L’accertamento tecnico preventivo obbligatorio nelle controversie per responsabilità sanitaria: note sparse

Redazione 18/02/20
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di Mattia Polizzi*

* Dottorando di ricerca presso l’Università degli Studi dell’Insubria

Sommario

1. Introduzione. Ratio dell’istituto

2. L’esperimento dell’atp come condizione di procedibilità della domanda

3. La partecipazione (personale) al procedimento

4. I possibili esiti del procedimento

5. Il mancato (tempestivo) deposito del ricorso ex art. 702-bis, c.p.c.

1. Introduzione. Ratio dell’istituto

La l. 8 marzo 2017, n. 24 (c.d. Legge Gelli-Bianco, recante «disposizioni in materia di sicurezza delle cure e della persona assistita, nonché in materia di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie») appare principalmente incentrata su di una precisa (ri)qualificazione della responsabilità (penale e) civile della struttura medica e del professionista sanitario[1]. Tale operazione è idonea a spiegare effetti (indiretti) anche sul percorso processuale (si pensi alle diverse declinazioni del principio dell’onere della prova a seconda che si tratti di responsabilità contrattuale o aquiliana). La novella ha tuttavia apportato anche alcune novità che operano direttamente sul piano processuale, come il favor per il rito sommario di cognizione: la riforma del 2017 assoggetta le controversie sulla responsabilità sanitaria al rito di cui agli art. 702- bis e ss., c.p.c., previo l’esperimento obbligatorio, per ciò che più da vicino interessa, di un accertamento tecnico preventivo con finalità conciliative[2].

Viene in particolare in rilievo, al riguardo, il disposto dell’art. 8 l. 24/2017, ispirato ad esigenze deflattive del contenzioso derivante dalla malpractice medica nonché a finalità conciliative tese (anche) ad una limitazione del contenzioso ed al contenimento delle misure di c.d. medicina difensiva. Il presente contributo si propone lo scopo di offrire alcune osservazioni in merito a questo strumento processuale.

[1] Sul tema cfr., senza pretesa di esaustività, Carbone, Legge Gelli: inquadramento normativo e profili generali, in Corr. giur., 2017, VI, pagg. 737 e ss.; Faccioli, La nuova disciplina della responsabilità sanitaria di cui alla legge n. 24 del 2017 (c.d. “Legge Gelli-Bianco”): profili civilistici (Prima parte), in Studium iuris, 2017, VI, pagg. 659 e ss.; Id. La nuova disciplina della responsabilità sanitaria di cui alla legge n. 24 del 2017 (c.d. “Legge Gelli-Bianco”): profili civilistici (Seconda parte), in Studium iuris, 207, VII-VIII, pagg. 781 e ss.; Olivieri, Prime impressioni sui profili processuali della responsabilità sanitaria (legge 8 marzo 2017, n. 24), in Judicium, 20 aprile 2017, pagg. 1 e ss.; Pardolesi, Chi (vince e chi) perde nella riforma della responsabilità sanitaria, in Danno e resp., 2017, III, pagg. 261 e ss.; Trisorio Liuzzi, La riforma della responsabilità professionale sanitaria. I profili processuali, in Giusto proc. civ., 2017, III, pagg. 649 e ss.; Valentini, Il nuovo assetto della responsabilità sanitaria dopo la riforma Gelli-Bianco, in Riv. it. med. leg., 2017, IV, pagg. 1395 e ss.

