senza, peraltro, incorrere nel mancato esperimento del tentativo di un’interpretazione costituzionalmente conforme della disposizione censurata posto che il rimettente aveva ricostruito adeguatamente la lettura che ne offre la Corte di Cassazione e ricordava che, per consolidato orientamento della giurisprudenza costituzionale, invocare l’intervento del giudice delle leggi è possibile anche allorquando il giudice a quo abbia unicamente l’alternativa «di adeguarsi ad un’interpretazione che non condivide o assumere una pronuncia in contrasto, probabilmente destinata ad essere riformata» (sentenza n. 240 del 2016) tanto è vero che la stessa Corte costituzionale ha chiarito che, anche in «difetto di un vero e proprio diritto vivente, si deve tenere conto della circostanza che un’eventuale pronuncia di dissenso» da parte del rimettente lo espone ad una assai probabile riforma della propria decisione da parte del giudice di ultimo grado: «[i]n tale ipotesi, quindi, la via della proposizione della questione di legittimità costituzionale costituisce l’unica idonea ad impedire che continui a trovare applicazione una disposizione ritenuta costituzionalmente illegittima» in quanto, «se il giudice non si determinasse a sollevare la questione di legittimità costituzionale, l’alternativa sarebbe dunque solo adeguarsi ad una interpretazione che non si condivide o assumere una pronuncia in contrasto, probabilmente destinata ad essere riformata» (sentenza n. 240 del 2016).

Pertanto, secondo i giudici di legittimità costituzionale, queste considerazioni inducevano a escludere anche un’ipotesi di inammissibilità della questione per la richiesta di un avallo interpretativo.

In sostanza, riprendendo le argomentazioni della già citata sentenza n. 240 del 2016, la soluzione prescelta dal rimettente – cioè di ritenere l’interpretazione data dalla Corte di Cassazione “non altrimenti superabile” (tanto più, allo stato, in assenza di pronunce contrarie) – non pareva, per la Consulta, implausibile e non lasciava spazio in concreto alla sperimentazione di altre opzioni dato che in ogni caso tutte sarebbero venute a confliggere con quella fatta propria dal giudice di ultimo grado.

Ciò posto, quanto al secondo profilo di inammissibilità, secondo la Corte costituzionale, esso sembrava investire la presunta insindacabilità delle scelte discrezionali affidate al legislatore fermo restando però che tale profilo toccava il merito della questione alla cui trattazione si rimandava.

Chiarito ciò, la questione veniva stimata infondata per le seguenti ragioni.

Invero, dal momento che, come da ultimo ribadito dalla stessa Consulta, «”la giurisprudenza costituzionale ha in più occasioni ricondotto l’istituto del patrocinio a spese dello Stato nell’alveo della disciplina processuale (sentenza n. 81 del 2017; ordinanze n. 122 del 2016 e n. 270 del 2012), nella cui conformazione il legislatore gode di ampia discrezionalità, con il solo limite della manifesta irragionevolezza o arbitrarietà delle scelte adottate (ex plurimis, sentenza n. 97 del 2019)”» (sentenza n. 80 del 2020, in linea con la sentenza n. 47 del 2020 e l’ordinanza n. 3 del 2020), si notava nel caso di specie come la scelta effettuata con la disposizione in esame – che andava, appunto, ricondotta nell’alveo della disciplina processuale – rientrasse nella piena discrezionalità del legislatore e non apparisse né irragionevole né lesiva del principio di parità di trattamento considerata la vulnerabilità delle vittime dei reati indicati dalla norma medesima oltre che le esigenze di garantire al massimo il venire alla luce di tali reati.

Nel nostro ordinamento giuridico, specialmente negli ultimi anni, in effetti, osservava il giudice delle leggi, è stato dato grande spazio a provvedimenti e misure tesi a garantire una risposta più efficace verso i reati contro la libertà e l’autodeterminazione sessuale, considerati di crescente allarme sociale, anche alla luce della maggiore sensibilità culturale e giuridica in materia di violenza contro le donne e i minori e da qui la volontà di approntare un sistema più efficace per sostenere le vittime, agevolandone il coinvolgimento nell’emersione e nell’accertamento delle condotte penalmente rilevanti atteso che, nel preambolo del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori), convertito, con modificazioni, nella legge n. 38 del 2009, che ha introdotto la disposizione in esame, si richiama «la straordinaria necessità ed urgenza di introdurre misure per assicurare una maggiore tutela della sicurezza della collettività, a fronte dell’allarmante crescita degli episodi collegati alla violenza sessuale, attraverso un sistema di norme finalizzate al contrasto di tali fenomeni e ad una più concreta tutela delle vittime dei suddetti reati». Non diverse sono le considerazioni sviluppate nel preambolo del decreto-legge 14 agosto 2013, n. 93 (Disposizioni urgenti in materia di sicurezza e per il contrasto della violenza di genere, nonché in tema di protezione civile e di commissariamento delle province), convertito, con modificazioni, nella legge n. 119 del 2013.

È evidente, dunque, per la Consulta, come la ratio della disciplina in esame sia rinvenibile in una precisa scelta di indirizzo politico-criminale che ha l’obiettivo di offrire un concreto sostegno alla persona offesa la cui vulnerabilità è accentuata dalla particolare natura dei reati di cui è vittima e a incoraggiarla a denunciare e a partecipare attivamente al percorso di emersione della verità e dunque cotale valutazione appare essere del tutto ragionevole e frutto di un non arbitrario esercizio della propria discrezionalità da parte del legislatore.

