La tutela giuridico-penale della dignità umana nell’epoca della globalizzazione. “Lectio Magistralis”

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Per chi, come chi vi parla 1, ha insegnato ufficialmente diritto penale per più di 40 anni, senza soluzione di continuità, un’occasione come quella che mi è stata cortesemente concessa nell’ambito di questo importante incontro fornisce lo spunto per una valutazione retrospettiva di quanto è accaduto in tutti questi anni non disgiunta da un esame di coscienza in funzione di una analisi delle prospettive dei sistemi penali 2.

Devo affermare che dall’ epoca dell’entusiasmo giovanile fino alla pacatezza della maturità (la fase successiva è quella attuale), pressoché intatto è rimasto lo sforzo di impartire un insegnamento della disciplina informato al rispetto della persona e delle sue garanzie nell’ottica di un diritto penale inteso come Magna Carta, che, in quanto tale, condiziona e delimita le scelte di politica criminale che si traducono nelle leggi penali. Molto è stato dedicato all’approfondimento dei principi costituzionali della responsabilità penale e alla loro penetrazione nel sistema del codice penale italiano del 1930, antecedente a tali principi, alcuni dei quali (colpevolezza, presunzione di innocenza) estranei alla sua originaria logica.

Forse con un po’ di “inconscia ipocrisia”, ho potuto, se non trascurare quantomeno marginalizzare degli evidenti elementi di disturbo come le “misure di prevenzione” che prescindono dalla commissione di un reato, che caratterizzano l’ordinamento giuridico italiano da un quarantennio e che pure sono andate ad assumere un peso sempre maggiore in connessione con l’evoluzione del fenomeno mafioso in senso lato: in fondo – lo dico a mia scusante – non si tratta di un sistema punitivo in senso stretto, per cui basta tenerlo distinto dal “penale”, anche se incide pesantemente sulla libertà e sul patrimonio di persone anche solo indiziate o sospette di pericolosità criminale.

Contemporaneamente mi sono rallegrato per la progressiva riduzione delle misure di sicurezza applicate ai soggetti imputabili in aggiunta alle pene vere e proprie: mi sembrava che l’evoluzione del sistema fosse nella direzione di un auspicato superamento del doppio binario (pene e misure di sicurezza) caratteristico del codice penale italiano.

Quanto al diritto penale vero e proprio, il principio di legalità con i suoi corollari costituiva (e costituisce) uno dei fondamenti ineludibili dello stato di diritto, né c’era ragione di discutere del principio in sé, in quanto esso è consacrato con formula rigorosa nell’art. 1 del codice penale, che proprio partendo da questo formale riconoscimento, rinviava le scelte politiche del regime fascista alla parte speciale del codice ed alle pene ivi previste.

Di un diritto penale d’autore (Täterstrafrecht) si parlava solo come reminiscenza storica di un passato, anche abbastanza recente, di negazione dello stato di diritto. Dell’autore, ossia della persona, non è che non si discutesse, ma per tutt’altre ragioni: per mirare all’affermazione (che in Italia tardava) della costituzionalità del principio di colpevolezza (1988) che rappresenta un limite ulteriore per la responsabilità penale ed altresì un limite per la pena da irrogare in concreto, quali che fossero le funzioni assegnate alla pena stessa.

Quanto al “fatto”, gli sforzi (non miei, ma) della dottrina europea sono stati rivolti al tentativo di assicurare che il fatto tipico fosse dotato di sufficiente offensività, ai fini della cd. dignità penale: la complessa ricerca della radice costituzionale del principio di offensività aveva lo scopo di rendere “giustiziabile” (ossia sottoposto al controllo di legittimità della Corte Costituzionale) le stesse scelte del legislatore ordinario, oltre che a vincolare il giudice alla individuazione del concreto contenuto offensivo del fatto realizzato.

Gli sviluppi della teoria del bene giuridico ne sono la dimostrazione. In quest’ottica sono state stigmatizzate da buona parte della dottrina le eccessive “anticipazioni della tutela”, pur se apprestata a beni giuridici di sicuro rilievo, i reati di pericolo presunto, i cd. reati ostacolo ed altro.

Per quanto concerne la pena in Italia, Paese dotato di un codice risalente al 1930, la stigmatizzazione di limiti edittali eccessivamente elevati ha portato nel 1974 ad un enorme dilatazione del potere discrezionale del giudice, che ha dato luogo, insieme ad effetti certamente positivi per la giustizia sostanziale, a numerosi inconvenienti relativi alla poca “certezza” connessa alla mancanza di precisi criteri normativi, nonché ad una sovraesposizione del giudice penale che si è venuto a trovare più arbitro che applicatore delle leggi ( e questo non è stato di giovamento).

