La responsabilità dei capi dell’organizzazione criminale per i singoli reati commessi dagli appartenenti all’associazione

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Il discusso rapporto con il principio di personalità. Spunti critici.

Il principio di personalità della responsabilità penale: riflessioni.

Com’è noto, il principio di personalità costituisce una garanzia fondamentale, conquista del diritto penale moderno. L’art. 27 della Costituzione italiana dispone espressamente, al suo I comma, che la responsabilità penale è personale, sicché l’addebito penale può essere mosso soltanto al soggetto agente, che con la sua azione od omissione sia personalmente responsabile del fatto criminoso.

Tuttavia, in passato, l’articolo in parola veniva interpretato nel senso che, ferma restando l’esclusione delle fattispecie di responsabilità per fatto altrui, erano ritenute con esso compatibili le cosiddette responsabilità oggettive, nelle quali si prescindeva dall’accertamento del coefficiente psichico .

La riportata ricostruzione è stata progressivamente smontata, pezzo per pezzo, in ragione di una lettura sistematica dell’art. 27, per mezzo della quale è stato a questo attribuito un contenuto dai significati moderni. In particolare, il principio di personalità della responsabilità penale, necessariamente collegato al principio di colpevolezza e materialità, deve essere inteso nell’accezione di “responsabilità per fatto proprio colpevole”.

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Non di meno, continuare a porsi nell’ottica dell’esistenza di una responsabilità oggettiva, in ambito penale, avrebbe significato non attribuire la giusta valenza ai principi di offensività e materialità, i quali impongono che l’offesa sia esteriorizzata e idonea a ledere il bene giuridico tutelato dalla norma violata. Al contrario, la responsabilità oggettiva, prescindendo dall’accertamento dello status soggettivo, non consente il collegamento con i principi de quibus, giacché l’offesa è come se rimanesse su di un piano squisitamente interiore.

A titolo esemplificativo, basti pensare all’art. 584 c.p., rubricato “omicidio preterintenzionale”, il quale, reinterpretato alla luce dei principi costituzionali, non può più essere definito come una fattispecie di responsabilità oggettiva. Discende che, con specifico riferimento alla norma richiamata, l’evento più grave e non voluto non è attribuito in assenza dell’elemento soggettivo, poiché è necessario che la morte, causata dalle lesioni o dalle percosse, sia stata quanto meno prevedibile e prevenibile. Medesima ricostruzione è stata operata, altresì, in materia di concorso, nell’ipotesi di cui all’art. 116 c.p., in cui il reato diverso rispetto a quello voluto da taluno dei concorrenti, viene a quest’ultimo attribuito, non solo in presenza della mera causalità materiale, ma anche in ragione della causalità psichica. Quanto osservato, rende evidente il definitivo passaggio ad una responsabilità per fatto proprio colpevole .

Può osservarsi come il ripudio di fattispecie di responsabilità oggettiva, sul piano penale, sia facilmente giustificabile mediante un rinvio al diritto civile. In effetti, l’ordinamento civile è governato da principi e ragioni diverse da quelle che governano il diritto penale, soprattutto perché, in quest’ultimo caso, è la libertà personale che viene ad essere incisa profondamente, laddove, nel primo caso, si tratta, piuttosto, di tutelare i privati, le loro esigenze economiche e la loro sfera patrimoniale. Da ciò consegue che, in materia civile, è, senza dubbio, giustificata la presenza di responsabilità oggettive, stante l’esigenza di allocare il danno sul soggetto che, più di altri, avrebbe potuto impedire l’evento dannoso.

Dunque, la responsabilità penale non può essere attribuita, come lo era in passato, soltanto per mezzo dell’elemento oggettivo, dovendo essere sempre riscontrato il legame psicologico. Ciò, peraltro, si pone in perfetta linea di continuità con la circostanza in base alla quale, nell’ordinamento penale italiano, non vi è spazio per forme inespresse ovvero in re ipsa di dolo o colpa, in quanto l’elemento soggettivo non può, per l’appunto, ritenersi presunto .

