La rilevanza dell’analisi costi–benefici rispetto alla introduzione dell’azione collettiva risarcitoria in Italia.

Stazi Claudia 24/01/08
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Al fine di trovare una risposta alla questione concernente l’opportunità di introdurre una forma di tutela collettiva risarcitoria nel nostro ordinamento non si può prescindere da un’analisi economica dei costi-benefici con riferimento, in particolare, ad alcune varianti[1].
A tale scopo occorre, innanzitutto, operare una valutazione circa l’entità dei benefici e dei costi derivanti dalla introduzione dell’azione collettiva risarcitoria, per poi giungere ad una considerazione della idoneità dei primi a compensare i secondi, cui deve seguire l’individuazione di una configurazione appropriata dell’istituto in esame che consenta di ridurre se non eliminare i costi suddetti.
Analizzando in primis gli effetti negativi che l’introduzione di tale istituto porta con sé, emerge come uno dei rischi maggiormente paventati, in quanto più immediatamente percepibile, sia quello legato all’impatto che un sistema simile avrebbe sulla competitività delle imprese italiane. Esse stanno oramai da tempo approfondendo questo tema, cercando di valutare gli effetti in termini economici e, più in generale, di competitività del sistema, che deriverebbero dall’introduzione dell’azione collettiva risarcitoria in Italia; ciò anche sulla base dell’esperienza concreta maturata negli ordinamenti giuridici in cui tale istituto trova già applicazione[2].
I risultati di tale studio non sono confortanti. Come riportato da un articolo pubblicato di recente sul Financial Times, i costi per le imprese statunitensi derivanti dalla proposizione di azioni di classe sono cresciuti in maniera considerevole negli ultimi anni (da 150 milioni di dollari nel 1995 a 3,5 miliardi di dollari nel 2005)[3]. Ciò a detrimento non soltanto delle imprese condannate a risarcire i danni, ma anche, più in generale, della competitività del sistema americano e della sua capacità di attrarre investimenti stranieri.
Si deve, ancora, tener conto delle conseguenze che l’introduzione della possibilità di esperire l’azione collettiva genera nel nostro Paese con riferimento ad un’altra variante, la collettività. La possibilità di esperire un’azione collettiva di tipo risarcitorio, come risulta dall’analisi dell’esperienza statunitense, genera indubbi vantaggi per i soggetti danneggiati; inoltre essa comporta dei benefici per la collettività nel suo complesso in virtù dell’effetto di deterrenza nei confronti delle imprese che possono essere dissuase dal porre in essere comportamenti illeciti, nella prospettiva dell’elevato onere che potrebbe loro derivare in seguito all’esperimento di un’azione collettiva risarcitoria.
Tuttavia, come evidenziato da parte della dottrina, accanto ai benefici illustrati, possono prodursi altresì dei costi per la collettività. In particolare, è stato evidenziato come il rischio per le imprese di doversi difendere da cause giudiziarie particolarmente onerose, possa dar luogo ad un fenomeno di aumento generalizzato dei prezzi di beni e servizi. Al fine di scongiurare il prodursi di danni, difatti, le imprese potrebbero essere indotte ad effettuare più collaudi ed esami sui prodotti, e questa circostanza naturalmente andrebbe ad incidere sui costi di produzione facendoli lievitare[4].
Vi è, pertanto, il timore che buona parte di questi extra-costi sia traslata sui consumatori, con il risultato di un possibile generale incremento dei prezzi di tutti i beni di largo consumo. Sembra opportuno, dunque, delineare una scala di priorità e interrogarsi sulla volontà di introdurre un meccanismo che assicuri prodotti più sicuri per tutti e l’effettività della tutela per i singoli danneggiati quando a ciò corrisponda un incremento generalizzato dei prezzi al consumo.
Nell’analisi qui condotta sul rapporto tra costi e benefici, nell’ottica della introduzione dell’azione collettiva risarcitoria in Italia, vi è un altro profilo da tenere in considerazione. A ben considerare, quando vi sia una pur minima probabilità per l’impresa convenuta di essere condannata al pagamento di un risarcimento estremamente elevato, questa, anche a fronte di domande di dubbia fondatezza, potrebbe considerare conveniente transigere la controversia[5], ciò al fine di evitare un processo che in ogni caso avrebbe delle ripercussioni sulla visibilità dell’impresa, con probabili ricadute sui rapporti commerciali e, nel caso in cui si tratti di società quotata, sulla quotazione di borsa.
Per evitare queste conseguenze, le imprese potrebbero essere indotte a risolvere rapidamente la vicenda, giungendo a stipulate transazioni altresì nell’ipotesi in cui un epilogo negativo per l’impresa convenuta non sia soltanto probabile, ma anche semplicemente possibile. Ciò comporterebbe un costo ingente per le imprese interessate, le quali potrebbero orientarsi a traslare sui consumatori finali il costo sostenuto in occasioni di transazioni giudiziali anche al fine di far fronte al cosiddetto “legalized blackmail” (ricatto legalizzato). Si fa riferimento con tale locuzione al fenomeno legato all’esperimento di azione collettive meramente pretestuose al fine di indurre l’impresa convenuta a concludere brevemente la vicenda, accettando di transigere anche in caso di domande di dubbia fondatezza, pur di evitare un processo che potrebbe concludersi con la condanna dell’impresa convenuta al pagamento di un risarcimento ingente e che comunque avrebbe delle ripercussioni negative sull’immagine e la visibilità all’esterno dell’impresa, conseguenza questa inevitabile quando si trovi coinvolta in un procedimento giudiziario.
A fronte di queste considerazioni, emerge con particolare evidenza l’esigenza di introdurre dei meccanismi che eliminino o comunque riducano il fenomeno suddetto, evitando che un istituto introdotto al fine di agevolare l’accesso alla giustizia a consumatori e utenti venga strumentalizzato, e diventi funzionale alla realizzazione di pratiche ricattatorie nei confronti delle imprese italiane.
         La scelta del nostro legislatore di prevedere un controllo sull’ammissibilità dell’azione collettiva da parte dell’autorità giudiziaria costituisce un valido strumento per evitare la proposizione di azioni collettive meramente pretestuose[6].
La legge Finanziaria 2008, che introduce e disciplina l’azione collettiva risarcitoria mediante la previsione dell’inserimento dell’art. 140bis all’interno del Codice del Consumo, prevede che il tribunale, alla prima udienza, dopo aver sentito le parti e aver assunte, quando occorre, sommarie informazioni, si pronunci sull’ammissibilità della domanda[7]. Si è voluto, in tal modo, arginare un probabile aumento esponenziale delle azioni collettive meramente pretestuose.
 


