La rilevanza della famiglia di fatto nell’ordinamento giuridico italiano, in particolare la risarcibilità del danno da morte del convivente

Redazione 21/05/01
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di Carla Ottonello

La Famiglia di fatto: nozione
Per famiglia di fatto si intende la convivenza stabile e duratura, con o senza figli, fra una donna e un uomo, che si comportano anche esternamente come coniugi, senza essere sposati.

Tale fenomeno, socialmente assai diffuso, di famiglia costituita senza l’atto formale del matrimonio, sorto con un atto di volontà privo di qualsiasi forma, si distingue nettamente sia da talune situazioni (matrimonio putativo, simulazione come vizio di volontà dell’atto di matrimonio), che presuppongono l’esistenza di un atto di matrimonio, seppure irregolarmente formato, sia dalla semplice coabitazione di persone fondata su motivazioni diverse (ospitalità, servizio o le c.d. comuni, in cui la convivenza è dovuta unicamente a motivi di carattere economico).

Dottrina e giurisprudenza si sono lungamente confrontate sulla rilevanza giuridica del fenomeno e sulla disciplina dei rapporti interni ed esterni del nucleo così composto, non esistendo una regolamentazione espressa e generale del fenomeno, ma solo un complesso articolato di norme di recente emanazione, prive di coordinamento, sparse e disorganiche che attribuiscono isolati effetti giuridici alla convivenza more uxorio, anche assai rilevanti, ma che sforzi interpretativi non riescono a ricomporre in un quadro normativo globale e coerente.

Referenti normativi
Norma fondamentale è l’art. 29 comma 1 Cost, che solennemente riconosce preminenza alla famiglia legittima: “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio”, articolo a lungo interpretato come confermativo del disinteresse dell’ordinamento verso tipi di organizzazioni familiari diversi dalla famiglia legittima.

Ma la concezione dell’assoluta irrilevanza giuridica del fenomeno, sotto la spinta della diffusione sociale del medesimo, è tuttavia stata oggetto di riconsiderazione da parte di chi, pur riconoscendo la diversità delle situazioni, ha proposto una nozione di famiglia di fatto come di modello familiare alternativo alla famiglia legittima, sforzandosi di rinvenire in altri dati normativi un riferimento alla stessa, sia pure diretti alla tutela del singolo membro e non dell’intero fenomeno.

L’art. 2 Cost. è stato ritenuto un referente certo: di sicuro il tipo di organizzazione familiare in parola rappresenta una formazione sociale nucleare, in cui l’individuo svolge la propria personalità.

Dal dettato della norma costituzionale, nella famiglia di fatto, non meno che nella famiglia legittima e che nelle altre comunità di persone, l’ordinamento garantisce i diritti fondamentali dell’individuo, in particolare del coniuge o della prole.

Medesime osservazioni scaturiscono da un’altra disposizione, l’art. 30 Cost., che prevede il diritto-dovere dei genitori di mantenere, educare, istruire i figli, anche se nati fuori del matrimonio e dunque indipendentemente dal loro status di legittimi, e l’art. 31 Cost., con il quale si richiama il legislatore ad un impegno attivo nel sostegno della famiglia, senza alcuna distinzione fra quella legittima e di fatto.

Nella legislazione ordinaria si segnala l’art. 317 bis comma 2 cc: parte della dottrina ritiene che l’affermazione che i genitori naturali, se conviventi, esercitano congiuntamente la potestà sul figlio, rappresenti un univoco riconoscimento della piena rilevanza giuridica della famiglia di fatto, anzi, si ritiene che dalla equiparazione fra prole legittima e naturale discenda ex se il riconoscimento del modello familiare non fondato sul matrimonio in cui essa viene allevata.

Tale teoria, tuttavia, si espone a critiche molto penetranti: in primis, l’art. 317 bis cc richiede per l’esercizio congiunto della patria potestà la mera convivenza con il figlio, e non che i genitori convivano more uxorio: in sostanza, la norma sarebbe applicabile anche a quelle comunità sopra indicate, che, pure, ben si differenziano dalla famiglia di fatto.