Con riferimento, invece, ad altra forma di responsabilità, ritenuta incompatibile con il principio di personalità, ossia la responsabilità per fatto altrui , deve osservarsi che, nell’ordinamento penale moderno, non può configurarsi una responsabilità “da posizione”. Per meglio dire, un soggetto che rivesta una determinata posizione, anche di garanzia, può essere incriminato per il fatto commesso dai suoi “sottoposti” solo qualora vi abbia concorso ovvero laddove non abbia tenuto il comportamento diligente richiesto dalla legge. Paradigmatico, in questo senso, è l’art. 57 c.p., a mente del quale (…)il direttore o il vicedirettore responsabile, il quale omette di esercitare sul contenuto del periodico da lui diretto il controllo necessario ad impedire che col mezzo della pubblicazione siano commessi reati, è punito, a titolo di colpa, se un reato è commesso.
Discende che il direttore o il vicedirettore di un giornale non risponderà direttamente del fatto commesso dall’autore della pubblicazione, sempreché non abbia omesso di svolgere con diligenza un opportuno controllo.

La responsabilità dei capi dell’organizzazione criminale per i singoli reati commessi dagli associati: nodi interpretativi e spunti critici.

Non pochi dubbi interpretativi ha prodotto la possibilità o meno di attribuire ai capi delle organizzazioni criminali una responsabilità da “posizione” per i singoli reati commessi dai partecipanti.
Al fine di comprendere quale ricostruzione sia più coerente con il principio di personalità e con le esigenze politico-criminali, legate a siffatto tipo di reati, occorre, preliminarmente, analizzare la disposizione di cui all’art. 115 c.p., in forza del quale la mera istigazione a commettere un delitto è irrilevante se non accompagnata dalla effettiva commissione dello stesso. La norma de qua è il richiamo, più diretto, all’istituto del concorso morale ed è stato ritenuto espressione generale del principio di necessaria materialità del reato nonché norma a presidio dell’inconfigurabilità del tentativo di concorso. Discende che, come autorevole dottrina osserva , il contributo morale ex art. 115 c.p. può ritenersi sussistente nei casi in cui, tanto nel momento deliberativo del reato tanto in quello esecutivo, emerga una piena adesione del soggetto terzo, in termini di agevolazione nell’avanzamento dei momenti salienti di preparazione del reato.

Per meglio dire, il contributo morale atipico deve rivestire un’efficienza causale qualificata rispetto alla realizzazione del delitto.
Tuttavia, è il caso di rammentare che l’art. in oggetto si apre con una clausola di riserva (“salvo che la legge non disponga altrimenti”), la quale si riferisce a talune norme che puniscono i meri accordi, non portati ad esecuzione, allo scopo di tutelare interessi di particolare rilievo.

Ebbene, tra le fattispecie per le quali la legge dispone diversamente, vi sono gli artt. 416 c.p., “associazione a delinquere” e 416 bis, “associazione di tipo mafioso anche straniere”, che costituiscono esempi paradigmatici della volontà del Legislatore di colpire, sin dall’origine, i fenomeni associativi criminali, i quali creano una distorsione del diritto contemplato dall’art. 18 della Costituzione, ossia la libertà associativa.

Entrambe le tipologie di associazione, infatti, sono punite in quanto tali, nel senso che il pactum sceleris costituisce l’elemento oggettivo sufficiente per incriminare i soggetti che vi aderiscono. Ciò in ragione dei beni giuridici fondamentali, oggetto di tutela delle fattispecie incriminatrici de quibus, e senza che sia necessaria la commissione degli ulteriori delitti scopo oggetto del programma criminoso.

Con specifico riferimento all’oggetto della presente dissertazione, è opportuno precisare che i vertici dell’organizzazione – coloro che promuovono, costituiscono, organizzano l’associazione – sono puniti, per ciò solo, con un aspro trattamento sanzionatorio.

Epperò, allo scopo di evitare un “eccessivo giustizialismo”, è opportuno chiedersi in quali casi i soggetti di cui sopra debbano rispondere anche dei singoli reati commessi dagli associati in esecuzione del programma criminoso.
Una prima riflessione potrebbe agevolmente condurre a ritenere che i vertici dell’associazione criminale rispondano automaticamente anche dei singoli delitti scopo commessi da altri, in ragione della circostanza che il programma criminoso, cui i partecipanti hanno dato esecuzione, è stato realizzato dai capi dell’associazione medesima.
In poche parole, è come se si potesse individuare un ordine, sebbene implicito, impartito dai vertici ai partecipanti – legati all’associazione dal pactum sceleris e dall’affectio societatis – in forza del quale questi ultimi commettono i delitti oggetto del comando. Non sfugge come una simile ricostruzione sia suscettibile di porsi in contrasto con il principio di personalità che, come detto, deve essere letto quale attribuzione della responsabilità penale, non solo in presenza di una causalità materiale, ma anche laddove sussista il coefficiente psicologico. In assenza di quest’ultimo, infatti, si tornerebbe ad ammettere una forma di responsabilità “da posizione”.

