L’attività diplomatica dell’Italia nella Grande Guerra

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La verità è che l’Italia esibiva al massimo grado la fragilità del liberalismo”(255, Stone N., La grande Europa 1878-1919, Laterza 1986).

Nel ripetersi all’inizio del secolo di una serie di crisi che sembrarono portare nel 1911 e nel 1913 al pericolo di una deflagrazione europea, Giolitti e San Giuliano strinsero ulteriormente i rapporti con le potenze della Triplice Alleanza, in reazione al persistente contrasto nell’area del Mediterraneo con la Francia, si otteneva inoltre il vantaggio di controllare le mosse dell’Impero Austro-Ungarico nell’area balcanica al fine di impedire il ripetersi dello scacco subito nella crisi bosniaca del 1908.

Il rapporto di alleanza con l’Austria e la Germania era funzionale sul piano internazionale al contenimento nel Mediterraneo all’espansionismo coloniale della Francia (Tunisia) e nei Balcani, conseguentemente nell’Adriatico, il contenimento del nazionalismo slavo (Serbia) appoggiato dalla Russia, sul piano interno, dopo Porta Pia e la caduta del II Impero in Francia a seguito della sconfitta di Sedan, con la conseguente nascita di una repubblica fortemente anticlericale, della soluzione della “questione romana” con il contenimento delle forze clericali e il loro isolamento in Austria, come acutamente osservato da Andràssy, veniva meno l’urgenza.

L’alleanza con Vienna si fondava su interessi più stretti rispetto ai legami con Berlino, in cui tra l’altro il kulturkampf poneva un ulteriore problema nei rapporti in Italia tra Chiesa e Stato, così mentre l’Italia frenava l’irredentismo che avrebbe potuto condurre nei Balcani alla dissoluzione dell’Impero e alla nascita di un forte stato slavo ai confini oltre l’Adriatico, l’Austria-Ungheria non dava spazio alle forze clericali sfruttando la questione romana che rimaneva un fatto puramente interno al nuovo Stato italiano, entrambi poi pur mantenendo buoni rapporti con la Germania non si compromettevano in una lotta contro la Francia o il Vaticano, così che se il Visconti Venosta aveva offerto dopo Porta Pia di portare la questione innanzi alle potenze in una conferenza internazionale, il conte Beust, ministro degli affari esteri austro-ungarico, aveva fatto cadere la questione.

Dopo il 1870 i legami con l’Austria furono particolarmente cordiali e più intensi che con Berlino, anche se nel 1872 il Principe ereditario italiano aveva partecipato alla cerimonia del Battesimo della figlia dei Principi reali tedeschi, questo sebbene vi fossero state delle tensioni a seguito delle pressioni interne degli elementi cattolici sulla Corona imperiale per la questione romana e per l’azione in Francia di Garibaldi nella recente guerra franco-prussiana, tuttavia a seguito delle possibili ripercussioni politiche derivanti dal dogma dell’infallibilità e dalla necessità di evitare ulteriori tensioni internazionali, si decise per il non intervento  (Discorso della Corona al Reichstag del 21 marzo 1871).

La Triplice Alleanza si fondava sul reciproco impegno implicito di Vienna e di Roma di non sollevare la questione romana in cambio della rinuncia all’irredentismo, nessuna dichiarazione esplicita al fine di evitare tensioni interne, il desiderio iniziale del Bismark, di mediare tra il Vaticano e il governo italiano, per non fare apparire ai cattolici tedeschi la futura alleanza con Roma un riconoscimento della situazione di fatto, fu bloccato da Vienna che manifestò a Berlino la volontà dell’Impero di non essere coinvolto nella questione romana, essendovi il rischio di creare solo un vespaio senza che l’Italia potesse offrire qualcosa di valido al Vaticano, favorendo al contempo nell’Impero le forze centrifughe sempre presenti come ebbe a notare il Kàlnoky.

Il problema dell’accordo con la Russia fu fatto cadere da Bismark a seguito delle posizioni sempre più panslaviste di Pietroburgo, fu così sanzionato nel Trattato il precedente accordo già implicitamente in atto del periodo Andràssy, l’accordo fu sanzionato con la visita a Roma del Principe ereditario tedesco nel 1883, d’altronde la pura neutralità proposta dal Bismark non era funzionale secondo il Mancini ad un paese privo ancora del rispetto derivante dalla gloria militare.

La progressiva democratizzazione della politica operata dal Giolitti, che si appoggiava ai voti cattolici, fece temere la fine dello Stato liberale come acutamente osservato dal Missiroli, d’altronde il clericalismo in Francia al volgere del secolo non sembrava costituire più un problema, vi erano inoltre le pressioni dei socialisti che sembravano mettere ulteriormente in discussione il vecchio Stato uscito dal Risorgimento, sembrò alle forze moderate eredi della Destra storica guidate da Salandra e Albertini quale unica via di uscita la partecipazione alla guerra, al fine di creare al contempo patriottismo e ordine, non restava che decidere a fianco di chi scendere in campo.