Inoltre, si osserva, che anche la disciplina codicistica non regola il fenomeno nel suo complesso, ma in particolare, l’art. 317 bis cc, esclusivamente il rapporto di filiazione, essendo scaturita da esigenze di tutela del figlio. Onde, rilevanza della filiazione naturale non significa rilevanza della famiglia di fatto.

Al di fuori del codice civile vi è un complesso di norme recenti, che attribuiscono isolati effetti giuridici alla convivenza more uxorio, anche assai significativi: si segnalano le materie dell’anagrafe, socio-assistenziale, fiscale.

Per cui, dal complesso normativo che lambisce la famiglia di fatto, emerge un ampio spettro di rilevanza di tale modello familiare sotto varie angolazioni: le principali sono il rapporto con i figli, il rapporto fra conviventi e il rapporto con i terzi.

Rapporti con i figli
Come anticipato, la riforma del diritto di famiglia, avvenuta con L. 151/75, che ha introdotto l’art. 317 bis cc, ha determinato la equiparazione del rapporto genitori-figli nella famiglia di fatto rispetto a quella legittima. Tale assimilazione riguarda non solo la sfera personale (guida, custodia), ma anche quella patrimoniale (amministrazione del patrimonio, rappresentanza, usufrutto legale sui beni del minore): la sfera di poteri-diveri è attribuita indifferentemente ai genitori, sia quelli legittimi, sia quelli non uniti in matrimonio.

Rapporti fra i conviventi
Partendo dalla formazione della comunità familiare, si è già detto che essa non ha alla base l’atto di volontà formale rappresentato dal matrimonio.

Onde, non è applicabile la disciplina relativa al matrimonio, alle sue cause di invalidità, che non hanno alcuna rilevanza impeditivi della convivenza.

L’art. 143 cc enuncia i diritti e i doveri dei coniugi: fedeltà, assistenza morale e materiale, collaborazione, coabitazione, contribuzione: si discute sull’applicabilità della disposizione alla famiglia di fatto.

Lo esclude chi sottolinea che il carattere di stabilità della convivenza more uxorio lascia immutato il principio rebus sic stantibus, onde gli atti di solidarietà reciproca fra familiari di fatto in costanza di convivenza, alla base dell’esistenza del modello familiare, non sono coercibili.

Tuttavia, nell’esigenza di tutelare il coniuge di fatto debole, si è ricorsi alla categoria giuridica delle obbligazioni naturali, disciplinate dall’art. 2034 cc: si tratta di un dovere morale e sociale, che trova il suo fondamento nella rilevanza attribuita socialmente alla famiglia di fatto, assistito dalla soluti retentio, unica garanzia assicurata al coniuge debole, sebbene condizionata alla volontà del coniuge forte di adempiere spontaneamente.

Maggiore garanzia è assicurata da chi, attraverso una ricostruzione dell’istituto fortemente ideologizzata, ritiene che anche la famiglia senza matrimonio dia vita ad una comunione di vita e di affetti, onde gli impegni reciproci dei coniugi diventano più significativi e rilevanti, seppure non giuridicamente previsti, in quanto conditio sine qua non di esistenza della stessa comunità di fatto. Si rileva, infatti, che se l’inosservanza degli obblighi tipizzati potrebbe non comportare ex se il venir meno della famiglia legittima, che si scioglie solo nei casi tassativamente previsti, nella famiglia di fatto comporta ipso iure il venir meno della convivenza more uxorio (si pensi all’allontanamento dalla casa familiare, che comporta inesorabilmente la estinzione della famiglia di fatto).

Su un punto vi è concordia di opinioni, che resta tale nell’affermazione dell’inapplicabilità al fenomeno in parola del regime patrimoniale della famiglia fondata sul matrimonio, essendo espressamente e dettagliatamente disciplinato solo per questa.

