La rescissione nei rapporti di diritto privato

Sgueo Gianluca 28/02/08
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1. Introduzione – 2. La rescissione del contratto unilaterale – 3. La rescissione del contratto preliminare ed il diritto di prelazione – 4. La rescissione del contratto elettronico – 5.1 La rescissione e l’art. 644 del codice penale – 5.2 Rescissione ed usura dopo l’emanazione della legge n. 108 del 1996 – 6. La rescissione del contratto di compravendita sospensivamente condizionato – 7. Conclusioni
 
1. introduzione
Questa ricerca presenta una serie di riflessioni tramite cui si tenterà di esplorare i problemi giuridici che sono pertinenti ad alcune ipotesi specifiche di rescissione attraverso un discorso che dal generale arrivi al particolare.
Non si avrà, tuttavia, una ricognizione dell’istituto nelle sue linee generali ma, piuttosto, una ricerca di problemi concreti che hanno riguardato – e spesso riguardano ancora – l’applicazione quotidiana del rimedio rescissorio.
 
2. La rescissione del contratto unilaterale
Conclusa questa breve premessa, è possibile iniziare la trattazione del primo problema, quello che riguarda il contratto unilaterale.
Per comprendere adeguatamente il problema è bene anzitutto svolgere una breve introduzione sul ruolo del consumatore nel codice civile. Ciò in quanto gli studi condotti dai giuristi in merito alla figura del consumatore fanno emergere la contraddittoria tendenza a privilegiare gli aspetti economico-sociali[1] che si legano a tale figura, piuttosto che quelli propriamente giuridici, in conseguenza di un diffuso errore di metodo per il quale si tende ad attribuire ad un concetto socio-economico una pretesa di originarietà o di precedenza rispetto al diritto puro e semplice[2].
Una simile impostazione, peraltro, è particolarmente accentuata nell’ordinamento italiano in ragione del “vuoto normativo” esistente intorno al consumatore, al quale non solo non fa menzione la Costituzione, ma di cui, inoltre, in ossequio al principio dell’irrilevanza delle qualità o degli status delle parti contraenti, non vi è stata traccia all’interno del codice civile per lungo tempo.
L’ingresso del termine consumatore nel vocabolario giuridico italiano è avvenuto in un secondo momento, in virtù di alcuni provvedimenti normativi emanati su sollecitazione dell’ordinamento comunitario[3], nei quali il consumatore viene indicato come la persona fisica che agisce per scopi estranei all’attività imprenditoriale o professionale eventualmente svolta. Persona che – aggiunge la definizione – nell’attività di contrattazione, per le particolari esigenze di tutela di cui è portatrice, deve essere destinataria di una disciplina differenziata rispetto a quella di diritto comune[4].
Alla luce delle modifiche introdotte nell’ordinamento italiano dalla normativa comunitaria, lo scopo seguito dal legislatore nel disciplinare il consumatore è progredito in modo semplice: lungi dall’introdurre un’eccezionale ipotesi di rilevanza dei motivi o moventi soggettivi delle parti, si è inteso configurare un collegamento funzionale (o strumentale) tra il bene, od il servizio, oggetto della prestazione, e l’attività di colui che di esso si rende acquirente.
In caso contrario – è stato notato in dottrina – qualora cioè non si prescindesse dall’indagine intorno allo scopo effettivamente perseguito, si giungerebbe al risultato paradossale di condizionare alla volontà delle parti l’applicazione della disciplina legislativa.
Ad analoghe conseguenze si perverrebbe, d’altro canto, qualora l’interprete, anziché fondare la propria indagine su criteri rigorosamente oggettivi, attribuisse rilievo alla dichiarazione con cui la parte afferma di agire per scopi professionali, piuttosto che per il soddisfacimento di esigenze familiari o domestiche. Una dichiarazione siffatta potrebbe, semmai, venire in considerazione sotto altri profili, tra cui quello dell’eventuale responsabilità del contraente che abbia violato l’affidamento ingenerato nella controparte in ordine alla possibilità di inserire o meno una certa clausola in un determinato contratto[5].
Ora, le lunghe riflessioni sin qui svolte non sono poste a caso. Esse si spiegano in ragione del fatto che la disciplina legislativa di cui s’è fatto cenno non è in grado di colmare tutti gli aspetti problematici che si legano alla tutela del consumatore. Ad esempio, l’applicazione del rimedio della rescissione, all’interno di un contratto unilaterale, è uno di quei temi che si presta ad assumere un rilievo problematico.
Da dove nasce questo problema? Se partiamo dal fatto che il contratto posto in essere dal consumatore viene interpretato dal legislatore italiano come un contratto di adesione troviamo una prima, significativa risposta. In altre parole, la disciplina legislativa, nello stabilire che non sono vessatorie le clausole che siano stati oggetto di trattativa individuale (ai sensi dell’art. 1469 ter, comma 4, del codice civile) considera l’assenza di negoziato individuale un presupposto di applicazione della disciplina in questione. Sicché, qualora l’elaborazione del regolamento contrattuale non sia attribuibile esclusivamente ad una delle parti, ed ancorché i contraenti siano qualificabili, sotto il profilo soggettivo, in modo corrispondente alla descrizione di cui all’art. 1469 bis c.c., comma 2, non può parlarsi di contratto del consumatore[6].
Una simile circostanza introduce una seconda domanda: quale tutela si predispone nel caso in cui, in assenza di negoziazione, si debba parlare di contratto unilaterale?
Va specificato a tale proposito che l’assenza di una qualche forma di trattativa individuale costituisce nel linguaggio del legislatore un sinonimo della nozione di “pre-disposizione unilaterale”, termine il cui suffisso “pre” vale a sottolineare il momento della pre-formulazione della clausola, da intendersi nel senso di “oggettiva preesistenza del regolamento contrattuale rispetto alla fase di conclusione dell’accordo”. Il nesso intercorrente tra il presupposto dell’assenza di negoziato e l’unilateralità della predisposizione, del resto, emerge in modo inequivocabile dall’analisi dell’art. 3, n. 2 della Direttiva comunitaria n. 93/13, in cui si statuisce che non è individualmente negoziata la clausola redatta preventivamente (in particolare nell’ambito di un contratto di adesione, una delle forme contrattuali più diffuse nella società modierna) sul cui contenuto il consumatore non sia stato in grado di esercitare alcuna influenza[7].
Non solo, a complicare le cose c’è il fatto che la mancanza di negoziazione costituisce una circostanza che può valere tanto in relazione all’intero contratto, quanto per una parte soltanto delle clausole contrattuali. Queste ultime, addirittura, così come possono costituire il risultato dell’attività di preformulazione della controparte del consumatore, possono venire predisposte da un terzo estraneo all’organizzazione imprenditoriale ed essere utilizzate dal professionista nelle stipulazioni con i singoli consumatori.
Ora, alla luce di questa problematica trasposizione della tutela del consumatore alle ipotesi di contratto unilaterale, esistono due possibili varianti. La prima è quella che fa riferimento all’attività di predisposizione unilaterale di cui all’art. 1469 bis, comma 4, c.c., inducendo a considerare l’accordo tra le parti come il risultato della fusione della proposta, preformulata dal professionista, con la dichiarazione di adesione proveniente dal consumatore. In altri termini, ricorrendo ad una sorta di escamotage, si sostiene che la disciplina che tutela il consumatore sia applicabile anche al contraente di negozio unilaterale, se non altro per ciò che attiene i rimedi civilistici per la presenza di un vizio nel negozio.
Diversamente, qualora cioè la differenza tra le due ipotesi risulti insormontabile resterebbe comunque applicabile lo strumento della rescissione[8].