A queste argomentazioni sulla non irragionevolezza della scelta del legislatore di accordare il beneficio del patrocinio a spese dello Stato sganciandolo dal presupposto della non abbienza, si aggiungeva inoltre la considerazione secondo la quale, nel nostro ordinamento, sono presenti altre ipotesi in cui il legislatore ha previsto l’ammissione a tale beneficio a prescindere dalla situazione di non abbienza avendo la Corte costituzionale affermato in proposito che «tale scelta [di porre a carico dell’erario l’onorario e le spese spettanti all’avvocato e all’ausiliario del magistrato] rientra nella piena discrezionalità del legislatore e non appare né irragionevole né lesiva del principio di parità di trattamento, considerata la peculiarità del procedimento di espulsione dello straniero e la necessità di non frapporre alcun ostacolo al perseguimento di questo fine» (ordinanza n. 439 del 2004).

Orbene, alla stregua di tali argomentazioni, si riteneva come valutazioni di analogo tenore potessero, dunque, svolgersi per la disciplina di cui al censurato comma 4-ter.

Ciò posto, quanto poi, specificamente, al profilo di censura calibrato sull’automatismo del patrocinio a spese dello Stato quale presunzione assoluta, se il giudice a quo segnalava che, secondo la giurisprudenza costituzionale, la presunzione legislativa è immune da censure di legittimità costituzionale e resiste al vaglio di ragionevolezza solo quando vi sia «solida rispondenza all’id quod plerumque accidit» (così tra le altre, sia pure relative a ipotesi decisamente distanti da quelle in esame, sentenza n. 191 del 2020); e che «“le presunzioni assolute, specie quando limitano un diritto fondamentale della persona, violano il principio di uguaglianza, se sono arbitrarie e irrazionali, cioè se non rispondono a dati di esperienza generalizzati, riassunti nella formula dell’id quod plerumque accidit” (sentenza n. 268 del 2016; in precedenza, sentenze n. 185 del 2015, n. 232, n. 213 e n. 57 del 2013, n. 291, n. 265, n. 139 del 2010, n. 41 del 1999 e n. 139 del 1982).

In particolare, si metteva in risalto il fatto che se è vero che l’irragionevolezza di una presunzione assoluta si coglie tutte le volte in cui sia possibile formulare ipotesi di accadimenti reali contrari alla generalizzazione posta a base della presunzione stessa.» (sentenza n. 253 del 2019), ad avviso della Corte costituzionale, il rimettente non coglieva però nel segno richiamando questa giurisprudenza posto che, per quanto sin qui esposto, il beneficio non è legato ad una presunzione di non abbienza delle persone offese dai reati indicati dalla norma censurata e ha tutt’altre giustificazioni mentre al contrario la verifica della regola dell’id quod plerumque accidit dovrebbe, piuttosto, concernere la vulnerabilità delle persone offese dai reati presi in considerazione dal censurato comma 4-ter in ordine alla cui sussistenza convergono significativi dati di esperienza e innumerevoli studi vittimologici.

Per quel che concerne, infine, la prospettata violazione dell’art. 24, terzo comma, Cost., per la Consulta, la censura proposta si limitava a evidenziare che il parametro evocato impone di assicurare ai non abbienti i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione ed esso non può, dunque, essere distorto nella sua portata, leggendovi una preclusione per il legislatore di prevedere strumenti per assicurare l’accesso alla giustizia, pur in difetto della situazione di non abbienza, a presidio di altri valori costituzionalmente rilevanti come quelli in esame.

Il giudice delle leggi, di conseguenza, alla stregua delle considerazioni sin qui esposte, dichiarava non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 76, comma 4-ter, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, recante «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia (Testo A)», nella parte in cui determina l’automatica ammissione al patrocinio a spese dello Stato della persona offesa dai reati indicati nella norma medesima, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 24, terzo comma, della Costituzione, dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Tivoli, con l’ordinanza summenzionata.

 

Conclusioni

 

La sentenza in esame, che inaugura le decisioni che verranno emesse dalla Consulta quest’anno, esclude che l’art. 76, c. 4-ter, d.P.R. n. 115/2002 che, come è noto, stabilisce che la “persona offesa dai reati di cui agli articoli 572, 583-bis, 609-bis, 609-quater, 609-octies e 612-bis, nonché, ove commessi in danno di minori, dai reati di cui agli articoli 600, 600-bis, 600-ter, 600-quinquies, 601, 602, 609-quinquies e 609-undecies del codice penale, può essere ammessa al patrocinio anche in deroga ai limiti di reddito previsti dal presente decreto”, sia costituzionalmente illegittimo.

La Corte costituzionale, con argomentazioni ben ponderate e frutto di articolate considerazioni giuridiche, difatti, ha escluso, con la pronuncia qui in commento, che tale norma sia in contrasto con gli articoli 3 e 24, terzo comma, della Costituzione.

Pertanto, anche dopo l’emissione di questa pronuncia, ben potrà la persona offesa richiedere l’ammissione al gratuito patrocinio, anche se non rientra nei limiti di reddito previsti dal d.P.R. n. 115/2002, ove si proceda per uno di questi illeciti penali.

Tale disposizione legislativa, quindi, non essendo stata dichiarata costituzionalmente illegittima, può ancora essere presa in considerazione per potere usufruire di tale patrocinio.

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