Laboratori di analisi. detenzione di dispositivi medico-diagnostici in vitro (i.v.d.) scaduti di validità. Vuoto normativo e strumenti giuridici alternativi di repressione

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E’ noto che in tema di specialità medicinali l’art.443 c.p. (commercio o somministrazione di medicinali guasti) contempla un’ipotesi criminosa di delitto di "mero pericolo" e di "pericolo remoto e presunto" e non si esige che la pericolosità del medicinale sia dimostrata in concreto, essendo il pericolo per la salute pubblica presunto in via assoluta dalla legge (così Cass.Pen. Sez. I, sent. n. 6862 del 03-07-1986).
Si è, cioè, di fronte ad una presunzione iuris et de iure di pericolosità, in virtù della quale deve ritenersi "imperfetto" il medicinale che viene posto in commercio alterato nella data di scadenza del periodo di validità, cioè in uno dei dati già assoggettati a registrazione, ovvero con data di scadenza superata.
Infatti le modificazioni che intervengono nel farmaco successivamente alla sua produzione esigono che se ne individui (e ciò avviene su base sperimentale) un limite di validità nell’impiego terapeutico. L’inefficacia o, comunque, la diminuita efficacia terapeutica che consegue alla minore concentrazione del principio farmacologicamente attivo contenuto nel medicamento scaduto di validità, lo rende – per ciò solo – imperfetto.
Questo spiega come, per la configurabilità del reato ex art.443 c.p., la sussistenza del pericolo per la salute pubblica non deve essere provata in concreto, perché il pericolo non è un requisito del fatto, ma è invece la ratio dell’incriminazione penale (cfr. Cass.Pen. Sez. III, sent. n. 11749 del 23-10-1986).
Questa prima riflessione consente di affermare che gli organi di controllo, qualora dovessero accertare in ospedali, farmacie e strutture similari la presenza di specialità medicinali con la data di scadenza superata, devono procedere al sequestro penale delle confezioni (in base agli istituti processuali di cui all’art.321 c.p.p. o all’art.354 c.p.p.) sussistendo a carico del detentore una precisa responsabilità di carattere penale.
Questa speditezza di accertamento, tuttavia, risulta impraticabile qualora il superamento della data di scadenza attenga i dispositivi medico-diagnostici in vitro (più comunemente noti come reagenti o reattivi chimici) impiegati nei laboratori di analisi.
L’importanza di questi prodotti, in vista di una strategia terapeutica del medico, è fuori discussione.
Allo stato, però, nell’ordinamento giuridico italiano non si rinviene alcuna norma che ne sanzioni la detenzione con la data di scadenza superata.
Eppure la Direttiva Europea sui dispositivi medico-diagnostici in vitro (IVDD 98/79/EC), divenuta operativa negli Stati membri dal dicembre 1998 e recepita in Italia nel settembre 2000, ha introdotto a livello europeo requisiti di norma comuni, per uniformare grado di sicurezza, qualità e prestazioni degli IVD.
Può essere opportuno ricordare che in tutti i Paesi comunitari viene abitualmente usato l’acronimo inglese IVD – In Vitro Diagnostics, tradotto in Italia con il termine "Diagnostica in vitro".
In base al Decreto legislativo 8 settembre 2000 n. 332, che recepisce i concetti fondamentali alla base della Direttiva stessa, deve ritenersi un dispositivo medico-diagnostico in vitro:
­         un reagente
­         un prodotto reattivo
­         un calibratore
­         un materiale di controllo
­         un kit
­         uno strumento
­         un apparecchio
­         un’attrezzatura o sistema destinato dal fabbricante ad essere impiegato in vitro per l’esame di campioni provenienti dal corpo umano, inclusi sangue e tessuti donati, unicamente o principalmente allo scopo di fornire:
a)     informazioni su uno stato fisiologico o patologico
b)     informazioni su una anomalia congenita
c)     informazioni che consentono la determinazione della sicurezza e della compatibilità con potenziali soggetti riceventi
d)     informazioni che consentono il controllo delle misure terapeutiche.
Sono parimenti considerati dispositivi medico-diagnostici in vitro:
§         I contenitori di campioni, destinati dal fabbricante a ricevere direttamente il campione proveniente dal corpo umano e a conservarlo ai fini di un esame diagnostico in vitro.
§         Gli accessori, purchè destinati in modo specifico dal fabbricante ad essere utilizzati con un dispositivo per consentirne l’utilizzazione conformemente alla sua destinazione.