Se nell’autunno 1914 si vennero a costituire molti gruppi interventisti fu “un’associazione quanto mai riservata e segreta, comprendente Salandra, Sonnino, il re e uno o due fidati colleghi” la più efficiente (Whittam, Storia dell’esercito italiano, 284, Rizzoli 1979), la loro segretezza risiedeva non solo nel timore di rappresaglie tedesche ed austriache, ma anche dalla certezza della contrarietà degli italiani tanto cattolici, che socialisti e giolittiani all’entrata in guerra, la segretezza e l’incomprensione anche con l’esercito era tale che neanche Cadorna e lo Stato Maggiore erano al corrente degli sviluppi nell’autunno 1914, tanto che si parlava di una guerra limitata (piccola guerra) che non esaurissero le risorse del Paese già compromesse dall’impresa di Libia e non disarticolassero gli equilibri sociali (Salandra).

Vi fu a partire dalla fine del 1914 e i primi mesi del 1915 una doppia trattativa con Vienna e con l’Intesa, la classe dirigente  italiana fu travolta da una ubriacatura retorica per gli interventisti ed una contrapposta pavidità dei neutralisti conservatori, nel silenzio del Salandra e del Giolitti, si giunse al Patto di Londra firmato il 26 marzo del 1915, esso era incentrato principalmente sulla questione adriatica con l’attribuzione all’Italia della provincia dalmata con le sue isole  (art.5), della città di Valona con l’isola Saseno (art. 6), il confine con l’Austria stabilito al Brennero e nell’oriente fino al Golfo di Fiume escluso (art. 4), il raggiungimento dei confini previsti agli artt. 4-5 e 6 conduceva automaticamente allo smembramento del residuo stato albanese a favore della Grecia, della Serbia e del Montenegro, salvo uno Stato simbolico neutralizzato con protettorato italiano, nell’assicurare ipotetici guadagni in Asia minore a spese dell’Impero ottomano (art. 9) impegnava le parti a non considerare la Santa Sede parte della futura conferenza della pace (art.15).

Uno dei primi problemi che si sarebbero presentati era il mancato accordo con la Serbia che vedeva con sospetto la spinta verso la Dalmazia e le sue isole dell’Italia, circostanza che sembrava ridurle le prospettive sull’Adriatico, tutto il patto si fondava sulle rivendicazioni nazionali ma queste, se apparivano accettabili riguardo all’impostazione per Parigi e Londra, non lo erano altrettanto per la Russia che appoggiava la Serbia quale punta avanzata del panslavismo, inoltre si dava per scontato che non vi sarebbero stati mutamenti strategici e politici durante la guerra, la diplomazia italiana restava attaccata all’impianto originario del Patto di Londra e pertanto risultava impreparata per le modifiche che le dinamiche della guerra avrebbero imposto.

La politica adriatica che Sonnino intendeva era di sostituirne nel predominio dell’area l’Austria, senza tuttavia integrarla con una adeguata politica danubiano-balcanica, l’effetto immediato della diffidenza di Belgrado fu il mancato coordinamento sul piano militare con la conseguente perdita di efficacia dell’azione militare italiana, né la diplomazia italiana si impegnò verso la Romania e la Bulgaria, inoltre vi fu una ambiguità nel dare attuazione all’art. 2 del Trattato che imponeva di perseguire la guerra in comune con la Francia, Gran Bretagna e Russia contro tutti i loro nemici, infatti venne conclusa il 21/5/1915 con la Germania una convenzione per la tutela dei reciproci interessi in questo periodo di  emergenza  e la dichiarazione di guerra dell’Impero ottomano avvenne solo il 21/8/1915, mentre la dichiarazione del 5/9/1914 con cui gli alleati anglo-franco-russi si impegnavano a non accedere a paci o armistizi separati, fu data dal governo italiano solo nel dicembre 1915 dopo laboriosi e riottosi negoziati.

Solo dopo una serie di amari e sospettosi scambi diplomatici Salandra si rese conto della necessità di dichiarare guerra alla Germania (25/8/1916), al fine di partecipare alla sistemazione post-bellica dell’oriente ottomano, ma in realtà si viene a temere più il futuro accrescersi del potere della Francia che della Germania (San Giuliano), vi era tra gli alleati e l’Italia una diffidenza reciproca che si manifestava nel ritardo informativo sulle decisioni relative al Mediterraneo orientale da parte degli alleati, la diplomazia italiana si arroccava sulle clausole del Patto di Londra che prevedeva la sopravvivenza dell’Impero ottomano, nonostante che Sonnino già dall’ottobre 1916 si rendesse conto della volontà anglo-franco-russa di smembrare i territori dell’impero, il tentativo di inserirsi nei giochi attraverso un accordo diretto con la Russia ebbe un breve successo, in quanto l’accordo del dicembre 1916 fu travolto con la rivoluzione del marzo 1917 che fece cessare la Russia zarista.