[2] Si v., oltre ai contributi di cui supra, Consolo, Bertollini, Buonafede, Il “tentativo obbligatorio di conciliazione” nelle forme di cui all’art. 696 bis c.p.c. e il successivo favor per il rito semplificato, in Corr. giur., 2017, VI, pagg. 762 e ss.; Cuommo Ulloa, Risoluzione alternativa delle controversie in materia di responsabilità sanitaria: le novità della legge Gelli – I parte, in Resp. civ. prev., 2018, I, pagg. 297 e ss.; Id., Risoluzione alternativa delle controversie in materia di responsabilità sanitaria: le novità della legge Gelli – II parte, in Resp. civ. prev., 2018, II, pagg. 654 e ss.; Melucco, La legge Gelli/Bianco, il processo (l’ATP) e la mediazione, in Giustiziacivile.com, 29 settembre 2017, pagg. 1 e ss.; Pagni, La riforma della responsabilità medica. I profili processuali, in Questione giustizia, 2018, I, pagg. 174 e ss.; Tedoldi, Profili processuali della riforma sulla responsabilità sanitaria, in Giusto proc. civ., 2018, III, pagg. 701 e ss.

2. L’esperimento dell’atp come condizione di procedibilità della domanda

Il primo comma della norma dispone che «chi intende esercitare un’azione innanzi al giudice civile relativa a una controversia di risarcimento del danno derivante da responsabilità sanitaria è tenuto preliminarmente a proporre ricorso ai sensi dell’articolo 696-bis del codice di procedura civile dinanzi al giudice competente».

Il capoverso della disposizione in esame afferma poi che la presentazione del ricorso exart. 696-bis c.p.c. costituisce condizione di procedibilità della domanda di risarcimento. Tuttavia, la medesima norma dispone che è fatta salva la possibilità di esperire, in alternativa al procedimento di atp ai fini conciliatori, quello di mediazione di cui all’art. 5, comma 1-bis, d.lgs. 4 marzo 2010, n. 28: la presentazione della domanda di mediazione comporta l’assolvimento della condizione di procedibilità, sicché i due istituti appaiono rimessi alla discrezionale scelta del (futuro) attore. Non trova invece applicazione, per espressa esclusione, il procedimento di negoziazione assistita di cui all’art. 3, d.l. 12 settembre 2014, n. 132, conv. con modificazioni dalla l. 10 novembre 2014, n. 162.

L’improcedibilità deve essere eccepita, analogamente a quanto previsto in tema di atpo exart. 445- bis, c.p.c., ad opera del convenuto non oltre la prima udienza ovvero da parte del giudice nel rispetto del medesimo termine decadenziale. Il mancato esperimento del procedimento di cui all’art. 696- bis, c.p.c. (ovvero la sua mancata conclusione) comporta – anche in questo caso in maniera conforme alla disciplina dettata in tema di atpo previdenziale-assistenziale – che il giudice debba provvedere ad assegnare alle parti un termine di quindici giorni per la presentazione «dinanzi a sé dell’istanza di consulenza tecnica in via preventiva ovvero di completamento del procedimento». Come osservato in letteratura, è possibile affermare che, sulla base del tenore letterale della norma di riferimento, la facoltà di scelta tra l’atp conciliativo e la mediazione è concessa al preteso danneggiato solo nel caso di introduzione della conciliazione ante causam; diversamente, il giudice che si avveda del mancato esperimento della conciliazione concederà il termine perentorio di quindici giorni per la presentazione della sola istanza di atp exart. 696- bis c.p.c.[3].

[3] Cfr. Cuommo Ulloa, Risoluzione alternativa delle controversie in materia di responsabilità sanitaria: le novità della legge Gelli – I parte, cit., pagg. 309 e ss.; Melucco, op. cit., pagg. 17-18; Pagni, op. cit, pagg. 176 e ss.

3. La partecipazione (personale) al procedimento

Al tentativo di conciliazione (che seguirà le regole delineate dall’art. 15 l. 24/2017) dovranno partecipare tutte le parti che parteciperanno al giudizio di merito, ai sensi dell’art. 8, 4° comma, l. 24/2017; e la partecipazione dovrà, secondo autorevole dottrina, essere personale.

