La sanzione pecuniaria prevista dall’art. 144 TUB non è equiparabile alla sanzione penale alla stregua della giurisprudenza della CEDU

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La Seconda Sezione Civile della Corte di Cassazione con la sentenza n. 3656 del 24 febbraio 2016, Presidente E. Bucciante – Relatore L. Matera, pronunciandosi in tema di infrazioni al testo unico in materia bancaria e creditizia, ha affermato che la sanzione pecuniaria ex art. 144 TUB, nel testo ragione temporis applicabile, non presenta, alla stregua della giurisprudenza della Corte dei diritti dell’uomo, un carattere di afflittivita’ tale da essere equiparabile, per tipologia, severità ed idoneità ad incidere sulla sfera patrimoniale e personale, alla sanzione penale.

Questi i fatti.

Il Direttorio della Banca d’Italia irrogava al direttore generale e componente del Comitato di Controllo di un istituto di credito la sanzione di €. 28.000,00 per “carenza nei controlli interni da parte dei componenti il Consiglio di Amministrazione” (art. 53, comma 1^, lett. b) e d) del D. LGS. 1.9.1993 n. 385 -TUB).

Per la medesima violazione il Direttorio della Banca d’Italia, con lo stesso provvedimento comminava sanzioni amministrative anche al Presidente del Consiglio di Amministrazione e ad altri componenti del Consiglio e del Comitato di Controllo.

Il Direttore Generale della banca proponeva opposizione avverso la predetta delibera, chiedendo che la stessa venisse dichiarata nulla, annullata o dichiarata inefficace; in via subordinata, chiedeva una riduzione della sanzione.

La Corte di Appello di Roma rigettava con decreto l’opposizione e il Direttore Generale della banca proponeva ricorso per cassazione affidato a tre motivi:

  1. L’illegittimità del decreto impugnato nella parte in cui non riconosce la natura istruttoria della proposta sanzionatoria della Commissione e del parere dell’Avvocato Generale e consente la motivazione per relationem della delibera;
  2. La violazione degli artt. 24, commi 1 e 2, della Legge 262/2005, della Legge 689/1981 e della Legge 241/1990;
  3. La non corretta applicazione degli artt. 111 e 24 Costituzione; la violazione dell’art. 6 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e dell’art. 41 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione europea.

Ebbene, la Corte di Cassazione ritiene infondati tutti e tre i motivi proposti dal ricorrente.
Osserva preliminarmente la Corte che l’art. 24, comma 1^, della L.262/2005 non prescrive che la proposta sanzionatoria della Commissione e il parere dell’Avvocato Generale debbano essere portati a conoscenza degli interessati perché questi possano eventualmente controdedurre su di essi, poiché il parere e la proposta non costituiscono atti istruttori, in quanto con essi i predetti organi esprimono una valutazione sui medesimi “atti istruttori “ noti anche all’incolpato, e in ordine ai quali anche quest’ultimo ha avuto modo di esprimere una valutazione, che resta nel fascicolo a disposizione del Direttorio. Quindi, la mancata trasmissione dei predetti atti all’incolpato, non comporta alcuna violazione del principio del contraddittorio in danno di tale soggetto, il cui diritto di difesa è garantito dalla comunicazione dell’inizio del procedimento, dalla contestazione degli addebiti, dalla indicazione degli elementi a carico, dalla facoltà di presentare le controdeduzioni, dall’audizione personale e dalla messa a disposizione delle fonti di prova raccolte in sede istruttoria. Tali principi,per altro, sono già stati espressi dalla Suprema Corte nella sentenza n. 27038 del 3.12.013.

Inoltre, osserva la Corte che nel caso de quo non può essere invocata l’applicazione dei precetti costituzionali riguardanti il diritto di difesa (art. 24 Cost.) e il giusto processo (art. 111 Cost.), poiché tali norme riguardano solo ed esclusivamente i giudizi che si svolgono innanzi al giudice e non il procedimento amministrativo (cfr. Cass. S.U. 30.9.2009 n. 20935; Cass. 14.6.2013 n. 15019; Cass. 4.9.2014 n. 18683).

Allo stesso modo la Suprema Corte non ravvisa profili di contrasto con l’art. 6, par. 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo (cfr. Cass. Sez. Un. 25.2.2014 n. 4429) e l’applicazione dei principi affermati dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo nella sentenza del 4.3.2014 (caso Grande Stevens ed altri c/Italia) poiché la menzionata decisione è stata resa nell’ambito di una vicenda diversa rispetto a quella oggetto del caso in esame, che riguarda le sanzioni irrogate dalla CONSOB ai sensi dell’art. 187 ter TUF, in un caso di “manipolazione del mercato“.

Secondo la Corte di Cassazione le conclusioni cui è pervenuta la CEDU non possono estendersi al caso de quo, che afferisce a sanzioni amministrative pecuniarie irrogate dalla Banca d’Italia ai sensi dell’articolo 144 TUB per “carenze nell’organizzazione e nei controlli interni da parte dei componenti enti il Consiglio di Amministrazione “.

Il citato art. 144 prevede quale massimo edittale la somma di €. 129.110,00, che non può essere assolutamente comparata con quella di €. 5.000.000,00, prevista per le violazioni ex art. 187 ter TUF.