Sul piano teorico, comunque, la pena irrogata per comune opinione non deve superare la misura della colpevolezza per il fatto, salvo a consentire, verso il basso, di tener conto delle esigenze di risocializzazione, rieducazione, reinserimento contemplate dalla Costituzione. A livello dottrinario concordemente si esclude un ruolo della prevenzione generale nella fase della commisurazione giudiziale.

Nonostante alcuni periodi bui della storia recente d’Italia e d’Europa connessi al fenomeno del terrorismo politico degli anni 70 e 80 che portò ad un dibattito di natura politica sulla questione penale, con la fine delle dittature comuniste susseguente alla caduta del muro di Berlino, con i nuovi codici penali europei (e relativi sistemi punitivi) ispirati ai principi costituzionali delle democrazie occidentali e ai principi della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e degli altri strumenti internazionali di pieno riconoscimento dei diritti umani e quindi in un quadro del diritto penale ad essi ispirato, sembrava essere avviato a definitiva affermazione su scala ampia l’iter del diritto penale liberale nato con l’illuminismo e con l’idea dello stato di diritto.

Viceversa la caduta delle barriere, il processo di globalizzazione, favorito da una vera e propria rivoluzione epocale per quanto riguarda la comunicazione, insieme a tanti benefici, ha portato delle conseguenze non tutte positive per l’evoluzione lineare del diritto penale di cui il quadro di riferimento attuale e le prospettive.

La globalizzazione segna un rapidissimo adeguamento della criminalità in quanto organizzata, di tipo mafioso o terroristico, oltre che economico (trans nazionalità), e mette a nudo una notevole debolezza delle democrazie, legate a regole fondamentali della loro esistenza quale stato di diritto – il potere è sottomesso al diritto – e delle stesse organizzazioni internazionali pure legate a principi irrinunciabili.

Degli illeciti degli stati, che pure sono drammaticamente presenti, non posso trattare in questa sede.

Per la verità, già in precedenza gli USA avevano registrato, pur nell’ambito di una ideologia neo liberista, una politica criminale “espansiva”, caratterizzata dal ricorso frequente alla pena di morte e dall’incremento per quantità e durata della pena detentiva.

Come è stato rilevato (Mir Puig) si comincia a manifestare nei fatti una distinzione netta tra i cittadini: gli osservanti da tutelare e i delinquenti da colpire. E questo pare manifestarsi anche nell’ambito del processo penale che da primario strumento di garanzia dell’accusato tende a sbilanciarsi a mezzo di lotta contro il delinquente e di tutela delle vittime. I principi cardine della rivoluzione francese (Liberté, Egalité, Fraternité) vengono di molto svalutati in quanto la libertà non è difesa adeguatamente, l’eguaglianza è solo formale davanti alla legge, mentre si dimentica del tutto la solidarietà (immigrati).

Ad una prevenzione precedentemente preoccupata dei suoi limiti si sostituisce una prevenzione ossessionata dalla sua incapacità, ma l’indurimento del sistema penale non porta ai risultati attesi per cui esso viene progressivamente incrementato.

E’ da osservare, per quanto si dirà tra poco, che negli USA viene colpita con durezza anche e specialmente la “delinquenza di strada” (Ferrajoli) e non soltanto gli autori di fatti criminali particolarmente gravi. E questo anche specialmente per “sopperire” apparentemente al sentimento di bisogno di tutela della popolazione che è anche la massa degli elettori, il cui consenso è necessario alle istituzioni democratiche. Quello di una politica criminale volta più a far vedere che a fare in funzione dell’opinione pubblica è, a mio avviso uno dei temi più delicati del momento.

In questo contesto la terribile strage dell’11 settembre 2001 ha dato luogo a misure un tempo impensabili, specie se riferite ad un Paese come gli USA che per lunghissimo tempo ha costituito un esempio di sistema di garanzie individuali per le democrazie occidentali.

