La vexata questio del divieto di proporre domande nocive o suggestive ex art. 499 c.p.p. da parte del giudice

Roberta Barone 07/04/21
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Sommario: 1. Introduzione; 2. Gli orientamenti giurisprudenziali; 3. Il caso; 4. Il cambio di rotta: Corte di Cassazione, Sentenza 6 febbraio 2020, n. 15331

  1. Introduzione

L’esame testimoniale è la piena espressione del processo penale accusatorio, quale processo tra parti.

La disciplina a cui si è ispirato il legislatore del 1988 prevede la modalità c.d. cross examination, un esame incrociato che si articola in tre momenti: esame, controesame e riesame.

Tale metodologia è ritenuta la più idonea all’accertamento della verità processuale e garantisce la formazione della prova nel contraddittorio delle parti, ove il giudice deve essere terzo e imparziale, in conformità al principio del contraddittorio nella formazione della prova ex art. 111, co. 3 e 4 della Costituzione e al principio del giusto processo ex art. 6 della C.E.D.U. [1]

L’art. 499 c.p.p. detta le regole per l’esame testimoniale, indica cioè i criteri guida cui il giudice deve attenersi nell’ammettere o vietare le domande. È previsto che “nel corso dell’esame sono vietate le domande che possono nuocere alla sincerità delle risposte” (comma 2), e che “nell’esame condotto dalla parte che ha chiesto la citazione del testimone e da quella che ha un interesse comune sono vietate le domande che tendono a suggerire le risposte” (comma 3).

Dunque, si individuano due tipologie di domande vietate: le domande nocive, ossia quelle «finalizzate a manipolare il teste, fuorviandone la memoria, poiché gli forniscono informazioni errate e falsi presupposti tali da minare la stessa genuinità della risposta»[2], e le domande suggestive, che «tendono a suggerire la risposta al teste ovvero forniscono le informazioni necessarie per rispondere secondo quanto desiderato dall’esaminatore, anche attraverso una semplice conferma»[3].

Se le prime vengono considerate lesive della libertà di espressione del dichiarante, e quindi sono vietate in assoluto a tutte le parti processuali; le seconde, invece, sono formulate in modo tale da condurre la risposta del testimone verso la risposta suggerita dall’interrogante, queste sono vietate solo alla parte che ha richiesto l’esame e a chi ha un interesse comune.

La vexata questio sottesa, oggetto della recente pronuncia della Corte di Cassazione, è se il divieto di porre domande nocive o suggestive nel corso dell’esame testimoniale ex art. 499 c.p.p. si applica solo alle parti processuali o anche al giudice.

  1. Gli orientamenti giurisprudenziali

Per molto tempo, in giurisprudenza si è sostenuto che «il divieto di porre domande suggestive nell’esame testimoniale non opera con riguardo al giudice, il quale, agendo in una ottica di terzietà, può rivolgere al testimone tutte le domande ritenute utili a fornire un contributo per l’accertamento della verità, ad esclusione di quelle nocive»[4], ma riguarderebbe solo le parti processuali, accogliendo, dunque, un’interpretazione restrittiva dell’art. 499 c.p.p.

A sostegno di tale argomentazione si sostiene che la ratio della norma, ossia il divieto di porre domande nocive o suggestive, risiede nel particolare rapporto di prossimità che potrebbe intercorrere tra il testimone e la parte processuale che lo ha citato, al contrario per il giudice «non vi è il rischio di un precedente accordo tra testimone ed esaminante»[5], perché per definizione è terzo e imparziale, quindi il divieto non avrebbe alcuna ragione d’essere.

In antitesi a questo orientamento la Corte di Cassazione, già in passato aveva affermato che “il divieto di formulare domande suggestive opera per tutti i soggetti che intervengono nell’esame, essendo applicabile ai sensi dell’art. 499 c.p.p., comma 2, a tutti il divieto di porre domande che possono nuocere alla sincerità della risposta e dovendo anche dal giudice o dal suo ausiliario essere assicurata in ogni caso la genuinità delle risposte ai sensi del medesimo articolo, comma 6”[6]. Ed ancora che “la violazione delle regole poste a presidio dell’esame testimoniale di cui agli artt. 498 e 499 c.p.p. rende la prova acquisita non genuina e poco attendibile e, come tale, censurabile in sede di valutazione della prova, trattandosi di prove assunte con modalità diverse da quelle prescritte ed essendo la sanzione di inutilizzabilità di cui all’art. 191 c.p.p. riferita alla prova vietata nel suo complesso”[7].