Tale convinzione spiega significativi effetti soprattutto nell’ipotesi di cessazione della convivenza more uxorio, perché esporrebbe il convivente che avesse contribuito con le proprie risorse economiche e non alla formazione del patrimonio familiare al rischio di denegata tutela.

In tal caso, con soluzione pur criticata, ma unica de iure condita, si ammette l’esperibilità dell’azione di ingiustificato arricchimento, istituto residuale e generale in tema di obbligazioni, non specifico del diritto matrimoniale.

Naturalmente, nulla vieta che i familiari stipulino una convenzione, costituente un vero e proprio contratto atipico con cui autoregolamentare i propri rapporti, eventualmente anche rinviando al regime patrimoniale codicistico della famiglia.

Continuando nella descrizione dello svolgimento della convivenza more uxorio, in tema di cessazione della famiglia di fatto, essa cessa per morte di uno dei membri o per atto di volontà di uno o di entrambi diversamente dal procedimento di separazione o divorzio, nella specie non occorre alcun provvedimento giurisdizionale, né alcuna formalità.

Taluno ipotizza una sorta di risarcimento, o, meglio un indennizzo per il soggetto economicamente più debole, in ragione dell’attività prestata, del contributo fornito al menage familiare di fatto, delle occasioni di lavoro eventualmente perdute.

Tuttavia, essendo tale opzione priva, finora, di qualsiasi riscontro giurisprudenziale, è preferibile il ricorso all’azione per ingiustificato arricchimento di cui sopra.

In tema di rapporti mortis causa fra conviventi, la Corte di Cassazione, con sent. 310/89 ha escluso l’assimilazione del convivente al coniuge ex art. 3 Cost.: il riconoscimento della convivenza more uxorio come titolo di vocazione legittima all’eredità contrasta con la tipicità e tassatività delle categorie di successibili, peraltro individuate in base a rapporti giuridici certi ed incontestabili (quale quello di coniugio). Senza contare che se è vero che la famiglia di fatto rientra tra le formazioni sociali non ignorate a livello costituzionale -art. 2-, il diritto a succedere mortis causa non rientra fra quelli inviolabili, essendo lasciata ampia discrezionalità al legislatore nella regolamentazione del fenomeno successorio ab intestato, ex art. 42 comma 4 Cost.

Rapporti con i terzi
Al convivente, non titolare dello status di coniuge, che presuppone imprescindibilmente l’atto matrimoniale, l’ordinamento riserva una disciplina, sia pure frammentaria, traendo dalla sola presenza di situazioni concrete alcune conseguenze giuridiche imposte da ragioni di responsabilità personale e sociale, corrispondenti talora a quelle derivanti dal vincolo familiare, senza però riconoscere la situazione in sé come valore sociale da regolare e proteggere nella sua globalità.

Fra le altre previsioni, la successione nel contratto di locazione e nel relativo rapporto, dapprima negata dalla Corte Costituzionale (sentt. 45/80 e 128/80), che accoglieva la concezione della convivenza more uxorio come mero rapporto di fatto privo dei caratteri di stabilità e certezza nascenti solo dal matrimonio ed in ambito della famiglia legittima, è stata successivamente ammessa. La Corte, mutando atteggiamento, ha dichiarato illegittimo l’art. 6 della L. 392/78 nella parte in cui non prevede la successione nel contratto di locazione per il coniuge di fatto superstite (così la sent. 404/88), nonché nella parte in cui non prevede la successione nel contratto al conduttore che abbia cessato la convivenza abbandonando la casa paraconiugale goduta in locazione, del già convivente quando vi sia prole naturale.

Si è ritenuto, sia pure con varie oscillazioni, che l’esistenza della famiglia di fatto non sia irrilevante nella determinazione dell’an e del quantum dell’assegno a carico o a favore del coniuge separato o divorziato. Sull’an si sostiene che in costanza di convivenza si determinerebbe una sorta di quiescenza del diritto a ricevere l’assegno, il quale riprenderebbe la sua efficacia una volta cessata la comunità familiare di fatto.