Non mi soffermo in questa sede, per mancanza di tempo, a valutare (come pure è stato fatto) del se la violazione delle regole tradizionali negli USA (habeas corpus, lunghe carcerazioni senza processo, tortura, rapimenti) possa essere riportata ad un concetto di diritto penale, sia pure abnorme o del nemico. Sono propenso a offrire una risposta negativa, ma vorrei sottolineare fin da ora che, di natura penale o amministrativa, le misure sostanziali e processuali adottate nei confronti dei presunti o sospetti terroristi e le loro modalità colpiscano l’essenza stessa dello stato di diritto.

 

Comunque, non ci si può nascondere dietro ad etichette a prescindere dagli esiti delle stragi dell’11 settembre, anche in conseguenza della globalizzazione già l’esempio anteriore alla strage della politica criminale americana e della sua attuazione nel sistema penale non è restato isolato: l’indurimento dei sistemi penali è da parecchi anni sotto gli occhi di tutti, mentre è incerta e contestata la fondatezza dei presupposti di questo indurimento. Potremmo esaurire tutto il tempo di questo incontro, elencando le innovazioni normative dei paesi europei che sono state oggetto di viva discussione

Mentre in determinati gruppi di stati (UE) i diritti umani, i diritti fondamentali della persona, trovano pieno riconoscimento tramite le rispettive costituzioni e la Corte Europea dei diritti dell’Uomo (sicché non si può più parlare di autoreferenzialità dei diritti dell’uomo in un’ottica jus positivista); mentre lo statuto di Roma sulla Corte Penale Internazionale ha finalmente aperto alla protezione contro i crimini internazionali, non possiamo non considerare come in questi stessi paesi, per non parlare degli altri, da alcuni decenni ha preso piede e si è consolidato l’inasprimento del sistema penale.

Dal sostanziale superamento della pena informata a criteri di prevenzione speciale positiva, volta cioè al recupero del reo e al suo inserimento nella collettività (sulla base del principio solidaristico) anche a seguito della crisi del Welfare State (e alle più recenti crisi economiche) la retribuzione, che, può essere significativa del rispetto per i diritti dell’uomo in quanto sinonimo di proporzione, tende nelle prassi giudiziarie (ma, come vedremo, anche a livello normativo) almeno con riferimento a determinati settori e a determinate forme di criminalità, a diventare invece funzionale alla prevenzione generale, all’esemplarità. Questo significa strumentalizzazione della persona la quale non è più punita per ciò che merita per il fatto commesso ma perché la sua punizione sia di monito ai potenziali imitatori. Né ci sembra estraneo a questo percorso la prospettiva di neutralizzazione del delinquente tipo: una sorta di ritorno al diritto penale dell’Ancien Regime o a Stato assoluto. Ma, ovviamente prima della questione della pena, va evidenziato il diffuso intervento delle legislazioni europee volto a contrastare fenomeni criminali, in taluni casi davvero preoccupanti (terrorismo, criminalità organizzata, tratta di esseri umani, criminalità economica connessa (riciclaggio) ma anche fenomeni, meno gravi ma connessi a questo periodo storico, come quelli mafiosi.

E’ stato questo clima di irrigidimento generale, combattuto aspramente dalla dottrina più liberale ma sostenuto da molti seri studiosi, che ha portato alla elaborazione teorica del “diritto penale del nemico” ad opera di Günter Jakobs.

E’ lo stesso clima che ha fatto sì che quella che pochi anni prima sarebbe passata come una elucubrazione da trattare con sufficienza, ha aperto le porte ad un larghissimo dibattito scientifico. E questo deve pur significare qualcosa.

Partendo dal rilievo di trattamenti differenziati di determinati tipi di autore, nell’impostazione di Jakobs si opera e si teorizza una distinzione netta tra il “delinquente normale o comune” e la categoria del “nemico pubblico” costituita da delinquenti che si pongono in una linea di rottura definitiva del patto sociale e quindi vanno combattuti, come tali, ossia come nemici, ai fini della loro neutralizzazione.

La concezione binaria (il cittadino e il nemico) dà luogo a due sistemi differenziati: il diritto penale del cittadino, corrispondente al diritto penale tradizionale, con tutte le sue garanzie sostanziali e processuali, e il diritto penale del nemico attraverso il quale lo Stato può neutralizzare il delinquente senza preoccuparsi delle garanzie. In questa cornice di riferimento, questo tipo d’autore, alla fine viene espressamente definito “non persona”.