L’accordo di Saint Jean de Maurienne  del 19/4/1917 tra Italia, Inghilterra e Francia sul Mediterraneo orientale per cui l’Italia otteneva Smirne e una sfera di influenza nel suo retroterra, risultarono precari sia per la stessa ritrosia anglo-francese che per il precipitare degli eventi in Russia essendo collegati ad un futuro placet di Pietroburgo, la disfatta di Caporetto, l’uscita della Russia dalla guerra e il crescente peso dell’intervento americano lo resero del tutto superato, la necessità di un supporto alleato al fronte e di un coordinamento con gli altri fronti, l’influenza americana attraverso la sua produzione bellica ed il massiccio arrivo di uomini e mezzi, modificò le direttive politico-militari del conflitto .

Analogo scacco la diplomazia italiana lo aveva subito in estremo oriente nel 1899, quando il governo Pelloux  aveva reclamato la base navale di San Mun a seguito della spartizione in atto tra russi, inglesi e tedeschi della Cina, i cinesi nonostante l’arrivo di tre navi da guerra italiane al largo della costa si rifiutarono di fare concessioni e gli inglesi a loro volta rifiutarono l’autorizzazione all’uso della forza, il risultato fu “un imbarazzante fiasco diplomatico” (212, J. Whittam, Storia dell’esercito italiano, Rizzoli 1979).

La vittoria sembrò aprire notevoli prospettive all’Italia e permetterle di ottenere quanto richiesto, tuttavia l’eliminazione dalla scena mondiale delle potenze centrali, con la disgregazione degli imperi austroungarico e ottomano, gli sconvolgimenti della Russia e il potere crescente americano, aveva spostato l’asse diplomatico sull’Atlantico con un rapporto Inghilterra, Francia, U.S.A. riducendo le possibilità di manovra per la nostra diplomazia, d’altronde i 14 punti di Wilson fanno sì che siano superati i presupposti del Patto di Londra, riducendo ad una marginalità progressiva l’Italia, come ben si evidenzia con la II Guerra Mondiale.

Gli stretti rapporti tra U.S.A. e fronte francese rende evidente la nostra marginalità e la dissoluzione dell’Impero asburgico coglie la nostra diplomazia del tutto impreparata, con evidenti somiglianze circa l’attuale situazione tanto verso l’U.E. che verso il fronte sud del Mediterraneo, dove appare evidente tanto l’insufficienza dell’Italia nell’essere leader dell’area Mediterranea quanto l’attivismo francese nel volere modificare e presiedere le dinamiche nella sponda africana del bacino mediterraneo, un ulteriore elemento ben evidente è l’opportunità se non la necessità di un contrappeso all’Europa renana che non potendo risiedere, come più volte dimostrato dai recenti fatti politici e finanziari, nell’area mediterranea non resta che riproporla nell’area storica danubiana quale erede dell’Impero asburgico e cerniera tra Est ed Ovest, Nord e Sud, in cui Vienna riacquista una funzione diplomatica di coordinamento.

Si può pertanto concludere con le parole di Melograni: “Nazionalisti, cattolici, socialisti, malandrini, giolittiani scelsero le loro linee di condotta in base alla logica della società politica.

Ma nelle città come nelle campagne larghe masse scarsamente politicizzate rimasero sostanzialmente estranee al dibattito sull’intervento e mantennero un atteggiamento indifferente – talvolta intimamente ostile – verso la guerra ormai in atto. […]

Si poté inoltre constatare che in molte località, soprattutto del Mezzogiorno, le agitazioni in favore dell’intervento, più che esprimere una consapevole e ben determinata volontà di prendere parte al conflitto europeo, aveva voluto rappresentare l’affermazione di una tendenza di politica interna contro un’altra tendenza di politica interna: avevano avuto il preminente scopo di impedire la caduta del governo Salandra non perché esso fosse il governo della guerra, ma perché esso si opponeva al sistema giolittiano ed era guidato da un uomo politico meridionale” (3-5, P. Melograno, Storia Politica della Grande Guerra 1915/1918 – Ed.  Laterza, 1972).

Le conseguenze più dirette della guerra “si abbatterono sulla piccola e media borghesia, che aveva visto assottigliarsi molte sue fonti di reddito in seguito all’inflazione monetaria.

I grandi industriali, i grandi commercianti e finanzieri si erano arricchiti con la guerra; il proletariato era riuscito a strappare salari più alti ed a tutelare i suoi interessi attraverso l’organizzazione sindacale. Viceversa, “una feroce ironia della storia” aveva fatto sì che proprio le classi medie fossero rovinate da quella guerra che in esse aveva trovato i più entusiastici sostenitori” (557, P. Melograni, Storia politica della Grande Guerra 1915/1918, Ed. Laterza, 1972).

 

( A ricordo del primo centenario della disfatta di Caporetto, delle centinaia di migliaia di profughi e di mia madre che tra essi nacque il 21/3/1918).

 

 

 

Dott. Sabetta Sergio Benedetto

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