Ma un punto di svolta è stato segnato dalla Suprema Corte di Cassazione con la Sentenza 6 febbraio 2020, n. 15331 ove ha asserito che il divieto di porre domande nocive o suggestive al testimone si applica anche al giudice, proponendo dunque, un’interpretazione estensiva del divieto ex art. 499 c.p.p.

  1. Il caso

Il caso sottoposto alla Corte di Cassazione riguardava una vicenda processuale in cui l’imputato era stato condannato, dal Tribunale di Genova, alla pena di anni due di reclusione per il reato di cui all’art. 609 quater c.p. in danno ad una minore, commesso nell’agosto 2009, assolvendolo, invece, dalla contestazione relativa al compimento successivo di atti sessuali posti in essere nel 2010, nei confronti della stessa minore, allorquando aveva già compiuto quattordici anni.

Con sentenza del 25.01.2017, la Corte di Appello di Genova, accogliendo le doglianze del pubblico ministero, riformava parzialmente la sentenza di primo grado, ritenendo la responsabilità dell’imputato sussistente anche per il delitto di cui all’art. 609 bis c.p. relativo agli atti sessuali compiuti nei confronti della ragazza già quattordicenne, condannandolo alla pena di anni quattro di reclusione.

La Corte di Cassazione, Sez. III, investita del ricorso dell’imputato, annullava la sentenza di Appello, ritenendo che fosse necessario doversi procedere alla rinnovazione dell’istruzione dibattimentale nei confronti della persona offesa, per valutarne l’attendibilità.

All’esito del giudizio di rinvio, la Corte d’Appello dichiarava nuovamente l’imputato colpevole del reato di cui all’art. 609 bis c.p. e lo condannava alla pena di anni tre di reclusione.

Avverso tale sentenza proponeva ricorso l’imputato, deducendo erronea applicazione della legge, nonché mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione.

In particolar modo, l’imputato denunciava l’illegittimità delle modalità di assunzione e valutazione della testimonianza della persona offesa; ad avviso del ricorrente non sarebbero state rispettate le norme deputate a salvaguardare il corretto svolgimento dell’esame e del controesame, ma al contrario il consigliere relatore avrebbe posto alla teste domande suggestive, idonee ad inficiare la genuinità dell’esame testimoniale.

  1. Il cambio di rotta: Corte di Cassazione, Sentenza 6 febbraio 2020, n. 15331

L’importanza di questa sentenza consiste nell’aver messo in luce il ruolo del giudice durante l’esame e controesame testimoniale.

Partendo dal dato normativo di cui all’art. 506, co. 2, c.p.p., nella parte in cui stabilisce che il Presidente “può rivolgere domande ai testimoni, ai periti, ai consulenti tecnici, alle persone indicate nell’art. 210 c.p.p. e alle parti private ma solo dopo l’esame e il controesame”, con domande a chiarimento, sempre nei limiti dei criteri generali di ammissibilità, per la corretta ricostruzione del fatto. Ed aggiunge “resta salvo il diritto delle parti di concludere nell’ordine indicato negli artt. 498, co. 1 e 2, e 503, co. 2, c.p.p.”, cioè a condizione che si riapra l’iter: esame, controesame e riesame.

Dunque, il potere officioso di intervento, con finalità chiarificatrice, è in funzione surrogatoria rispetto alle parti che «in tanto trova giustificazione in un processo tendenzialmente accusatorio, in quanto non sia stato possibile ottenere i necessari chiarimenti mediante le domande che hanno posto le parti»[8].

Questo perché la ricostruzione del fatto, quindi la prova, così come emersa dall’esame e controesame, con l’intrusione del giudice potrebbe essere alterata.

Tanto detto, emerge come il potere del giudice in sede di esame testimoniale, prescinde dalla logica dell’alternanza delle parti, non potendosi calare nella cross examination.

Il ruolo del giudice per definizione sfugge a questa modalità che vede protagoniste le sole parti processuali, il giudice deve limitarsi a restare nella sua dimensione di terzietà e imparzialità, assistere alla formazione della prova senza contaminarla. Solo così vi potrà essere una ricostruzione del fatto storico quanto più genuino e veritiero possibile ed il giudice potrà valutare l’apporto conoscitivo che il testimone ha apportato nel processo.

Al contrario, ogni qual volta il giudice entra nelle dinamiche della ricostruzione del fatto, ponendo delle domande al testimone, abbandona la sua aurea di terzietà e imparzialità e si schiera dall’una o dall’altra parte, minando profondamente i principi costituzionali su cui si regge il processo penale[9].