La definizione di Hassemer

Diritto penale del nemico

Con l’espressione “diritto penale del nemico” è designato un diritto penale tipo che si distingue dal diritto penale tradizionale in modo tale da non potersi considerare solo differenziato o ulteriormente sviluppato ma che si rapporta ad un diverso ordinamento giuridico. Il diritto penale del nemico mette in disparte la generalità dell’ordinamento giuridico. Diritto penale del nemico e Diritto penale tradizionale si distinguono nel nocciolo di ogni moderno diritto penale: nel Menschenbild, nel concetto di sanzione e nella protezione giuridica. Con il Diritto penale del nemico la effettiva difesa dal pericolo si propone in luogo della formalizzazione del controllo sull’illecito. La sua giustificazione si serve del concetto di persona e collide con essa”3.

In contrapposizione a questo sistema binario che giunge a distinguere un ordinamento per le persone e uno diverso per le non persone, chi prende atto della realtà normativa e giudiziaria differenziata per le diverse forme di criminalità e di criminali, all’interno di Paesi che “sono considerati” stati democratici di diritto, conferma l’ unicità del sistema nell’ambito del quale le “sfumature” o anche le palesi difformità nel trattamento di determinate forme di criminalità e di determinati tipi di autore sono parecchie e notevoli, al limite, possono dal luogo a veri e propri sottosistemi. In questa ottica il diritto penale fa sempre parte degli strumenti giuridici di lotta o di contrasto alla criminalità conservando tuttavia un dialogo con l’autore (imputato o reo accertato che sia) ma pur sempre con un bilanciamento tra esigenze di tutela sociale e quelle di protezione individuale. Tuttavia da una “guerra cavalleresca” (rispetto delle persone) si può passare ad una guerra meno cavalleresca nei confronti di taluni col rischio non astratto che essa diventi una guerra sporca, arrivando al diritto penale del nemico. Questo rischio va evitato e ciò proprio in virtù del fatto che manca una cesura netta che permetta di distinguere il diritto penale del fatto dal diritto penale del nemico: le deviazioni (normative e giurisprudenziali) dagli schemi ordinari più garantisti possono essere o vengono segnalate e criticate, e, così contenute sul piano scientifico e agli occhi dell’opinione pubblica, possono essere sindacate a livello di costituzionalità, sempre che siano superati i limiti costituzionali di garanzia.

A fronte della concezione Jakobsiana del diritto penale del nemico (non persona) mi sembra assolutamente valida la considerazione (Zaffaroni) che non è tanto il diritto penale a non poter far proprio quel concetto, ma che è lo stato di diritto a non poter incorporarlo, “pena la sua scomparsa come stato di diritto, perché il concetto è proprio di modello di stato assoluto” (che può essere anche solo provvisorio o relativo alle emergenze).

Alla scienza del diritto penale spetta quindi il compito di segnalare le eventuali deviazioni delle forme di contrasto a certa criminalità utilizzate dallo Stato con i suoi organi (siano il Parlamento, la Magistratura o la Polizia): può darsi che tali deviazioni siano riferibili a leggi, ed allora può intervenire la Corte Costituzionale, che siano riferibili a sentenze, e allora devono intervenire le giurisdizioni sovraordinate, che siano riferibili agli organi di polizia o ai servizi segreti, ma questi ne risponderanno.

Ricapitoliamo, scartato il sistema binario di Jakobs, sembra un dato di fatto che in presenza di fenomeni criminali particolarmente gravi, sia pure riferibili di volta in volta alla realtà di paesi diversi, quali il terrorismo, la criminalità organizzata ecc., si sia arrivati a delle forme differenziate di diritto penale, a prospettive di lotta, nel senso di più forte contrasto, con tali fenomeni.

L’alternativa dottrinaria, a questo punto muove da due prospettive (diversa funzione del diritto penale):

  1. escludere che il diritto penale e il processo possano costituire uno strumento differenziato di lotta.

  2. prendere atto delle vere emergenze, rilevare un sottosistema “temporaneo” (all’interno del diritto penale normale) discutendone i limiti di legittimità;

Registriamo cioè nel dibattito internazionale delle posizioni culturali più legate alla tradizione garantista e delle posizioni più pragmatiche.

Osserva Donini: “Chi dice che il diritto penale non può mai essere uno strumento di lotta contro un nemico, già solo per questo ne abbellisce il volto, occultando gli aspetti più odiosi della penalità quotidiana. Una scienza molto morale e molto estetica, dunque, ma forse poco verace, o se si preferisce una scienza sul dover essere del diritto penale, più che riferita al suo essere normativo vigente”.

