La responsabilità degli enti in materia ambientale e i principi generali del d.lgs. n. 231/2001

Avitto Paolo 24/10/14
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Il d.lgs. n. 121/2011 che ha recepito le direttive europee sulla tutela penale dell’ambiente e sull’inquinamento provocato dalle navi (direttiva 2008/99/CE e direttiva 2009/123/CE), introducendo l’art. 25-undecies d.lgs. n. 231/2001, ed estendendo così la responsabilità amministrativa degli enti ai reati ambientali, rappresenta il punto d’arrivo di un percorso di ricerca degli strumenti di adeguamento al settore della tutela ambientale. Con il d.lgs. n. 121/2011 il tema dell’ambiente entra nella normativa del d.lgs. n. 231/2001, ma tale ingresso non è scevro da lacune e dubbi interpretativi. Esso costituisce una tappa dell’ulteriore estensione del sistema sanzionatorio introdotto dal d.lgs. n. 231/2001. Tale integrazione la si deve al recente recepimento, da parte del legislatore nazionale, delle direttive 2008/99/CE e 2009/123/CE.

I primi passi nell’ambito del diritto ambientale comunitario si sono avuti negli anni ’70, con una serie di piani pluriennali di azione, fondati sui dettati degli artt. 100 e 235 del Trattato di Roma (inerenti alla legislazione degli stati in materia ambientale e ai “poteri impliciti” dell’Unione europea). Dal 1986 si sviluppano i principi fondamentali della materia, come quello per cui “chi inquina paga”, confluito nell’art. 191 del TFUE (Trattato sul funzionamento dell’Unione europea), secondo cui la responsabilità primaria nel sopportare l’onere, anche economico, di ogni attività che può comportare danni ambientali, incombe sui soggetti privati.

Il recepimento della direttiva 2004/35/CE sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale è stata l’occasione per una razionalizzazione del sistema normativo ambientale nazionale. Tuttavia il d.lgs. n. 152/2006 ha frustrato tale aspettativa impedendo alle nuove fattispecie delittuose di poter essere annoverate nel catalogo dei reati presupposto della responsabilità amministrativa. La riprova di tale circostanza la si rinviene nell’art. 192, co. 4, d.lgs. n. 152/2006 che opera un richiamo alla responsabilità degli enti, senza specificare i requisiti necessari alla tipizzazione dell’illecito nonché le sanzioni a carico dell’ente.

Infine, l’introduzione dei reati ambientali nel catalogo dei reati presupposto ha dovuto attendere il tardivo recepimento della direttiva 2008/99/CE e della direttiva 2009/123/CE.

In particolare, la direttiva 2008/99/CE ha come caratteristica fondamentale il ricorso alla sanzione penale nella lotta alle violazioni ambientali, con l’imposizione agli stati membri, di adottare sanzioni penali effettive e proporzionate all’illecito posto in essere, nonché realmente dissuasive.

Di fondamentale importanza, ai nostri fini, è l’analisi dell’art. 6 della direttiva 2008/99/CE che estende le sanzioni alle persone giuridiche, quando le condotte siano state commesse a loro vantaggio da soggetti che detengano una posizione preminente o in quanto essi siano parte dell’organizzazione dell’ente.

A seguire, invece, l’Unione Europea ha introdotto la direttiva 2009/123/CE che ha modificato la direttiva 2005/35/CE sull’inquinamento dei mari, recepita dal legislatore italiano attraverso il d.lgs. n. 202/2007.

In realtà, il recepimento delle direttive in questione è avvenuto soltanto dopo due messe in mora da parte dell’Unione Europea, con l’entrata in vigore del d.lgs. n. 121/2011.

Ad una prima analisi, non si possono non rilevare numerose carenze e imprecisioni, legate alla tecnica legislativa, che creano vuoti di tutela e differenti trattamenti sanzionatori sia interni al sistema della responsabilità amministrativa degli enti sia esterni.

L’estensione della responsabilità amministrativa degli enti ai reati ambientali è avvenuta con l’introduzione dell’art. 25-undecies d.lgs. n. 231/2001, e quindi attraverso il rinvio alle fattispecie previste dalle leggi speciali, molte delle quali aventi natura contravvenzionale.