Il giudice, in poche parole, durante l’esame testimoniale deve vietare in modo assoluto le domande che possono nuocere alla sincerità delle risposte; vietare alla parte che ha addotto il teste o che ha interesse comune con lo stesso di formulare le domande in modo da suggerirgli le risposte; assicurare durante l’esame del teste la pertinenza delle domande, la genuinità delle risposte, la lealtà dell’esame e la correttezza delle contestazioni.

La ratio dell’art. 499 c.p.p. è quella di tutelare la genuinità e la spontaneità delle risposte del teste, pertanto «a maggior ragione, il divieto di porre domande suggestive e nocive deve applicarsi al giudice al quale spetta il compito di assicurare, in ogni caso, la genuinità delle risposte ai sensi del comma 6 della medesima disposizione»[10]. Al contrario, l’inosservanza delle regole stabilite dal codice di rito renderebbe la prova non genuina e poco attendibile.

Nel caso de quo, gli Ermellini hanno evidenziato che le domande poste dal consigliere relatore alla testimone presentavano entrambi gli elementi di suggestività e di nocività.

Si trattava di domande assertive che indirizzavano la testimone verso una mera conferma di quanto il consigliere relatore sosteneva, tali da compromettere la genuinità delle risposte, infatti, la persona offesa alla maggior parte delle domande rispondeva, semplicemente, annuendo[11].

Pertanto, la Corte ha dichiarato l’annullamento della sentenza impugnata ritenendo che il contenuto delle domande sovrabbondanti del consigliere relatore rivolte alla teste non hanno garantito la spontaneità delle risposte della stessa ed hanno gravemente pregiudicato l’attendibilità, così la prova non ha fornito un sapere certo.

In conclusione, la Suprema Corte di Cassazione ha posto in essere una vera e propria rivoluzione copernicana, dichiarando un fondamentale principio di diritto, estendendo l’operatività del divieto ex art. 499 c.p.p. anche al giudice. A garanzia del metodo probatorio, in particolare per la formazione della prova orale nel contraddittorio delle parti, ove il giudice deve essere terzo ed imparziale, onerato del compito di assicurare la pertinenza, la genuinità delle risposte e la lealtà dell’esame, vincolato alle regole che mirano a tutelare la corretta, sincera e genuina formazione del contenuto testimoniale, al fine dell’accertamento della verità processuale.

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Note

[1] Sul punto la Cassazione nella sentenza n. 15331/2020 richiama l’art. 111 Cost., art. 6 CEDU, art. 14, par. 3, let. e) del Patto internazionale sui diritti civili e politici

[2] Cass., Pen., Sez. IV, Sent. 06 febbraio 2020, n. 15331

[3] Cass., Pen., Sez. IV, Sent. 06 febbraio 2020, n. 15331

[4] Cass., Pen., Sez. III, Sentenza 15 aprile 2015, n. 21627, si trattava di una fattispecie in materia di reati sessuali, nella quale la Corte ha escluso che la domanda posta dal Giudice alla persona offesa avesse natura suggestiva, dovendo intendersi come una mera richiesta di chiarimento sulle modalità del fatto.

Sul punto, si v. Cass., Pen., Sez. I, Sent. 17 settembre 2014, n. 44223; Cass., Pen., Sez. III, Sent. 28 ottobre 2009, n. 9157; Cass., Pen., Sez. III, Sent. 20 maggio 2008, n. 27068; Cass., Pen.

[5] Cass., Pen., Sez. III, Sent. 12 dicembre 2007, n. 4721

[6] Cass., Pen., Sez. III, Sent. 24 febbraio 2012, n. 7373

[7] Cass., Pen., Sez. III, Sent. 24 febbraio 2012, n. 7373

[8] Cass., Pen., Sez. IV, Sent. 6 febbraio 2020, n. 15331

[9] Infatti, nel nostro ordinamento giuridico vige il principio della totale segregazione degli atti, proprio perché la conoscenza del giudice del dibattimento, dei fatti processuali, si deve formare solo ed esclusivamente in dibattimento, ed il libero convincimento del giudice si costruisce tramite la formazione della prova in dibattimento e nel contraddittorio delle parti

[10] Cass., Pen., Sez. IV, Sent. 6 febbraio 2020, n. 15331

[11] Sul punto si v. Cass., Pen., Sez. III, Sent. 11 maggio 2011, n. 25712 «Il giudice che procede all’esame diretto del testimone minorenne non può formulare domande suggestive» (In motivazione la Corte ha precisato che, «ove si ritenesse diversamente, si arriverebbe all’assurda conclusione che le regole fondamentali per assicurare una testimonianza corretta verrebbero meno laddove, per la fragilità e la suggestionabilità del dichiarante, sono più necessarie»)

Roberta Barone

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