Quanto detto, per quanto riguarda le questioni di ordine generale. Appurata dunque l’applicabilità del rimedio a tutela di qualsiasi contraente, sia esso rubricabile sotto la definizione di “consumatore” o meno, un secondo – ed ultimo – problema di grande rilievo attiene alla nozione di unilateralità, che si presta ad essere interpretata in modi diversi, e con diverse conseguenze in ordine all’offerta di modifica del vincolo contrattuale.
Partiamo dal presupposto, oramai noto, che gli artt. 1450 e 1467, terzo comma, del codice civile disciplinano l’offerta di modificazione del contratto. In particolare, com’è noto, l‘art. 1450 del codice civile prevede che: “Il contraente contro il quale è domandata la rescissione può evitarla offrendo una modificazione del contratto sufficiente per ricondurlo ad equità”.
L’art. 1467, terzo comma, poi, dispone che “la parte contro la quale è domandata la risoluzione può evitarla offrendo di modificare equamente le condizioni del contratto”. Ebbene, Il principale problema teorico, che la dottrina ha dovuto affrontare, è quello relativo alla natura dell’offerta. Dalla soluzione di questo problema dipendono, come corollari, le soluzioni di numerose questioni giuridiche[9].
Esistono due orientamenti: secondo un primo orientamento[10], l’offerta è un atto unilateralerecettizio che ha per destinatario l’attore. Il compimento dell’offerta costituisce dunque atto di esercizio di un diritto potestativo. Ebbene, offrendo una modificazione equa del contratto, il convenuto si sottrae alla soggezione alla pretesa avversaria. Pertanto se l’attore non aderisce, la giurisprudenza ritiene che occorra, al fine di impedire la operatività della pronuncia di risoluzione o di rescissione, che il giudice compia, sostituendosi alla parte destinataria dell’atto, una valutazione tecnica in ordine alla adeguatezza della prestazione offerta.
Un secondo orientamento qualifica l’offerta di modificazione del contratto come una proposta. Quest’ultima, tuttavia, costituirebbe il precedente logico (ovvero la causa petendi) di una “controdomanda” volta ad ottenere una sentenza costitutiva che modifichi il contratto in conformità dell’offerta equa. La “controdomanda”, secondo questa impostazione, è destinata ad operare solamente se l’attore non accetti la proposta[11].
Dunque, a ben vedere, anche qui il rimedio rescissorio si atteggia diversamente a seconda dell’interpretazione che gli autori e la giurisprudenza hanno inteso dargli. Nella seconda prospettiva interpretativa esso non trova posto, o ha una rilevanza solo secondaria, nel primo caso, invece, la rilevanza dell’utilizzabilità di detto criterio è fondamentale.
 
3.      La rescissione del contratto preliminare ed il diritto di prelazione
Anche la figura del contratto preliminare presenta alcuni aspetti interessanti riguardo alla rescissione.
Si deve ricordare, anzitutto, che la figura contrattuale ricorre in quei casi in cui, nel pervenire ad un accordo di contratto definitivo, le parti decidono di stipulare un c.d. contratto preliminare, con cui si obbligano a concluderne uno successivo, il cui regolamento di interessi è già stato predisposto nel preliminare.
E’ peraltro sempre possibile che i contraenti integrino o modifichino direttamente con il definitivo gli accordi raggiunti con il preliminare, senza che, al riguardo, sia necessario un distinto accordo. La modificazione non è però implicitamente deducibile dalla mancata conformità del contenuto del definitivo al preliminare.                         Dunque, ciò che caratterizza il contratto preliminare è che da esso discende un’obbligazione di facere incoercibile ed infungibile, consistente nella prestazione del consenso per la conclusione di un successivo contratto i cui effetti tipici si produrranno solo se e dal tempo in cui il contratto definitivo sarà stipulato[12].
Uno dei problemi principali che riguarda il contratto preliminare è quello inerente la disciplina dei vizi che che possono inficiarlo. Difatti, a differenza di un qualsiasi contratto definitivo, nel preliminare non rileva la produzione degli effetti tipici, ma, semmai, la conclusione del successivo contratto definitivo[13]. Questo significa che, qualora il definitvo venga concluso in modo corretto, si sanano automaticamente i vizi del preliminare.                                     
In altri termini, nell’ipotesi di nullità del preliminare, se le parti erano a conoscenza dell’esistenza del vizio, il vizio sarà irrilevante. Il problema sorge semmai nel caso in cui le parti ignorassero il vizio. A tale proposito gli autori si dividono: secondo alcuni, fautori della tesi dell’autonomia, il contratto definitivo è da considerarsi comunque valido; Secondo i fautori della tesi dell’adempimento, invece, il contratto definitivo deve considerarsi comunque nullo, venendo a mancare l’obbligo a contrarre[14].
Sono i fautori della prima delle due tesi[15] a sostenere che è esperibile semmai l’azione di rescissione per lesione, una volta che sia decorso il termine annuale (dalla data di stipulazione del preliminare) di prescrizione che fissa l’art. 1449 del codice civile, poiché, si sostiene, solamente con la stipula del definitivo o con l’azione giudiziale per l’esecuzione specifica sorgerebbe in concreto un’ipotesi di lesione. Così come, si aggiunge, l’eccessiva onerosità sopravvenuta e l’impossibilità sopravvenuta rispetto a quanto pattuito nel preliminare andrebbero valutate al tempo della conclusione del definitivo[16].
 
4.      La rescissione del contratto elettronico
Molto interessante, ma anche ricca di spunti problematici, è la disciplina delle ipotesi di inefficacia del contratto telematico[17].
Nella legislazione speciale opera una precisa partizione: da un lato stanno le leggi che disciplinano i requisiti di forma degli strumenti informatici e telematici ed il commercio elettronico; dall’altro quelle che governano invece aspetti di contenuto.
Mentre le prime si legano specificamente allo strumento usato, le seconde – dedicate ai rapporti di sub-fornitura tra imprese, o alla contrattazione a distanza con i consumatori – non si presentano specificamente come leggi sul contratto telematico.
Il fatto che il legislatore, quando ha disciplinato specificamente lo strumento informatico e telematico, si sia soffermato esclusivamente sulla forma e non anche sul contenuto del contratto, vuol evidentemente dire che non ha ritenuto scontata l’equivalenza del linguaggio informatico al parlato ed allo scritto, o il valore di documento del “documento elettronico” ed ha percepito la necessità di stabilire attraverso precise scelte i requisiti formali di validità della negoziazioni che se ne avvalgono; mentre non gli è parso indispendabile, almeno in quel contesto, preoccuparsi della sostanza dei rapporti negoziati.
Al contrario, ed inversamente, il fatto che ci si preoccupi espressamente dei contenuti contrattuali nella contrattazione fra imprenditori (ovvero nella contrattazione fra imprenditori e consumatori) quando impiegano le nuove tecnologie, dimostra che il legislatore, sempre attento a che l’autonomia privata sia esercitata correttamente, ha sinora collegato questa preoccupazione non tanto allo strumento, sebbene corrente nei fenomeni considerati, quanto alle qualità soggettive delle parti, al valore economico dei loro rapporti[18], all’indebolimento da fenomeni come la distanza, in ragione della loro incidenza sulla razionalità degli scambi[19]. Ebbene, quali forme di tutela si pongono nei confronti di simili ipotesi?
Ragioni di ordine pubblico e soprattutto di ordine pubblico economico, richiedono in questi casi, anzitutto, quelle nullità di protezione che alla mera tutela del singolo contraente debole uniscono, per il carattere largamente collettivo della posizione individuale e per la sua incidenza sull’interesse generale, un irrigidimento della disciplina dell’impugnazione.