[1] Per una ricostruzione storica sull’evoluzione della teoria dei costi-benefici e per un approfondimento sulla tematica concernente l’analisi costi-benefici, v.: F. TURCHI, Elementi di economia per l’analisi costi-benefici, Franco Angeli, Milano, 2003, p. 83 ss., ove l’A. chiarisce che l’analisi costi-benefici è il complesso di regole destinate a guidare le scelte tra ipotesi alternative. Si simula di scegliere un progetto sulla base di benefici che riceveranno alcuni soggetti (gainers), e di compensare coloro che invece potranno essere danneggiati (losers). Cfr. anche: A. GRAZIANI, Introduzione, in Aa.Vv., Lezioni di analisi costi-benefici, Strumenti Formez, n. 3, Napoli, 1987, p. XI. Per una prospettiva internazionale,cfr.:K.K: DOMPERE, Cost-benefit analysis and the theory of fuzzy decisions: identification and measurement theory, Berlin, Springer, 2004, p. 26 ss..
[2] Per un approfondimento sull’evoluzione dello strumento processuale della class action nell’ordinamento statunitense, v.: MULHERON,The class action in Common Law Legal System: a Comparative Perspective, in Hart Publishing, Portland Oregon, Oxford, 2004, p. 3; cfr. altresì: ALRC Report (Australian Law Reform Commission), Access to the Courts–Class Actions (DP No 11, 1979); GIUSSANI, Studi sulle class actions, Padova, 1996, p. 5; si veda, ancora, GIUGGIOLI,Class action e azione di gruppo, in Quad. Riv. Dir. Civ., 2006, p. 78.
[3] P. MONTAGNON, The cost to Europe of America’s Class Action Addiction, in Financial Times, 5 gennaio, 2007.
[4] Cfr. S. BOCCALATTE, Class action all’italiana, in Briefing Paper, dell’Istituto Bruno Leoni, 2005.
[5] Un recente studio ha rilevato che tutte le class actions derivanti da illeciti extracontrattuali di massa si sono concluse con accordi transattivi, in proposito si veda: PRIEST,Economics of Class of Class Action, in 9 Kansas Journal of Law and Public Policy, 1989, p. 481. Ancora, un’indagine sulle class actions nel settore finanziario ha stimato che l’87,6% delle stesse avviate tra il 1988 e il 1996 è terminato con una transazione, v.: O’BRIEN, A study of Class Action Securities Fraud Cases 1988-1996, Emeryville, (CA), p. 16.
 
[6] Nella decisione di prevedere un vaglio di ammissibilità da parte del giudice ha, senza dubbio, svolto un ruolo centrale il modello nordamericano di class action, ove è appunto previsto un controllo di ammissibilità da parte dell’autorità giudiziaria. Cfr. la Rule 23 delle Federal Rules of Civil Procedure (1) (A),ove è precisato che:“At an early practicable time after a person sues or is sued as a class representative, the court must determine by order whether to certify the action as a class action”.
[7] Cfr. l’art. 2, commi 446-449 della legge 24 dicembre 2007, n. 244, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 300 del 28/12/07.

Stazi Claudia

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