Non di meno, la diretta attribuzione, ai capi dell’associazione, della responsabilità per i delitti scopo commessi dagli associati, creerebbe un vulnus dei principi di materialità e offensività, giacché cela forme di dolo in re ipsa e offese non sufficientemente esteriorizzate.
Peraltro, i reati associativi costituiscono un’autonoma incriminazione, poiché colpiscono il patto in sé, anticipando la soglia di punibilità. Discende che non sembra potersi ritenere sufficiente essere promotori ovvero organizzatori di un’associazione per rispondere anche dei singoli delitti commessi da altri, in quanto gli artt. 416 e 416 bis, c.p., hanno ad oggetto la tutela dell’ordine pubblico, messa in crisi dall’esistenza stessa del vincolo associativo. Pertanto, l’incriminazione per i singoli delitti scopo potrà essere attribuita ai vertici solo a seguito di un accertamento complesso, che tenga conto dell’esistenza di un’effettiva offesa al singolo bene giuridico tutelato dalla norma violata e dalla sussistenza dell’elemento soggettivo.

Solo a seguito della suddetta valutazione, i vertici potranno essere incriminati in forza del combinato disposto degli artt. 110 c.p. con la norma disciplinante il delitto scopo commesso. Dovrà, a questo punto, risultare un reale concorso del vertice dell’associazione con il partecipe, di stampo morale ovvero materiale, con la necessaria sussistenza del dolo di partecipazione.
Perciò, anche laddove l’associato abbia commesso il delitto scopo sulla base di un ordine ricevuto dal capo dell’organizzazione, dovrà, comunque, risultare, a livello probatorio, la partecipazione psichica di quest’ultimo alla commissione del fatto criminoso.

Siffatta ricostruzione pare porsi in armonia con la moderna interpretazione del principio di personalità.
La giurisprudenza penale si è occupata, a più riprese, della questione in esame, offrendo importanti spunti di riflessioni.
In particolare, gli interpreti hanno ribadito che “il ruolo di partecipe rivestito da taluno nell’ambito della struttura organizzativa criminale non è di per sé solo sufficiente a far presumere la sua automatica responsabilità per ogni delitto compiuto da altri appartenenti al sodalizio, giacché dei reati-fine rispondono soltanto coloro che materialmente o moralmente hanno dato un effettivo contributo, causalmente rilevante, all’attuazione della singola condotta criminosa”.

L’effettivo coinvolgimento del soggetto, avente un ruolo di rilievo all’interno dell’associazione criminale, cui venga addebitata la responsabilità per un delitto scopo, realizzato dagli altri partecipanti, deve essere provato “al di là di ogni ragionevole dubbio”, affinché risulti inconcepibile, cioè, che “l’accadimento considerato si verificasse in assenza dell’indicato coinvolgimento, e sempreché l’inferenza si spinga fino alla determinazione dello specifico contributo causale attribuito al partecipe”.

Basti pensare all’ipotesi di un attentato ad un personaggio che abbia un particolare rilievo istituzionale, commesso da un semplice partecipante all’associazione, il quale sia sprovvisto di poteri decisionali. In questa specifica ipotesi, risulta, altamente improbabile, che il soggetto in parola possa aver commesso il delitto in assenza di un effettivo e decisivo coinvolgimento del vertice dell’associazione cui il medesimo appartiene. In quest’ottica, un elemento dal quale poter inferire la prova del coinvolgimento effettivo del vertice di un’organizzazione, nella commissione di un delitto scopo, è, dunque, costituito dalla rilevanza del fatto posto in essere.

Conclusioni

Dalla breve analisi condotta emerge la fondamentale portata, in materia penale, del principio di personalità, il quale non può ritenersi sganciato dall’elemento della colpevolezza.
In effetti, se non fosse così interpretato, non potrebbe, di converso, giustificarsi neppure la funzione rieducativa della pena.

In particolare, se l’imputato fosse ritenuto responsabile, pur in assenza di un coefficiente psichico, non sarebbe in grado di comprendere la sanzione attribuitagli. Questa circostanza svuoterebbe di significato il senso della rieducazione e risocializzazione della pena.

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