§         I dispositivi per test auto-diagnostici, cioè quelli destinati dal fabbricante ad essere utilizzati a casa da persone profane.
Tutto ciò ha comportato una profonda innovazione rispetto alla normativa che in precedenza vigeva in Italia: si è passati, infatti, da un sistema autorizzativo-registrativo, che prevedeva una regolamentazione solo per i KIT per la diagnosi dell’ epatite e dell’ HIV, ad un sistema di certificazione e garanzia di qualità basato su specifiche procedure.
Tali procedure, legate alla diversa complessità e delicatezza dei prodotti, vedono coinvolti appositi organismi designati dall’autorità competente, che intervengono nella verifica della rispondenza dei diagnostici in vitro ai requisiti tecnici specificati nella direttiva.
Il decreto individua dei requisiti minimi relativi alla progettazione ed alla fabbricazione che tutti i dispositivi medico-diagnostici in vitro devono possedere (Allegato I punto B).
L’orientamento generale, volto a garantire un elevato grado di sicurezza e affidabilità non solo a pazienti ed utilizzatori, ma anche a terzi (quindi a chiunque possa venire a contatto con questi prodotti) è chiaramente espresso nell’Allegato I parte A, punto 1 relativo ai requisiti generali: «I dispositivi devono essere progettati e fabbricati in modo che, se usati alle condizioni e per le destinazioni previste, la loro utilizzazione non comprometta, direttamente o indirettamente, lo stato clinico o la sicurezza dei pazienti, la sicurezza o la salute degli utilizzatori ed eventualmente di terzi, né la sicurezza dei beni. Gli eventuali rischi legati al loro uso debbono essere di livello accettabile, tenuto conto del beneficio apportato al paziente, e compatibili con un elevato livello di protezione della salute e della sicurezza.»
Il decreto prende poi in esame diversi aspetti relativi alla produzione ed alla sicurezza di un prodotto diagnostico in vitro e indica, anche se in termini generici, tutte le misure e le precauzioni che il fabbricante deve mettere in atto, considerando anche quelle caratteristiche che possono essere definite come formali o estrinseche (imballaggio, etichetta, manuale di istruzioni), affinchè venga costantemente garantita la sicurezza del prodotto.
Tra i requisiti essenziali viene dato risalto alle informazioni che devono essere fornite dal fabbricante mediante l’etichetta ed il manuale di istruzioni, nei quali spicca la data di scadenza (vedasi Tabella 1, Allegato I punto B co. 8.4).
La data di scadenza, ancorchè obbligatoria per taluni IVD che hanno – per loro natura – una validità limitata nel tempo, esprime dunque un’informazione necessaria per garantire l’utilizzazione appropriata (oltre che sicura) del dispositivo.
Nonostante ciò, però, gli IVD che (ad esempio durante un controllo dei Carabinieri dei N.A.S.) dovessero presentare la data di scadenza superata, non possono costituire ex se oggetto di censura penale al pari dei farmaci.
Il Decreto legislativo 8 settembre 2000, n. 332, invero, assoggetta detti dispositivi solo a procedure di sorveglianza post marketing affidate:
§         alla responsabilità del fabbricante o del mandatario, relativamente a quelle disfunzioni, guasti o alterazioni delle caratteristiche o delle prestazioni di un dispositivo, o ogni eventuale lacuna nell’etichetta o nelle istruzioni per l’usoche, direttamente o indirettamente, possa causare o aver causato il decesso o il peggioramento dello stato di salute di un paziente, di un utilizzatore o di altre persone (art.11 co.1);
§         alla sensibilità degli operatori sanitari che verranno in contatto con il dispositivo e che dovranno comunicare al Ministero della Salute gli incidentiverificatisi (art.11 co. 2).
Solo nei confronti di costoro e soltanto per l’omessa comunicazione delle informazioni di cui all’art 11, co.1 e 2, sussistono responsabilità penali in base all’art.19, co.1 successivo (arresto sino a sei mesi congiunto ad ammenda).
E se l’IVD fosse impiegato oltre la data di scadenza imposta dal produttore, in quali sanzioni incorrerebbe, ad esempio, il responsabile di un laboratorio di analisi?
La risposta è: nessuna sanzione.
All’inadeguatezza normativa, dunque, fa da corollario la mancanza di norme specifiche di natura sanzionatoria, dal momento che non esistono, a tutt’oggi, disposizioni che configurino illeciti di natura penale (o quanto meno amministrativa) riferiti espressamente e direttamente al caso in questione.