Accanto ad esse, poi, stanno le tradizionali possibilità di annullamento e, per quanto ci interessa, di rescissione: ovvero quelle nullità di protezione che alla mera tutela del singolo contraente debole uniscono, per il carattere largamente collettivo della posizione individuale e per la sua incidenza sull’interesse generale, un irrigidimento della disciplina dell’impugnazione.
 
5.1 La rescissione e l’art. 644 del codice penale
Il problema dell’usura, con le sue innumerevoli implicazioni di carattere economico, morale e giuridico, ha avuto una serie di conseguenze significative anche sul rimedio della rescissione. Peraltro, essendo l’usura un fenomeno particolarmente mutevole, in ragione di una serie di fattori eterogenei (ad esempio, le condizioni economiche, l’accessibilità ai mutui, il mercato del lavoro, etc.) la regolazione legislativa ha subito significative variazioni nel tempo, finendo per influenzare anche la disciplina dei rimedi contrattuali (tra i quali, appunto, quello rescissorio) maggiormente utilizzati in queste ipotesi.
In particolare, il codice civile del 1942, a differenza di quello previgente, dedica al fenomeno dell’usura una pluralità di disposizioni[20]. Fra queste, quella su cui s’è incentrata l’attenzione degli interpreti è stata quella racchiusa nell’art. 1448 del codice civile, diretta a disciplinare la rescissione del contratto di lesione. Ciò, a causa di seri problemi di coordinamento con la normativa penalistica prevista nell’art. 644 del codice penale.
Sin dalla sua entrata in vigore, infatti, ci si è chiesti se in presenza di un contratto usurario la sanzione civile dovesse essere quella della nullità per contrarietà ad una norma imperativa (contenuta nell’art. 644 del codice penale) o, invece, quella della rescindibilità. Dall’analisi del quadro normativo di riferimento[21] risultava in modo chiato il parallelismo dei due testi normativi. Ciò nonostante, le interpretazioni svolte in merito dalla dottrina e dalla giurisprudenza erano profondamente divergenti. Più precisamente: la giurisprudenza interpretava i due testi in modo autonomo, concludendo a favore della nullità, e non della rescindibilità, del contratto usurario[22].
In altre parole, seguendo tale impostazione, l’elemento caratterizzante la fattispecie delittuosa e delimitante, contestualmente, il suo ambito rispetto all’istituto della rescissione, veniva ravvisato nella diversa intensità del comportamento riprovevole dell’agente, diretto ad incidere sulla determinazione di volontà del contraente bisognoso[23].
La dottrina prevalente, invece, era orientata a prendere in considerazione, sul piano civilistico, la sanzione della rescindibilità ai sensi dell’art. 1448 del codice civile. Si sosteneva che, fatti salvi alcuni casi limite, le due disposizioni erano coincidenti[24].
Il fatto poi che l’art. 1815 del codice civile, al comma 2, stabilisse la nullità del mutuo usurario e prevedesse la contestuale riduzione degli interessi alla misura legale, non poteva considerarsi una contraddizioni alla teoria. Dalla relazione di accompagnamento al codice civile, infatti, emerge che il legislatore si era orientato verso questa scelta a causa della peculiarità degli interessi in gioco nel contratto di mutuo[25].
Una seconda impostazione dottrinaria, pur favorevole al filone tradizionale propenso per il riconoscimento della rescindibilità, considerava di fondamentale importanza dare una sistemazione concettuale adeguata alla materia in esame, distinguendo tra reato-contratto, in cui la legge vorrebbe unire la stipulazione dell’accordo e quindi la sanzione penale colpisce il negozio come tale; ed il reato in contratto, in cui la legge vorrebbe sanzionare come reato il solo comportamento tenuto da un contraente ai danni dell’altro[26].
 
5.2 Rescissione e usura dopo l’emanazione della L. 108/1996
Il dibattito sul trattamento della sproporzione tra le prestazioni secondo il diritto penale e secondo il diritto civile si è riacceso a seguito dell’emanazione della Legge 7 marzo 1996, n. 108, titolante “disposizioni in materia di usura”. La legge ha modificato il testo dell’art. 644 del codice penale e anche, contestualmente, i termini del problema interpretativo, con le sue possibili soluzioni. Il crescente allarme per il fenomeno usurario e la constatazone dell’inidoneità degli strumenti di controllo a disposizione hanno, infatti, propiziato una revisione della disciplina in materia, dal momento che quella previgente si era rivelata del tutto insufficiente.
A tale proposito occorre anzitutto rilevare il fatto che il legislatore del 1996 ha oggettivizzato l’illecito, che viene ora individuato non tanto nella lesione della volontà del contraente più debole, quanto piuttosto nell’alterazione della causa di scambio che ha determinato un eccessivo squilibrio delle condizioni contrattuali[27].
Dunque, il nuovo art. 644 del codice penale punisce “chiunque si fa dare o promettere, sotto qualsiasi forma, per sé o per altri, in corrispettivo di una prestazione di denaro o di altra utilità, interessi o altri vantaggi usurari”. Ne emerge, con ogni evidenza, l’intenzione di non punire più il comportamento riprovevole di una delle parti, l’approfittamento dello stato di bisogno altrui, bensì il contratto usurario in quanto tale.
A conferma di ciò, il terzo comma dell’articolo precisa che è la legge a stabilire il limite oltre il quale gli interessi devono considerarsi usurari[28], attribuendo tale qualifica anche a quelli “inferiori a tale limite e agli altri vantaggi e compensi che risultino comunque sproporzionati”, avuto riguardo a tre elementi: il tasso medio praticato per operazioni similari; le concrete modalità del fatto; le condizioni di difficoltà economica e finanziaria del promittente o versante.
Ebbene, le innovazioni che paiono più interessanti ai fini della ricerca in esame sono, anzitutto, l’estensione del carattere dell’usurarietùà a qualunque contratto corrispettivo, poiché non si fa più riferimento al danaro o ad altre cose mobili, ma piuttosto ad ogni “utilità”.
Inoltre, e soprattutto, scompare il riferimento al requisito dell’approfittamento dell’altrui stato di bisogno, rilevante, ormai, solo ai fini della configurabilità dell’aggravante di cui al comma quindi, n. 3, dell’articolo[29].
Queste modifiche hanno però contribuito al crearsi di una situazione paradossale, proprio perché l’immodificato art. 1448 del codice civile, continuando a pretendere la presenza dei requisiti di una sproporzione particolarmente qualificata, dello stato di bisogno di una parte e dell’approfittamento ad opera dell’altra, si riferisce ad elementi oramai estrani al nuovo articolo 644 del codice penale[30].
A fronte di questo paradosso sono state formulate quattro impostazioni dottrinarie diverse. La dottrina dominante, che prima dell’entrata in vigore della legge n. 108 si schierava a favore della tesi della rescindibilità, ha iniziato a propendere per la sanzione della nullità per contrarietà ad una norma imperativa. Secondo questa tesi, infatti, l’eliminazione dell’approfittamento dello stato di bisogno dagli elementi costitutivi della fattispecie dell’usura, avrebbe inontestabilmente introdotto un’evidente differenziazione rispetto all’ipotesi del contratto rescindibile, al punto da riassorbire la disciplina civilistica in quella penalistica[31].
Altra dottrina, giunge alle medesime conclusioni (favorevoli cioè alla nullità del vincolo) ma parte da premesse differenti, affermando la corrispondenza tra contratto rescindibile per lesione e contratto di usura, e considerando pertanto implicitamente abrogato l’art. 1448 del codice civile[32].
Altri ancora pervengono alla medesima soluzione per una terza via interpretativa. Tali autori ritengono che per risolvere il problema occorra misurare la compatibilità degli effetti vincolanti dell’atto con la ratio della norma violata, usando come parametri di giudizio la stessa fattispecie del contratto usurario e la pluralità di regole sparse nel sistema. Ne deriva che la nuova disciplina attribuirebbe rilevnza all’oggettiva sproporzione. Circostanza questa che consentirebbe di creare una sorta di collegamento funzionale tra la situazione in esame ed una pluralità di discipline: l’abuso di dipendenza economica, le clausole abusive, l’abuso di posizione dominante, ecc[33].