Sul quantum, se ad essere obbligato alla corresponsione è il convivente, si deve tener conto della somma che egli già destina alla contribuzione nell’organismo fattuale cui partecipa: se invece il convivente è il beneficiario dell’attribuzione, non può ignorarsi quanto riceve dal partner: significativo non è il rapporto more uxorio in sé e per sé considerato, ma l’aiuto economico prestato e ricevuto e la sua continuità, pur al di fuori degli obblighi di legge.

I vari interventi, frammentari, sono criticati da coloro che auspicano una regolamentazione globale del fenomeno modellato sulla famiglia legale, ma pienamente giustificati da coloro che rifiutano un tale intervento legislativo paventando la creazione di una famiglia di serie B rispetto a quella fondata sul matrimonio.

Invero, questi ultimi pongono l’accento sulla circostanza che se i conviventi hanno scelto di non contrarre matrimonio, ciò corrisponde alla libera volontà di non sottostare alla dettagliata disciplina dettata in sede di famiglia legittima, onde qualsiasi intervento che volesse imbrigliare una situazione di fatto così creata snaturerebbe la scelta autonoma dei soggetti. D’altra parte, si fa notare, la frammentazione che caratterizza la disciplina del fenomeno -in quanto il legislatore interviene solo laddove le esigenze di tutela del singolo sono ritenute prevalenti sulla libertà dei conviventi- fa emergere con certezza la rilevanza giuridica della famiglia di fatto, onde si ritiene superfluo un intervento del legislatore.

Risarcimento del danno da morte del convivente
Una ultima considerazione riguarda il tema della risarcibilità del danno da morte del partner.

Pacifico è il diritto al risarcimento del danno morale ex art. 2059, riconosciuto anche dalla Corte Costituzionale, nella sent. 372/94, per il pretium doloris patito dal partner di fatto superstite, di cui è innegabile il rapporto particolarmente intenso con il defunto e la posizione differenziata rispetto ai terzi. Diversamente, non vi è concordia di opinioni sulla risarcibilità del danno patrimoniale a vantaggio del convivente superstite e a carico del terzo che abbia causato illecitamente la morte del compagno.

La giurisprudenza ha affermato che per l’art. 2043 cc. Danno risarcibile è quello che si verifica per la lesione di un diritto, onde chi pretende di essere risarcito del danno derivategli dalla morte della persona con cui conviveva e da cui riceveva mantenimento o altri vantaggi o prestazioni in genere, deve anzitutto dimostrare il suo diritto alle prestazioni del defunto, diritto che può discendere dalla legge, o avere il suo titolo in una particolare convenzione, non essendo sufficiente la prova della mera convivenza more uxorio.

Invero, si nega che il risarcimento sia dovuto solo in virtù del cespite economico che è venuto a mancare, perché questo esisteva solo in virtù della famiglia di fatto, al cui interno il dovere di mantenimento fra i membri si configurava come mera obbligazione naturale incoercibile.

Tuttavia, si propende per l’ammissibilità e la rilevanza decisiva della prova della stabilità delle contribuzioni ricevute in vita dal defunto ai fini del diritto al risarcimento.

Si nota, infine, che sulla scorta della recente, innovativa rilettura dell’art. 2043 cc e del danno ingiusto in esso previsto ai fini risarcitori, come danno non solo per lesione del diritto soggettivo, ma di qualsiasi situazione giuridica differenziata, riconosciuta e tutelata dalla legge (si pensi alla tutela aquiliana dei diritto di credito e alla risarcibilità per compressione degli interessi legittimi, anche pretensivi ad opera della pubblica amministrazione), si sono aperti nuovi orizzonti e nuove garanzie di tutela anche patrimoniale a vantaggio del partner sopravvissuto, anche in virtù della esaminata, incontestabile seppure frammentaria, rilevanza giuridica della famiglia di fatto.

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