Io personalmente condivido questa posizione più prammatica, anche non sono disposto a rinunziare all’affermazione dei principi ai quali ho sempre creduto.

L’idea soltanto di un Diritto penale del nemico, in realtà, mi sembra un indice molto serio della crisi delle democrazie, o almeno di alcune di esse.

L’ossessione per la criminalità (giusta o errata che sia) influenza, ed è destinata ad influenzare l’elaborazione del diritto penale a tutti i livelli.

Questa ossessione è connessa al bisogno di sicurezza diffuso nella popolazioni 4:

incide sui soggetti politici, alla ricerca del consenso che pure è un fondamento della democrazia: di qui il rischio di una legislazione che alle volte è solo simbolica ma in altri casi attinge davvero i diritti della persona;

incide sui giudici e sul “giusto processo”, perché porsi in contrasto con i pubblici ministeri che si fanno portatori delle esigenze (vere o artificiali) di tutela, viene valutato negativamente dall’opinione pubblica, alla quale anche il giudice, che pur non dovrebbe, resta sensibile.

Modalità di acquisizione del consenso e opinione pubblica manipolata sono dunque le reazioni che contraddicono una politica criminale razionale e pienamente rispettosa dei principi storici dell’ordinamento giuridico dello stato di diritto.

Quando, invece, si è in presenza di effettive esigenze di tutela a fronte di quelle forme di criminalità sempre più organizzata e sempre più spietata, sempre più aggressiva pericolosa, il sistema penale deve individuare adeguati strumenti di contrasto all’interno dei principi dello stato di diritto.

Perché si possa parlare di sistema penale di contrasto (inserito nello stato di diritto) è indispensabile che la produzione normativa sia controllabile e controllata dalla Corte Costituzionale; che l’applicazione della legge avvenga ad opera di un giudice indipendente e davvero imparziale, mediante le regole del giusto processo, che dia conto adeguatamente delle sue decisioni ( a sua volta controllabili e rivedibili).

Entro questi fin troppo ovvi limiti intrinseci non si può escludere che a un diritto penale del puro fatto (di tipo tradizional-liberale) e della colpevolezza possano affiancarsi valutazioni funzionali all’applicazione di misure di sicurezza.

Ma in tal caso sarebbe indispensabile tipizzare le ipotesi di grave pericolosità criminale, in modo da consentirne l’ accertamento 5. Se così non fosse si aprirebbe il varco ad una ulteriore strumentalizzazione della persona mediante il riconoscimento solo formale e non provato dell’esistenza di un nemico da neutralizzare.

Ed infine la mia opinione è che anche il più efferato e pericoloso delinquente deve poter conservare, in quanto persona, la chance di recupero. Questo forse non è un diritto del delinquente, ma resta un dovere di un ordinamento giuridico di stato di diritto.

1 Prof. Avv. Alfonso M. Stile, Ordinario di Diritto Penale alla “Sapienza” Università di Roma, Vice-Presidente dell‘Istituto Superiore Internazionale di Scienze Criminali (ISISC di Siracusa), Vice-Presidente dell’Association Internationale de Droit Penale (AIDP), Presidente dell’Association Internationale de Droit Penale – Gruppo Italiano (AIDP-gi), Presidente Onorario dell’Association Internationale de Droit Penale – Albanian National Group and Collective Members of Kosovo united in AIDP – Albanian People Group (AIDP-apg). 

2 Lectio Magistralis tenuta in Prishtina, Kosovo, in data 11 settembre 2010 nell’ “International Conference: Penal Protection of Human Dignity in Globalisation Era, 11-13 September 2010, Prishtina, Kosova”, ove lo stesso veniva insignito del titolo di “Honorary President of Association Internationale de Droit Penale – Albanian National Group and Collective Members of Kosovo united in AIDP – Albanian People Group (AIDP-apg)”.

3 E’ inutile dire che Hassemer definisce la posizione di Jakobs per sottoporla a dura critica.

4 Occorrerebbe però riuscire a valutare quanto il bisogno di sicurezza corrisponda a situazioni reali di rischio aumentato e quanto sia riferibile alla amplificazione di un rischio esistente da tempo nella stessa misura. Vi sono anche situazioni di pericolosità che sono connesse ad aspetti benefici per la collettività, ma questi ultimi non sono rappresentati (immigrati).

5 Occorrerebbe provare la pericolosità non limitarsi ad evidenziarne gli elementi di sospetto, ma la cosa non è affatto semplice.

Alfonso M. Stile

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