Esiste infine chi, pur concordando sulla nullità, cerca di risolvere il problema prendendo le mosse dalla distinzione tra reati-contratto e reati in contratto, arrivando a sostenere cioè che dalla nuova disciplina penale dell’usura emerge un giudizio di disvalore dell’ordinamento non solo per il comportamento di un soggetto (come accadeva nella vecchia disciplina) ma per il complessivo regolamento contrattuale voluto dalle parti. Ad essere vietato, in sostanza, sarebbe sempre un determinato assetto di interessi nel suo complesso, pur non punendosi più solo il comportamento di una parte[34].
 
5. La rescissione nel contratto di lavoro
Come per il caso della rescissione del contratto individuale, è necessario operare alcune riflessioni introduttive anche sull’ipotesi di rescissione del contratto di lavoro. In particolare, quello che qui interessa porre in luce in funzione di premessa è il dibattito sulla “giuridificazione” del mercato del lavoro.
Il dibattito sulla “giuridificazione” degli interessi nuovi, o degli interessi deboli, si è aperto in Italia alcuni anni or sono ad opera di sociologi del diritto e di cultori di diritto positivo. Alcuni autori[35] sostenevano che ormai erano maturi i tempi per sottrarre all’intervento dello Stato, inteso come intervento del legislatore, spazi sempre più ampi da affidare all’autonomia privata. In questo contesto l’espressione giuridificazione era impiegata con accezioni diverse: sinonimo di traduzione in formule giuridiche di nuove fattispecie; oppure dell’intervento legislativo nelle attività un tempo governate dalla semplice disciplina contrattuale (cioè dall’autonomia negoziale, di cui si pone come limite); oppure, ancora, della processualizzazione, nel senso della riduzione a procedure rigide e cadenzate di fenomeni negoziali e non negoziali; oppure, infine, quale sinonimo di maggior democraticità delle decisioni, sottratte a singoli o a gruppi prevaricatori per essere affidate ai rappresentanti della collettività o di una ampia maggioranza.
La giuridificazione, si aggiungeva, trova giustificazione nel fatto che da essa discende la maggior consapevolezza da parte dei titolari dei propri diritti, e, quindi, una più forte tecnica di difesa che si può registrare, ad esempio, nella vicenda della emersione, della protezione e del consolidamento degli interessi diffusi. Non sono mancati, del resto, provvedimenti legislativi con cui si è esteso l’intervento in giudizio delle associazioni ed assicurato così lo standing anche ai gruppi: si pensi all’art. 18 della l. 8 luglio 1986, n. 349 in materia di danno ambientale, all’art. 7, comma 2 del d.lgs. 25 gennaio 1992, n. 74 in materia di pubblicità ingannevole, all’art. 2 della l. 29 dicembre 1993, n. 580 in materia di competenze delle Camere di commercio, all’art. 1469 sexies del c.c. in materia di clausole vessatorie, alla l. 30 luglio 1998, n. 281 sui diritti dei consumatori; alle numerose direttive comunitarie che, in settori specifici, e in lingua generale (a proposito dell’azione inibitoria) prevedono la legittimazione ad agire delle associazioni dei consumatori, e così via.
Un grande merito della giuridificazione è dunque l’avocazione alla collettività delle decisioni che interessano la collettività stessa e che non debbono essere affidate a singoli o a gruppi non rappresentativi. È un fenomeno che ormai pervade tutti i settori e gli aspetti della vita consociata, non solo quelli che presentano un contenuto economico-patrimoniale, ma anche quelli che riguardano la vita privata, familiare, personale, intima e talvolta con contorni drammatici.
Ovviamente la diffusione di una simile impostazione di pensiero ha avuto notevole influenza anche sulla disciplina dei rapporti di lavoro. Uno dei temi più interessanti, a tale proposito, è costituito dal “patto di concorrenza con l’ex dipendente”[36]il codice civile non stabilisce né la forma, né le modalità di erogazione del corrispettivo, secondo la giurisprudenza, in particolare, quest’ultimo può essere erogato sia durante lo svolgimento del rapporto, alla fine o, ancora, successivamente. . Tralasciando gli aspetti specifici della disciplina che qui non interessano, se non marginalmente, l’aspetto più interessante riguarda l’incongruità del corrispettivo pattuito. Premesso che
Nel primo caso, si aggiunge, sarebbe sempre consigliabile prevedere una qualche modalità di rivalutazione del corrispettivo, ciò al fine di scongiurare i pericoli connessi ad una sua svalutazione con il passare del tempo: la concreta perdita di valore del corrispettivo pattuito, infatti, potrebbe giungere fino a determinarne la sopravvenuta incongruità, con la conseguenza che il lavoratore potrebbe, non solo limitarsi ad una richiesta di rivalutazione del compenso, ma anche agire per la risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta o, soprattutto, agire per ottenere la rescissione per lesione.
In senso più generale però, anche alla luce di quanto detto in precedenza sul fenomeno della giuridificazione, c’è da specificare che il rimedio rescissorio resta, con riferimento al diritto del lavoro, sostanzialmente un rimedio secondario. Questo non perché le parti non possano farvi ricorso, ma più semplicemente perché è la disciplina contrattuale collettiva, o quella tra i due singoli, che si sostituisce a quella generale prevista dalla legge. Prevarranno, in tal senso, i rimedi predisposti dalle fonti speciali su quelli ipotizzati in funzione generale dalla legge, pur senza determinare l’abrogazione dei secondi a favore dei primi
 
6. La rescissione nel contratto di compravendita sospensivamente condizionato
Un ultimo problema che merita di essere affrontato è quello che riguarda l’applicazione dell’istituto della rescissione nel contratto di compravendita sospensivamente condizionato.
In particolare, la dottrina e la giurisprudenza[37] si sono interessate al problema inerente l’individuazione del momento esatto in cui decorre il termine di prescrizione dell’azione di rescissione[38].
Ci si è chiesti se l’azione in parola, in ragione del concorso degli elementi costitutivi previsti dall’art. 1448 del codice civile, debba essere fatta valere dalla data di conclusione del contratto o da quella nella quale si è verificata la condizione sospensiva.
Se prendiamo come punto di partenza il valore letterale dell’art. 2935 del codice civile, secondo il quale il termine di prescrizione incomincia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere, si deve concludere che l’azione rescissoria debba essere esercitata dal momento del verificarsi dell’evento dedotto in condizione e non già dalla conclusione del contratto iniquo[39].
Infatti, poiché l’effetto traslativo del diritto di proprietà si produce sul bene comrpavenduto solamente con l’avveramento della condizione sospensiva, ed essendo a tale effetto legata sul piano eziologico la concretezza ed attualità di quella lesione – che è presupposto di esperibilità del rimedio rescissorio – ne deriva che, unicamente con il verificarsi dell’evento dedotto in condizione, la parte che di detto rimedio intende avvalersi potrà far valere il suo diritto in via d’azione, e che soltanto dalla data corrispondente inizierà a decorrere il termine di prescrizione di cui all’art. 1449, comma 1, del codice civile.
Ora, ci sono alcune precisazioni da fare. Anzitutto, bisogna specificare che accogliere questa tesi[40] presuppone l’accoglimento implicito di un presupposto: ovvero che solamente con il verificarsi dell’evento in condizione si produce l’effetto reale.