Inoltre, all’irrogazione delle sanzioni amministrative pecuniarie previste dall’art. 144 TUB non si accompagnano sanzioni accessorie quali quella della perdita temporanea dei requisiti di onorabilità o l’incapacità temporanea ad assumere incarichi di amministrazione, direzione e controllo nell’ambito di società quotate e di società appartenenti al medesimo gruppo di società quotate, né è prevista la confisca del prodotto o del profitto del l’illecito e dei beni utilizzati per commetterlo.

Gli Ermellini hanno, inoltre, ritenuto non meritevole di accoglimento la richiesta di rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia Europea in ordine all’interpretazione dell’ art. 41 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, poiché tale rimedio non è esperibile automaticamente a sola richiesta delle parti, ma spetta al giudice stabilirne la necessità.

Se il giudice ritiene, infatti, di essere in presenza di un acte claireche, in ragione dell’esistenza di precedenti pronunce della Corte, ovvero dell’evidenza dell’interpretazione, rende inutile il rinvio pregiudiziale.

Nel caso de quo il precetto dell’art. 41 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea che prevede che “il diritto di ogni individuo di essere ascoltato prima che nei suoi confronti venga adottato un provvedimento giudiziale che gli rechi pregiudizio” trova piena attuazione nella normativa nazionale che disciplina i procedimenti sanzionatori a cura della Banca d’Italia, che prevede la possibilità, per l’incolpato, di presentare le proprie deduzioni difensive e il quesito che il ricorrente intenderebbe sottoporre alla Corte di Giustizia non riflette la specifica fattispecie dedotta in giudizio; infatti, si ritiene che l’autorità procedente abbia effettuato contestazioni “ulteriori e diverse” rispetto a quelle originarie, senza che il ricorrente abbia fornito in concreto alcuna indicazione riguardo al contenuto delle nuove contestazioni asseritamente mosse nei suoi confronti.

La Corte di Cassazione ritiene priva di fondamento banche la doglianza relativa alla violazione, da parte del Direttorio, dell’obbligo di motivazione, per avere la delibera adottata richiamato “per relationem” la proposta della Commissione.

Più volte, infatti, gli Ermellini hanno enunciato il principio secondo cui al procedimento per l’irrogazione di sanzioni amministrative in materia bancaria e creditizia è applicabile l’art. 3 L. 241/90 e, conseguentemente, il decreto che applica la sanzione può essere motivato “per relationem”, mediante il rinvio all’atto recante la proposta di irrogazione della sanzione purché quest’ultimo sia richiamato nel provvedimento con la precisa indicazione dei suoi estremi e sia reso disponibile agli interessati, secondo le modalità che disciplinano il diritto di accesso ai documenti della pubblica amministrazione (cfr. Cass. 11.1.06, n. 389; Cass. 20.2.04, n. 3396).

Per ciò che attiene la violazione dell’art. 145, comma 10, del D. Lgs. 385/93 e la violazione dell’art. 27 Cost., che censura il decreto impugnato nella parte in cui non ha distinto gli addebiti contestati al Direttore Generale in relazione allo specifico rapporto organico con i diversi enti presso i quali il medesimo ha svolto il proprio incarico nell’arco di tempo in cui si sono svolti i fatti di causa, la Corte ha osservato che gli illeciti amministrativi presi in considerazione dal titolo VIII del TUB riguardano condotte consumate non da persone giuridiche, ma da parte di persone fisiche “qualificate” e che, simmetricamente, le sanzioni previste dal detto titolo del TUB sono indirizzate esclusivamente contro persone fisiche “qualificate”.

Secondo la Corte nel caso de quo non è ravvisabile alcuna violazione dell’art. 27 Cost., secondo cui la responsabilità penale è personale, perché il ricorrente, non è stato chiamato a rispondere per fatti commessi da altri, bensì per fatti propri.

Anche per ciò che attiene il terzo motivo di ricorso la Cassazione ritiene che l’operato della Corte di Appello sia immune da censure.

Ed infatti, correttamente ha ritenuto che il ricorrente sia stato sanzionato quale componente del Consiglio di amministrazione, e che la qualifica di direttore generale e la partecipazione al Comitato di controllo interno siano state, invece, considerate, al solo, fine della determinazione della entità della sanzione.

La Corte ha, inoltre, rilevato che le deduzioni svolte dal ricorrente per sostenere che lo stesso, nonostante la sua qualità di componente del Consiglio di amministrazione e Direttore generale, non aveva poteri specifici con riferimento al sistema del controllo interno ed alla normativa antiriciclaggio, si risolvono nella sostanziale richiesta di una valutazione delle risultanze processuali diversa rispetto a quella operata dalla Corte di Appello, che ha compiutamente esaminato la documentazione invocata dal Direttore generale a sostegno della sua tesi, escludendo, con motivazione priva di incongruenze logiche, che la stessa si presti all’interpretazione da questi propugnata e sollecitando l’esercizio di poteri di cognizione che non competono alla Corte di legittimità.
Da ultimo la Corte ritiene di non accogliere le doglianze mosse con riguardo alla mancata irrogazione della sanzione agli altri componenti del Consiglio di amministrazione, poiché il ricorrente è legittimato a contestare la legittimità della sanzione contro di lui irrogata, ma non anche a far valere la illegittimità della omessa irrogazione della sanzione nei confronti di altri soggetti che hanno consumato i suoi stessi illeciti.

Per le ragioni su esposte la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso.

Sentenza collegata

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Avv. De Luca Maria Teresa

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