Non v’è dubbio che in conseguenza di un’azione intrapresa (o meno) sulla base di un risultato non corretto ottenuto tramite l’utilizzo di un IVD scaduto, possano derivare a carico di un soggetto danni indiretti causati da:
          diagnosi errata
          diagnosi ritardata
          trattamento ritardato
          trattamento inappropriato
          trasfusione di materiali inappropriati.
Ci si riferisce, insomma, a tutte quelle situazioni le quali, ancorchè oggettivamente idonee ad interferire – di riflesso, se non proprio direttamente – sul bene della salute delle persone, non sono state sollecitamente disciplinate in via generale dalla normativa vigente e che impediscono agli organi di vigilanza (su tutti, il N.A.S. Carabinieri) di ravvisare un utile strumento per approntare una tutela di carattere penale, fondata non tanto sull’astratta irrogabilità di una sanzione (magari anche di entità trascurabile), quanto sulla possibilità di impiego dell’istituto del sequestro (probatorio o preventivo), quale efficace mezzo di contrasto di un’illegalità definibile come «atipica» rispetto alla fattispecie codificata dall’art.443 c.p. ricordata in premessa.
Gli strumenti di tutela, a fronte di un fenomeno diffuso e oggetto di sovente riscontro nei laboratori di analisi convenzionati col Servizio Sanitario Regionale, devono pertanto essere inevitabilmente individuati negli artt.356 e 640, co.2 n.1 c.p., rispettivamente “Frode in pubbliche forniture” e “Truffa aggravata”.
In casi del genere va infatti correttamente rilevato che l’impiego di reagenti scaduti di validità è tale da non garantire la certa rispondenza dei dati di laboratorio alla esatta rappresentazione di quanto quel determinato procedimento di analisi deve al contrario fedelmente evidenziare, senza che i risultati possano essere in alcun modo turbati da fattori di "devianza".
Accanto a ciò, va d’altra parte evidenziato che il mancato rispetto delle norme di "qualità" che presidiano lo specifico settore e, quindi, l’impiego di materiale non conforme a quei requisiti (tale, il più delle volte, da costituire un evidente risparmio economico per il laboratorio, con connesso profitto ingiusto) è circostanza senz’altro idonea ad indurre in errore il Servizio Sanitario circa l’osservanza degli standard qualitativi delle prestazioni offerte in regime di convenzione, sulla cui base sono evidentemente parametrate le somme che l’azienda sanitaria competente è chiamata a corrispondere al soggetto che quelle prestazioni è autorizzato a fornire.
In definitiva, si tratta di censurare l’impiego di un “artificio” che ha determinato una prestazione qualitativamente "deteriore" rispetto ai livelli obbligatori, la quale – come detto in precedenza – può aver condizionato (magari anche negativamente) l’eventuale terapia che il medico è stato chiamato a predisporre sulla base di tali risultati.
E’ noto, del resto, che in materia di truffa contrattuale il mancato rispetto da parte di uno dei contraenti delle modalità di esecuzione del contratto, rispetto a quelle inizialmente concordate con l’altra parte, con condotte artificiose idonee a generare un danno con correlativo ingiusto profitto, integra l’elemento degli artifici e raggiri richiesti per la sussistenza del reato di cui all’art. 640 c.p. (cfr. Cass. pen., Sez. II, 05/10/2004, n.41073).
Appare adeguato – nella fattispecie – il ricorso al sequestro preventivo (art.321 c.p.p.) dei materiali scaduti o anche dell’intero laboratorio, ravvisandosi il presupposto del c.d. periculum in mora nella concreta possibilità che la libera disponibilità dei reagenti irregolari (o finanche della struttura e delle relative attrezzature) possa agevolare la commissione di ulteriori reati, magari anche di natura diversa e più grave di quelli contestati.
Sarà infine necessario che gli ufficiali di p.g. che hanno proceduto al sequestro, previo accordi col magistrato, curino che gli utenti destinatari dei referti analitici “dubbi”, vengano sottoposti a nuovi a nuovi tests, onde accertare eventuali ulteriori ipotesi penalmente rilevanti, come ad esempio il reato di cui all’art.582 c.p. in punto di lesioni personali.
 
 
 
Luogotenente dott.Giovanni Galetta
N.A.S. Carabinieri di Bari

Galetta Giovanni

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