Al contrario, se si aderisce alla tesi[41] per cui il diritto reale sorge in capo all’acquirente già nel periodo di pendenza, allora non si avrebbero difficoltà nel riportare alla data di conclusione del contratto il momento dal quale decorre il termine prescrizionale dell’azione rescissoria. In questa seconda ipotesi, inoltre, risulterebbe agevole riscontrare la ricorrenza, al momento della conclusione del contratto, dei presupposti di concretezza ed attualità della lesione necessari per l’esperimento del rimedio rescissorio[42].
La seconda precisazione da fare è in realtà una critica che alcuni autori hanno posto nei confronti dell’impostazione giurisprudenziale di cui s’è detto in apertura di paragrafo. Per comprendere l’oggetto della critica e la fondatezza di questa, dobbiamo prendere in considerazione la norma codicistica relatica alla prescrizione dell’azione di rescissione del contratto. Orbene, l’art. 1449 del codice civile stabilisce che: “l’azione rescissoria si prescrive in un anno dalla conclusione del contratto”. Aggiunge poi che: in caso in cui il fatto costituisca reato si applica l’ultimo comma dell’art. 2947[43] e che la rescindibilità del contratto è inopponibile in via di eccezione quando l’azione si è prescritta.
A ben vedere, dunque, la circostanza che il contratto sia sottoposto a condizione, perlomeno stando alla lettera dell’articolo, non ha alcuna rilevanza. I due fatti giuridici a cui la norma fa riferimento per indicare il tempo di prescrizione sono la conclusione del contratto ed il reato. Nulla si dice sulla presenza di elementi accessori.
Sempre facendo riferimento alle norme codicistiche è possibile rilevare che, se è vero che l’effetto real si produce nel momento in cui si verifica l’evento condizionale, altrettanto pacifica è la retroattività di questo ex art. 1360 del codice civile al momento della conclusione del contratto[44]. Previsione normativa, questa, dalla quale sembrerebbe riemergere nuovamente il fatto giuridico “conclusione del contratto”, cui riferire il momento di decorrenza della prescrizione.
Un terzo, ed ultimo, elemento da considerare riguarda la natura giuridica del contratto condizionale. Bisogna ricordare che il contratto sospensivamente condizionato fa nascere in capo all’acquirente una situazione giuridica che si definisce di “aspettativa”. Orbene, tale situazione di aspettativa derivante dal contratto condizionato, sebbene strumentale e prodromica alla produzione dell’effetto reale, è contraddistinta da una propia autonomia strutturale tale da incidere sulla stessa vicenda traslativa. Non si deve trascurare, in particolare, il fatto che il rapporto preliminare faccia sorgere in capo all’acquirente del diritto condizionato la titolarità di taluni rapporti giuridici sia attivi sia obbligatori[45].
 
7. Conclusioni
In conclusione delle riflessioni svolte ci sono alcuni punti chiave che è bene isolare al fine di focalizzare gli aspetti salienti della disciplina privatistica dell’istituto.
Ebbene, appare chiaro che la rescissione è uno strumento di grande valore, cui il legislatore raramente impone limitazioni. Anche la dottrina e la giurisprudenza, in tutte le ipotesi in cui hanno ravvisato la presenza di un possibile limite all’aplicazione dell’istituto rescissorio, hanno tuttavia postulato la presenza di altri rimedi ritenuti altrettanto, se non più, efficaci.
Proprio l’esistenza di questi limiti ci dice che però la rescissione non è uno strumento universale. Questa ricerca non intende verificare a quali condizioni il rimedio rescissorio sarebbe migliore rispetto ad altri, ma non può trascrare di rilevare un dato evidente: il vincolo negoziale non sempre è rescindibile, ed in talune ipotesi (si pensi al contratto di lavoro) la rescissione non appare nemmeno come la più indicata delle soluzioni.
C’è da dire, infine, che laddove trova applicazione la rescissione pone sempre fine al problema creatosi, eliminando il vizio. Ma, come era emerso anche dalle riflessioni svolte in precedenza, questa efficacia è anche il limite dell’istituto. Nel senso che, a differenza di altre forme di sanzione, che tendono a preservare il vincolo, nella convinzione che ciò risponda alle esigenze delle parti, la rescissione opera una cesura netta tra il regolamento contrattuale viziato ed un nuovo (eventuale) regolamente che le parti dovranno però porre in essere con tutto il dispendio economico e temporale che ciò comporta.
 
 


[1] In assenza di una espressa definizione legislativa, la dottrina ha considerato il consumatore come appartenente ad una categoria di soggetti portatori di interessi meritevoli di tutela da parte dell’ordinamento, anziché come autonomo soggetto giuridico. A testimonianza di una simile tendenza si veda Galgano G., La democrazia dei consumatori, in Rivista trimestrle di diritto e procedura civile, 1981, pagg. 38 ss., il quale, considerando l’incapacità di incidere con le proprie scelte individuali sulla offerta di mercato, equipara il consumatore ad un suddito, meritevole di una tutela analoga alla protezione fornita al cittadino nei confronti dello Stato e consistente nella partecipazione della collettività dei consumatori alla programmazione della produzione. In senso analogo, Mazzoni G., Contro una falsa categoria: i consumatori, in Giurisprudenza commerciale, 1976, I, pagg. 662 ss.; Bessone M., Controllo del mercato e teorie del consumo. Per una discussione sul metodo degli studi, in Temi, 1976, pagg. 331 ss.; Ghidini O., Per i consumatori, Bologna 1977, pagg. 58 ss.. Quest’ultimo, in particolare, rilevata la situazione di subalternità in cui versa il consumatore rispetto all’impresa, identifica la “classe” dei consumatori con quella dei lavoratori subordinati. Per una critica ad una simile attitudine dei giuristi, “con gli occhiali deformanti dell’ideologia”, ad enucleare la nozione di consumatore sulla base di parametri sociali, individuandone di volta in volta le caratteristichenell’appartenenza ad una classe, si veda Alpa G., Consumatore (tutela del) diritto civile, in Enciclopedia giuridica Treccani, VIII, Roma 1988, 2, secondo cui la “trasparente connotazione ideologica di tali letture finisce con l’ingenerare un’ingiustificata disparità di trattamento”, poiché esclude dalla relativa tutela tutti i soggetti che di quelle categorie non fanno parte.
[2]In questi termini si esprime Irti N., Persona e mercato, in Rivista di diritto civile, 1995, I, pagg. 290 ss., che, nel denunciare il naturalismo che si occulta dietro i termini di persona e mercato, ribadisce che il compito del giurista è quello di “collocare i problemi entro l’orizzonte normativo”, riducendoli “nei termini del diritto”.
[3]Di cui qui non si riportano gli estremi per evitare di ampliare il discorso oltre quanto sia necessario.
[4]Si veda, a tale ultimo proposito, Montinaro R., La figura giuridica del consumatore nei contratti di cui al capo XIV Bis, Titolo II del codice civile, in Giustizia civile, 1998, V, pag. 219: “Il consumatore nella fattispecie di cui agli art. 1469-bis e ss. c.c.- Sulla stessa scia tracciata dalla precedente legislazione si è posta la l. 6 febbraio 1996 n. 52 che, all’art. 52, ha recepito la direttiva CEE 93/13 (concernente le clausole abusive nei contratti stipulati dai consumatori), con il risultato di introdurre all’interno del nostro codice civile (nel Libro IV Delle obbligazioni, in chiusura del Titolo II dedicato ai contratti in generale) un Capo XIV- bis, intitolato “Dei contratti del consumatore”. Il primo degli articoli del nuovo Capo (l’art. 1469- bis c.c.), la cui rubrica parla di contratto concluso tra professionista e consumatore, ribadisce che parte del c.d. contratto del consumatore può essere esclusivamente la persona fisica che agisce per scopi estranei all’attività imprenditoriale o professionale eventualmente svolta. Consumatore è, quindi, colui che non rientra nel novero delle persone giuridiche o, più in generale, degli enti che, pur non essendo dotati di personalità giuridica, differiscono dalla persona fisica; consumatore è altresì quel soggetto che non agisce (o che non agisce anche) per scopi professionali o imprenditoriali. Il concetto in questione viene, dunque, descritto dalla norma mediante l’esclusivo ricorso a dati giuridici ed in termini rigorosamente negativi: il consumatore pone in essere atti finalizzati al consumo qualificabili come contratti ed agisce come parte di essi, con la conseguenza che le qualità soggettive considerate consistono in espressioni con cui viene riassunto il termine soggettivo della fattispecie”.