La disposizione da ultimo citata precisa che al procedimento per atp conciliativo devono partecipare anche «le imprese di assicurazione di cui all’articolo 10», le quali hanno l’obbligo di formulare l’offerta di risarcimento del danno ovvero di comunicare i motivi per cui ritengono di non formularla. Non solo. Nel caso in cui l’assicurazione non abbia formulato l’offerta e la sentenza resa nel successivo sia favorevole al danneggiato, il giudice è tenuto a trasmettere copia della pronuncia all’Istituto per la vigilanza sulle assicurazioni (Ivass) per gli adempimenti di vigilanza di propria competenza.

Inoltre, al fine tutelare e rendere effettivo l’obbligo di partecipazione al procedimento di conciliazione l’art. 8, 4° comma, l. 24/2017, dispone che in caso di mancata partecipazione, il giudice, con il provvedimento che definisce il giudizio, condanna le parti che non hanno partecipato al pagamento delle spese di consulenza e di lite oltre che ad una pena pecuniaria, determinata equitativamente, in favore della parte che è comparsa alla conciliazione. E ciò indipendentemente dall’esito del giudizio.

Peraltro, è stato osservato come l’assenza di riferimenti alle cause che abbiano determinato la mancata partecipazione al tentativo di conciliazione presta il fianco a dubbi in merito alla legittimità costituzionale della disposizione in esame[4]: sicché meglio sarebbe stato ammettere che gravi motivi potessero giustificare la mancata presenza al tentativo anzidetto. Dubbi acuiti dalla previsione della condanna, in caso di assenza, al pagamento delle spese processuali, senza riferimento alcuno al criterio della soccombenza, con conseguente incertezza in merito alla legittimità della previsione con riferimento all’art. 3 Cost. ed al principio di ragionevolezza; e ciò anche alla luce della disciplina sulla mediazione di cui al d.lgs. 28/2010 che, all’art. 8, comma 4- bis, consente al giudice del successivo giudizio di merito (solo) di desumere argomenti di prova ai sensi dell’art. 116 c.p.c. e di condannare la parte (costituita) che non abbia partecipato alla mediazione al pagamento in favore del bilancio dello Stato di una somma di importo corrispondente al contributo unificato dovuto per il giudizio. Il dubbio di illegittimità costituzionale si pone poi anche con riferimento al diritto di azione di cui all’art. 24 Cost. ed al principio (che ne costituisce corollario[5]) del victus victori, che risulta suscettibile di compressione solo a fronte di esigenze di pari rango: la dottrina sottolinea come sarebbe più opportuno che le spese fossero addossate alla parte che non abbia partecipato (senza giustificato motivo) al tentativo di conciliazione solo qualora la domanda giudiziale venisse accolta in misura non superiore a quanto risultante alla proposta conciliativa; e ciò, ancora una volta, per raggiungere una certa “simmetria” con la disciplina dettata in materia di mediazione[6].

[4] Così, ad esempio, Consolo, Bertollini, Buonafede, op. cit., pag. 767-768; Melucco, op. cit., pagg. 5-6

[5] Cfr. Corte cost., 31 dicembre 1986, n. 303.

[6] Cfr. art. 13 d.lgs. 28/2010.

4. I possibili esiti del procedimento

La Legge Gelli-Bianco nulla dispone per il caso in cui l’atp exart. 696- bis c.p.c. dia esito positivo. Il silenzio normativo, tuttavia, non appare foriero di particolari criticità, in quanto sembra dover trovare piana applicazione la disposizione da ultimo citata: sicché, in seguito all’omologazione da parte del giudice, il verbale di conciliazione (esente da imposta di registro), acquisirà l’efficacia esecutiva ivi prevista e sarà titolo per l’iscrizione di ipoteca giudiziale.