Le sanzioni di cui all’art. 25-undecies d.lgs. n. 231/2001 sono state strutturate avendo in considerazione l’art. 25-ter (reati societari) dello stesso decreto, l’unica disposizione che prevedeva la responsabilità degli enti con riferimento ai reati contravvenzionali.

Attraverso tale criterio si sono suddivise le condotte con sanzioni pecuniarie fino a 250 quote (per i reati sanzionati con l’ammenda o l’arresto – alternativo o congiunto all’ammenda – fino a un anno, o fino a due anni alternativamente alla sanzione pecuniaria), da 150 a 250 quote (per i reati con reclusione fino a due anni o con l’arresto fino a due anni solo o congiuntamente all’ammenda), da 200 a 300 quote per i reati sanzionati con pena detentiva (reclusione o arresto) fino a tre anni.

Relativamente alle ipotesi di reato in danno dell’ambiente ex d.lgs. n. 121/2011, è stata individuata una responsabilità degli enti di matrice colposa, o più chiaramente, per reati (contravvenzioni il più delle volte), in cui è indifferente l’elemento soggettivo del dolo o della colpa.

Da ultimo, occorre rilevare che il d.lgs. n. 121/2011 non contiene indicazioni espresse e specifiche su quali debbano considerarsi i destinatari delle nuove disposizioni in tema di responsabilità degli enti. Per poterli individuare, è necessario ricostruire il quadro generale desumibile dal d.lgs. n. 231/2001. In particolare, l’art. 1 d.lgs. n. 231/2001, stabilisce che la normativa della responsabilità degli enti si applica «agli enti forniti di personalità giuridica e alle società e associazioni anche prive di personalità giuridica».

L’introduzione di tale tipologia di responsabilità ha rappresentato un atto di rottura col passato, basti pensare alla pietra angolare del diritto penale classico, ovvero l’individuo, e al principio – evocato dal brocardo latino societas delinquere non potest – secondo cui la sanzione penale è forgiata esclusivamente per la persona fisica.

La questione attualmente più discussa, in ordine a tale responsabilità, resta quella relativa alla sua natura. La soluzione alla questione si presenta particolarmente ostica nonostante il legislatore si dimostri propositivo nell’art. 1, co. 1, d.lgs. n.

231/2001, sancendo che «il presente decreto legislativo disciplina la responsabilità degli enti per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato».

Le diverse questioni in materia possono essere accorpate in tre grandi filoni distinti: quello che riconosce validità alla qualificazione “amministrativa” sancita dal legislatore; quello che riconduce alla natura penalistica tale responsabilità; quello infine che ritiene che la responsabilità degli enti appartenga a un tertium genus.

Dalla concezione penalistica o amministrativa della responsabilità, infatti, discende la possibilità di ritenere vincolanti i principi costituzionali del diritto penale: il principio di legalità ex art. 25, 2° co., Cost. e il principio di colpevolezza ex art. 27 Cost., del diritto sostanziale; sul piano propriamente processuale, invece, si annoverano il principio del giusto processo ex art. 111 Cost. e quello dell’ obbligatorietà dell’azione penale ex art. 112 Cost.

Secondo la concezione amministrativa della responsabilità, invece, dovrebbe dedursi che spetterebbe alla l. n. 689/1981 integrare le lacune del d.lgs. n. 231/2001. In generale, le minoritarie argomentazioni che porterebbero a propendere per la natura amministrativa della responsabilità degli enti, sono rappresentate dal dictum legale dell’intitolazione del d.lgs. n. 231/2001 recante «disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica», il titolo del Capo I (responsabilità amministrativa dell’ente), nonché l’art. 1, co. 1, d.lgs. n. 231/2001, che si riferisce a illeciti “amministrativi” dipendenti da reato.

Sulla natura della responsabilità degli enti, infine, si è espressa anche la Suprema Corte, affermando che si debba considerare la responsabilità ex d.lgs. n. 231/2001 come un tertium genus, nascente dalla fusione della responsabilità amministrativa con i principi propri del diritto penale.

Infine, una consistente parte della dottrina ritiene che la responsabilità delle persone giuridiche non sia riconducibile a nessuno dei due modelli analizzati.

Avitto Paolo

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