[5]Ilricorso ad una concezione oggettiva della nozione di consumatore consente, peraltro, di superare le incertezze applicative connesse alle ipotesi di acquisto del bene per uso promiscuo (ossia, professionale e personale) ed a quella di acquisto posto in essere congiuntamente da un professionista ed un consumatore (nel caso in cui sussista una parte composta da una pluralità di soggetti diversamente qualificabili sotto il profilo soggettivo).
[6]Si tenga presente, inoltre, che Quanti considerano la predisposizione unilaterale della clausola un presupposto di applicazione della disciplina in questione ritengono che il giudice debba previamente accertare l’assenza di negoziato individuale e, solo in un secondo momento, valutare la vessatorieta del contratto o di alcune delle sue clausole.
[7]La nozione di pre-disposizioneunilaterale prescelta dalla norma risulta, quindi, ampliata rispetto al più ristretto significato di preformulazione del testo, fino a ricomprendere la valutazione della impossibilità per il consumatore, in conseguenza della preventiva redazione di una clausola, di influire sul contenuto della clausola medesima. Conseguentemente, la circostanza della preformulazione contrattuale non può ritenersi di per sé idonea a configurare l’assenza del negoziato individuale, qualora si accerti che il consumatore ha contribuito all’attività di predisposizione o in sede di redazione anticipata della clausola ovvero in un epoca successiva (ad esempio nella fase di conclusione dell’accordo sotto forma di trattativa avente ad oggetto il testo originariamente predisposto).
[8]Si confronti, ad esempio, quanto sostenuto da Gazzoni F., Manuale di diritto privato, Roma, 2004, pagg. 979 ss.
[9]C’è da dire che la giurisprudenza ha accolto alcune delle tesi prospettate in dottrina e, ancora oggi, non si può asserire che in materia esista un indirizzo consolidato della Corte di Cassazione.
[10]Si veda, in particolare, Corte di Cassazione, 25 maggio 1991, n. 5922; nonché Corte di Cassazione, 23 aprile 1994, n. 3891
[11]Per meglio dire, non si configurano due atti: una proposta e una domanda, bensì un unico atto che assumerebbe e il valore di proposta e il valore di domanda. Particolarmente nitida a tale proposito è  Corte di Cassazione, 11 novembre 1992, n. 247, ove si legge: “Infatti, non avendo la proposta avanzata dal promissario raggiunto lo scopo di modificare consensualmente il contratto (quanto al prezzo) per non essere stata accettata dal promittente, essa si era tramutata in una domanda rivolta al giudice perché accertasse l’idoneità dell’offerta a modificare il prezzo a suo tempo convenuto”.
[12]Sotto questo profilo si rinviene la distinzione dal preliminare “improprio”, con il quale le parti si impegnano a trasfondere in un determinata forma, normalmente pubblica, un contratto già definitivo per ragioni attinenti alla ripetizione negoziale.
[13]Lo chiarisce in particolare Cassano G., Sulla controversa intangibilità del contratto preliminare, in Contratti, 2002, VIII-IX, pagg. 851 ss., laddove ritiene che: “Ove la giustificazione di un contratto definitivo vada ravvisata con riguardo alla produzione dei suoi effetti tipici, cioè alla sua causa interna, è evidente che saranno irrilevanti i vizi del preliminare qualora il definitivo sia di per sé validamente concluso. In tal caso, dunque, si deteriora il nesso che lega le due vicende giuridiche di cui, invece, si afferma l’autonomia”.
[14]Di entrambe le teorie da ampiamente conto Cassano G., Sulla controversa intangibilità del contratto preliminare, in Contratti, 2002, VIII-IX, pagg. 851 ss.
[15]La tesi, che prende il nome di “teoria del doppio contratto”, è spiegata anche da Gazzoni F., Manuale di diritto privato, Roma, 2004, pag. 860: “La teoria del doppio contratto ipotizza una doppia azione, anche perché – si sostiene – la lesione, solo potenziale quando si conclude il preliminare, si attualizzerebbe con il definitivo. In tal modo, qualora tra il preliminare e il definitivo intercorra più di un anno, si porrebe nel nulla il termine annuale di prescrizione, perché l’azione, ove prescritta per il preliminare, sarebbe riproponibile entro un ulteriore anno dal definitivo. Chi invece attribuiscecarattere solutorio al definitivo, ritiene improponibile l’azione solo entro un anno dalla conclusione del preliminare”.
[16]In parte, questa impostazione ha trovato accoglimento anche nella giurisprudenza. Valga, su tutte, Corte di cassazione, 6 novembre 1990, n. 10666
[17]In senso parzialmente contrario c’è Gentili A., L’inefficacia del contratto telematico, in Rivista di diritto civile, 2000, pag. 747: “Ha specificità il discorso sull’inefficacia del contratto telematico? Nel dubbio se la risposta debba essere affermativa o negativa, è comunque probabile che la domanda sia in parte prematura. Per quanto il tema abbia già suscitato l’interesse dei giuristi, è discutibile che lo stato attuale della normazione giustifichi la redazione di un apposito capitolo nei manuali di diritto privato. Non mancano dati normativi sui quali riflettere. Ma solo per fictio juris si potrebbe affermare che il legislatore persegua un preciso disegno, sia pure implicito, di regolazione della contrattazione telematica, che toccherebbe all’interprete esplicitare. Benché sia frequente la menzione dei contratti stipulati con strumenti informatici, i problemi davvero affrontati nelle leggi speciali sono altri, come, principalmente, la tutela del consumatore o i rapporti produttivi”.
[18] Lo dimostra l’ampio dibattito dottrinario sviluppatosi in occasione dell’emanazione della direttiva comunitaria sul commercio elettronico, come testimonia il pensiero di Mancaleoni A.M., La tutela del consumatore nei contratti a distanza alla luce della futura direttiva sul commercio elettronico, in Nuova giurisprudenza civile, 2000, III, pag. 314: “Con riferimento a ciò che non è entrato a far parte della disciplina comunitaria e, conseguentemente, di quella interna, di particolare rilievo è, per il dibattito comunitario che si è svolto sul punto, il problema della sicurezza finanziaria del consumatore. Non è stato accolto nella versione definitiva del provvedimento l’emendamento proposto dal Parlamento, secondo cui gli Stati membri elaborano di concerto con le organizzazioni professionali e di categoria, un sistema di garanzie con l’obiettivo di garantire in ogni momento, in caso di insolvibilità o di fallimento del fornitore, il rimborso degli anticipi pagati dai consumatori in caso di mancata fornitura da parte del fornitore o qualora il consumatore intenda avvalersi del suo diritto di rescissione ai sensi dell’articolo 11. La Commissione ha preferito non rendere obbligatoria l’istituzione di un sistema di garanzia per lasciare spazi sufficienti all’autoregolamentazione; essa aveva tuttavia proposto di attribuire al consumatore il diritto di non pagare in anticipo, ma tale norma non è stata accettata del Consiglio”.