Dell’ipotesi inversa, ossia della mancata conciliazione, si occupa il comma 3 dell’art. 8 l. 24/2017. In tale evenienza la domanda «diviene procedibile» ed i suoi effetti restano salvi purché entro novanta giorni dal deposito della relazione peritale venga depositato presso il giudice «che ha trattato il procedimento di cui al comma 1» il ricorso di cui all’art. 702- bis, c.p.c.: il processo di merito seguirà le forme del rito sommario di cognizione e l’elaborato peritale – fallita la conciliazione – troverà ingresso nel giudizio anzidetto.

Il ricorso introduttivo deve naturalmente contenere la domanda che si intende proporre: in sede di giudizio sommario di cognizione la medesima non potrà essere ampliata o modificata né potranno ad essa aggiungersi domande nuove[7].

Il comma 3 trova applicazione anche per il caso in cui sia scaduto il termine perentorio di sei mesi dal deposito del ricorso senza che si sia addivenuti ad una conclusione delle operazioni peritali. Una attenta ed autorevole dottrina ha peraltro stigmatizzato tale equiparazione. Ciò in quanto, qualora sia decorso inutilmente il termine anzidetto, l’attore dovrà comunque introdurre il giudizio di merito nelle forme di cui agli art. 702- bis ss., c.p.c.: tuttavia, considerato che in questo caso manca un elaborato peritale (versandosi nell’ipotesi non di una mancata conciliazione, ma di un’assenza in toto di attività) sarà piuttosto difficile (se non improbabile) operare una istruttoria semplificata e deformalizzata, con conseguente onere per il giudice di provvedere al mutamento del rito (da sommario ad ordinario) ai sensi dell’art. 703- ter, 2° comma, c.p.c. Una ulteriore criticità sul punto è rappresentata dal fatto che ancorare il decorso del termine di novanta giorni per l’introduzione del giudizio (e la conseguente salvezza degli effetti) alla scadenza di quello di sei mesi dalla proposizione del ricorso exart. 696- bis c.p.c. implica che l’atp non potrà proseguire il proprio corso, anche qualora le parti vi abbiano interesse: queste ultime, infatti, si vedranno costrette ad introdurre il giudizio a pena di perdita degli effetti della domanda. La criticità in parola, a detta della migliore dottrina, potrebbe trovare un lenimento mediante l’adozione di alcuni accorgimenti pratici: ad esempio, il giudice potrebbe fissare la prima udienza del processo di merito in modo da consentire un certo lasso di tempo per la conclusione della consulenza; oppure, le parti potrebbero, una volta iniziato il giudizio, richiedere congiuntamente la sospensione del processo ai sensi dell’art. 296 c.p.c. Peraltro, è stato messo in luce in letteratura come il termine perentorio di sei mesi risulti praticamente impossibile da rispettare, in ragione delle tempistiche in concreto necessarie per completare le (o la maggior parte delle) operazioni di conciliazione, anche in considerazione della necessaria partecipazione al procedimento di una platea di soggetti (che può, nel caso concreto, risultare) piuttosto ampia.

[7] Così come intese, nella più recente elaborazione pretoria, da Cass. Civ., Sez. Un., 15 giugno 2015, n. 12310

5. Il mancato (tempestivo) deposito del ricorso ex art. 702-bis, c.p.c.

L’art. 8 l. n. 24/2017, invero oggetto di diverse critiche da parte della dottrina per la propria lacunosità e per una formulazione non proprio cristallina, non prevede nulla per il caso in cui il ricorso exart. 702- bis c.p.c. non venga (tempestivamente) proposto: in letteratura si è allora affermato che il processo (già pendente) andrà incontro ad estinzione per inattività delle parti, ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 307, 3° comma, del codice di rito.

In conclusione, anche alla luce di una sintetica panoramica come quella or ora mossa, non si può che concordare con chi, autorevolmente, aveva modo di affermare – a poca distanza dall’introduzione dello strumento in esame, che «vi sono delle idee buone, ma attuate sul piano del costrutto normativo con troppe smagliature e con alcune forzature decisamente squilibrate»[8].

[8] Consolo, Bertollini, Buonafede, op. cit., 768.

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