[19]Secondo Gentili A., L’inefficacia del contratto telematico, in Rivista di diritto civile, 2000, pag. 749: “La recentissima direttiva sul commercio elettronico in parte conferma, in parte modifica questo approccio. Lo conferma, perché neppure essa prevede comminatorie di inefficacia, e comunque non per l’incidenza dello strumento sul contratto. Ma a ben guardare lo modifica, perché disponendo analitici obblighi informativi proprio in ragione dello strumento usato per concludere il contratto, anche quando non si tratti di rapporti con i consumatori, mostra di collegare a un’esigenza nascente dallo strumento questa e altre forme di tutela. Una tutela inderogabile però solo nei rapporti business to consumer, e connessa ad un ruolo – prestatore di servizi della società dell’informazione – prima ancora che al suo indispensabile strumento”.
[20]Compie una ricostruzione completa dell’istituto Mirabelli V., La rescissione del contratto, Napoli, 1962; Bianca C.M., Il contratto, Milano, 1987, pagg. 642 ss.
[21]In particolare, originariamente, il legislatore aveva provveduto ad utilizzare il reato di usura in due diverse fattispecie, rispettivamente disciplinate dagli artt. 644 e 644 bis del codice penale. La prima sanzionava la condotta di chi, approfittando dello stato di bisogno di una persona, si faceva dare o promettere interessi o altri vantaggi usurari. La seconda, invece, faceva riferimento alla cd. “usura impropria”, sanzionando chi approfittava delle condizioni di difficolà economica o finanziaria di una persona che svolge un’attività imprenditoriale o professionale. Contestualmente, il primo comma dell’art. 1448 del codice civile prevedeva che se esiste una sproporzione trale due prestazioni, e questa è dipesa dallo stato di bisogno di una delle due parti, facebdo si che l’altra ne approfittasse per trarn un vantaggio personale, allora la parte danneggiata può domandare la risoluzione del contratto.
[22]Aggiunge Tropea R., Il contratto usurario e la rescissione dopo l’emanazione della legge n. 108 del 1996, in Diritto e formazione, VIII-IX, 2005, pag. 1639: “La stessa Relazione al c.c. faceva riferimento al voluto coordinamento tra le due fattispecie. Tuttavia, ignorando tali indicazioni, e ponendosi, quindi, in aperto contrasto con le intenzioni chiaramente manifestate dal legislatore, la giurisprudenza prevalente tendeva a ritenere nullo e non rescindibile l’accordo usuraro sulla base di una pretesa autonomia tra le situazioni in esame, le quali, nonostante l’apparente coincidenza, dovevano ritenersi distinte sotto il profilo soggettivo”.
[23]Ad esempio provocando o sollecitando una proposta vabntaggiosa. A differenza di questa ipotesi, nella rescissione per lesione si riteneva sufficiente che l’agente, essendo a conoscenza dello stato di bisogno della controparte, si fosse limitato esclusivamente a trarne profitto. Si vedano, per esempi concreti di pronunce di questo tipo, Corte di Cassazione, 22 gennaio 1997, n. 628; Corte di Cassazione, 10 gennaio 1976, n. 55; Corte di Cassazione, 08 febbraaio 1960, n. 177.
[24]Le ipotesi eccezionali erano derivanti, da un lato, dal fatto che l’art. 644 del codice penale non includeva tra i propri elementi costitutivi un limite quantitativo minimo per la configurabilità di una lesione usuraria e, dall’altro, dal fatto che la fattispecie civilistica risultava più ampia di quella penalistica, ricomprendendo anche ipotesi che non integravano reato.
Favorevoli a tale tesi sono, in particolare, Candian V., Contributo alla dottrina dell’usura e della lesione nel diritto positivo italiano, Milano, 1946, pagg. 52 ss.; Villa P., Contratto e violazione di norme iperative, Milano, 1993, pagg. 151 ss.
[25]Cfr. De Nova A., Il contratto contrario a norme imperative, in Rivista critica di diritto privato, 1985, pagg. 435 ss.
[26]Nota Tropea R., Il contratto usurario e la rescissione dopo l’emanazione della legge n. 108 del 1996, in Diritto e formazione, VIII-IX, 2005, pag. 1640: “LA contrapposzione tra le due categorie non aveva un rilievo meramente teorico, in quanto, mentre nel reato-contratto veniva ricollegata, sul piano civilistico, la nullità da quello in contratto scaturivano conseguenze diverse, del tutto estranee ai profili di validità dell’atto. In quest’ultima ipotesi veniva ricondotto proprio il negozio usurario, pe ril quale il codice civile del 1942 prevedeva il rimedio della rescisione attraverso una disposizione, che si ribadiva, corrispondeva nella descrizione della fattispecie, esattamente al reato d’usura, così come era configurato dall’art. 1448 c.p.”.
[27]Ciò, anche in riferimento all’art. 40 della Costituzione, che stabilisce che l’iniziativa privata non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà ed alla dignità umana. Sulle finalità della nuova legislazione anti-usura, in connessione anche al detta costituzionale, si sofferma Gentili A., I contratti usurari: tipologie e rimedi, in Rivista di diritto civile, 2001, I, pagg. 353 ss.
[28]Il tasso soglia oltre il quale gli interessi sono sempre usurari è rappresentato dal tasso effettivo globale medio risultante dall’ultima rilevazione trimestrale fatta dal Ministro del teroso, aumentato della metà, come prevede il quarto comma dell’art. 2 della legge.
[29]La sanzione penale, infatti, viene ormai disposta per il solo fatto che gli interessi o gli altri vantaggi conseguiti siano usurari. Va peraltro precisato che nell’ipotesi di reato fondata su contratti di finanziamento la clausola illecita viene sanzionata, una volta per tutte, attraverso il nuovo secondo comma dell’art. 1815 del codice civile, con la nullità, con la contestuale trasformazione del mutuo usurario in gratuito.
[30]Nota Tropea R., Il contratto usurario e la rescissione dopo l’emanazione della legge n. 108 del 1996, in Diritto e formazione, VIII-IX, 2005, pag. 1641: “Questo atteggiamento di indifferenza mantenuto dal legislatore del 1996 è stato aspramente criticato dalla maggior parte dei commentatori, i quali hanno sostanzialmente concordato sull’occasione perduta di dar vita ad un’organica disciplina civilistica dell’usura: ma soprattutto, gli stessi si sono trovati di fronte ad un’alternativa ben precisa: tentare ugualmente, in via interpretativa, di conservare l’operatività dell’azione di rescissione per lesione o ritenerla implicitamente abrogata, con contestuale espansione dell’area della nullità del contratto usurario”.
[31]Lo sostiene, tra gli altri, Riccio F., Le conseguenze civili dei contratti usurari, Padova, 2002, secondo il quale il contratto usurario sarebbe sempre nullo per effetto del combinato disposto degli artt. 1418 del codice civile ed art. 644 del codice penale. Ciò comporterebbe inoltre la contestuale ed ovvia abrogazione implicita della prima disposizione con i suoi requisiti particolarmente restrittivi. In altre parole, così come nel codice civile germanico, anche nel nostro sistema il concetto dell’usura assorbirebbe in sé quello della lesione e la nullità per contrarietà all’ordine pubblico ed al buon costume allarga la propria sfera di applicazione. L’autore conclude specificando che: “non generalizzare questa sazione significherebbe lasciare in vita un contratto illecito, immorale e così riprovevole che la stessa legge penale lo punisce”.
[32]Cfr. Oppo A., Lo “squilibrio” contrattuale tra diritto civile e diritto penale, in Rivista di diritto civile, 2005, I, pagg. 539 ss., il quale, pur sostenendo la soluzione accolta dalla prevalente dottrina, afferma che da un lato, lo stato di bisogno dell’art. 1448 c.c. può farsi corrispondere alla situazione di difficoltà economica e finanziaria del nuovo art. 644 c.p.; dall’altro, la consapevolezza dello stato di bisogno così inteso può considerarsi equivalente all’approfittamento richiesto dalla prima disposizione e non più, almeno nella lettera, dalla seconda.
[33]Simili ipotesi, come chiarisce Passagnoli F., Il contratto usurario, Milano, 2001, pagg. 52 ss., collocandosi in una prospettiva più vasta diretta a varcare i limiti dell’ordinamento nazionale, prevedono, pur nominandola diversamente, l’inefficacia del contratto viziato da uno squilibrio giuridicamente rilevante.
[34]In merito, Tropea R., Il contratto usurario e la rescissione dopo l’emanazione della legge n. 108 del 1996, in Diritto e formazione, VIII-IX, 2005, pag. 1643: “A mio avviso, il punto di vista della dottrina dominante, ormai coincidente con quello già da tempo fatto proprio dalla prevalente giurisprudenza, non è del tutto condivisibile. Nell’affannoso tentativo, infatti, di risolvere ad ogni costo il nodo interpretativo lasciati insoluto dal legislatore, è pericolosamente diffusa, al suo interno, la tendenza a trascurare gli elementi che invece potrebbero rivelarsi veramente utili ai fini di un’analisi esaustiva della questione”.
[35]Si veda, ad esempio, Barcellona P., Il declino dello stato, Bari, 1998
[36]Si tratta di una figura particolarmente interessante e lungamente studiata dalla dottrina, in tutti i suoi aspetti. Valgano, su tutte, le osservazioni che svolge a tale proposito Pomini E., Il patto di non concorrenza dell’ex dipendente, in Contratti, 2004, IV, pagg. 401 ss., laddove spiega che: “Nello studio della contrattualistica di settore, l’esigenza di voler soffermare l’attenzione sulla disciplina relativa a questa particolare figura negoziale, ovvero il patto di non concorrenza dell’ex prestatore di lavoro subordinato, scaturisce anzitutto dal rilievo secondo cui tale materia, data l’importanza e la delicatezza degli interessi che vengono in rilievo, è da sempre stata oggetto di un ampio contenzioso caratterizzato da giudizi non sempre conformi da parte della giurisprudenza, la quale, nel corso degli anni, ha contribuito in maniera decisiva a plasmare i diversi criteri alla luce dei quali valutare la validità del patto in questione. In secondo luogo, non deve essere trascurata un’ulteriore considerazione di fondo: il contesto afferente ai rapporti di lavoro subordinato nell’impresa (nel quale si inserisce la stipula del patto de quo), essendo caratterizzato da una disciplina di mercato volta a favorire la libertà di circolazione e la frequente mobilità dei lavoratori da un luogo ad un altro, da un’impresa all’altra, si pone sempre più in contrasto con l’esigenza, fortemente sentita dalle imprese, di tutelare il proprio patrimonio immateriale il quale, oltre ad essere continuamente oggetto di aggressioni di natura concorrenziale provenienti dall’esterno (molto spesso al limite della liceità), può senz’altro subire notevole pregiudizio anche ad opera di quei soggetti che, avendo fatto parte integrante dell’impresa, sono agevolati nella conoscenza degli elementi dell’azienda che potrebbero consentire un vantaggioso svolgimento di attività concorrenziale”.
[37] In realtà le pronunce giurisprudenziali sulla materia sono piuttosto scarse. C’è tuttavia una pronuncia della Suprema Corte, cui si fa riferimento nelle pagine a seguire, in cui il problema è stato definitivamente risolto ed affrontato. È dunque da presumere che la restante giurisprudenza abbia recepito l’impostazione proposta dalla Corte costituzionale e si sia limitata ad applicarla, senza innovarne particolarmente il merito.
[38] Cfr. Cesaro V.M., Decorrenza del termine di prescrizione dell’azione di rescissione nel caso di contratto di compravendita sospensivamente condizionato, in Rassegna di diritto civile, 1995, I, pag. 149: “Particolare interesse merita la problematica relativa all’individuazione del momento dal quale decorre il termine di prescrizione dell’azione rescissoria nell’ipotesi di contratto sospensivamente condizionato”.
[39] La motivazione addotta dalla Corte di Cassazione, Sez. II, 13 marzo 1992, n. 3055, è la seguente: “vi è la regola generale in tema di decorrenza della prescrizione per cui il relativo termine inizia dal giorno in cui il diritto può essere fato valere e ne discende che quando, come nella specie, il contratto del quale si chiede in giudizio la rescissione per lesione ultra dimidium sia un contratto sottoposto a condizione sospensiva il ridetto termine annuale inizia a decorrere dal giorno in cui con il verificarsi dell’evento dedotto in condizione il contratto sia divenuto efficace”.
Si confronti anche Corte di Cassazione, 20 gennaio 1983, n. 573, secondo la quale l’apposizione della condizione sospensiva ad un contratto di compravendita pienamente valido, avendo il solo effetto di rendere il contratto normalmente ad effetti reali obbligatorio, in quanto gli effetti reali si produrranno al momento in cui si sarà verificato l’evento futuro ed incerto dedotto in condizione, salva la loro retroattività al tempo della conclusione del contratto ex art. 1360 cod. civ.
[40]Tra gli autori che sostengono questa tesi, oltre che alla giurisprudenza prevalente, si veda Falzea A., La condizione e gli elementi dell’atto giuridico, Milano, 1941, pagg. 143 ss.; Carresi F., Il contratto, Milano, 1987; Scognamiglio R., Contratti in generale, in Trattato di diritto civile, IV, Milano, 1966, pagg. 136 ss.
[41]Si confronti, ad esempio, Rescigno P., Condizione (diritto vigente), in Enciclopedia del diritto, VIII, Milano, 1961, pagg. 761 ss.
[42]Aggiunge Cesaro V.M., Decorrenza del termine di prescrizione dell’azione di rescissione nel caso di contratto di compravendita sospensivamente condizionato, in Rassegna di diritto civile, 1995, I, pag. 151: “In realtà la tesi sopra riferita è fondata su alcuni precisi dati normativi in materia di condizione. Si assume in particolare che l’effettivo trasferimento del diritto sarebbe confermato non solo dalla lettera dell’articolo 1356 c.c. – il quale espressamente prevede il potere per l’acquirente di un diritto sospensivamente condizionato di compiere in pendenza della condizione atti conservativi ma soprattuto dalla possibilità riconosciuta dall’art. 1357 c.c. all’acquirente medesimo di compiere atti di disposizione aventi ad oggetto il diritto condizionato”.
[43] La norma dispone che: “il diritto al risarcimento del danno derivante da fatto illecito si prescrive in cinque anni dal giorno in cui il fatto si è verificato.Per il risarcimento del danno prodotto dalla circolazione dei veicoli di ogni specie il diritto si prescrive in due anni.In ogni caso, se il fatto è considerato dalla legge come reato e per il reato è stabilita una prescrizione più lunga, questa si applica anche all’azione civile. Tuttavia, se il reato è estinto per causa diversa dalla prescrizione o è intervenuta sentenza irrevocabile nel giudizio penale, il diritto al risarcimento del danno si prescrive nei termini indicati dai primi due commi,con decorrenza dalla data di estinzione del reato o dalla data in cui la sentenza è divenuta irrevocabile”.
[44]Salvo che la volontà delle parti, oppure la natura stessa del rapporto, legittimino lo spostamento degli effetti ad un momento diverso. In tal caso sarebbe necessario riferire a tale momento la data di decorrenza della prescrizione, in sintonia con quanto prevede l’art. 1449 del codice civile.
[45]Si possono confrontare, a tale proposito, le riflessioni di Perlingieri P., Rapporto preliminare e servitù su “edificio da costruire”, Napoli, 1966, pagg. 92 ss.

Sgueo Gianluca

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