La resa dei conti

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L’ordinamento giuridico si fonda su valori che costituiscono il presupposto sul quale si giustifica la convivenza democratica di una collettività.

Gli ultimi due secoli hanno consentito agli Stati occidentali di crescere sulla spesa in deficit, questo è un fatto non opinabile. Alexander Hamilton, segretario del Tesoro dgli Stati Uniti nel 1780 ca., già sosteneva che il debito non eccessivo fosse una benedizione e che la tassazione per pagare gli interessi sul debito fosse uno stimolo alla produzione industriale[1]. In Gran Bretagna, qualche decennio prima, David Hume al contrario riteneva che il debito pubblico fosse un elemento potenzialmente nefasto per lo Stato, consegnando di fatto il potere alla speculazione dei finanzieri, privilegiando l’interesse dei creditori su quello della popolazione. Secondo Hume, o la nazione distruggeva il debito o il debito avrebbe distrutto la nazione. Tra queste definizioni drastiche ci si potrebbe orientare sul fatto che il debito potrebbe essere visto come una trade union tra i progetti e gli obiettivi di una nazione, tra presente e futuro, autofinanziandosi con la crescita economica; se però il meccanismo si inceppa e la crescita non è sufficiente o è addirittura assente, il debito mina le basi della democrazia, sbilanciando tutti i vantaggi verso una stretta cerchia di creditori, a danno di tutti gli altri.

Lo Stato italiano

A differenza di altre realtà europee, come sostiene autorevolmente Sabino Cassese, lo Stato italiano è sempre vissuto al di sopra delle sue possibilità, mantenendo un costante squilibrio fra entrate e spese e al tempo stesso amplificando la propria distanza rispetto alla società, processo che ha innescato una perenne crisi della rappresentanza e fomentato l’instabilità dei rapporti tra istituzioni e collettività. Quindi, ha sempre prevalso il potere distributivo al posto di quello impositivo della riscossione delle imposte, soprattutto negli anni Settanta, quando partì l’esperienza della programmazione finanziaria della spesa. Ed è proprio all’interno del rapporto Stato e società che agiscono le politiche del debito pubblico[2].

Altra cosa era quando nel Novecento lo Stato ripagava i suoi debiti facendo altri debiti, svalutando e stampando moneta, cosa che non fu più possibile dopo il “divorzio” tra Banca d’Italia e Tesoro avvenuto nel 1982. Già dal dopoguerra in poi i vari governi hanno adottato sempre la tecnica di sopravvalutare le variabili macroeconomiche, così da ottenere margini di spesa più ampi e finanziati in deficit, quando la situazione economica reale era ben diversa[3].

Attualmente, la garanzia offerta dalle amministrazioni locali e centrali e la creazione di condizioni favorevoli alla promozione del lavoro, il futuro certo e non solo la speranza di un futuro permette agli individui di programmare la propria vita, di avere accesso a beni e servizi, di rendere degna la propria esistenza, di qualificarla e gratificarla. Un’attenta riflessione sotto il profilo giuridico e di respiro costituzionale vuole che si instauri un processo virtuoso, che porti alla crescita e allo sviluppo delle potenzialità umane, con l’utilizzo coraggioso, ma sempre equilibrato, delle tecnologie a disposizione che si perfezionano nel tempo. Il mantenimento costante di crescita, sviluppo e sostenibilità di bilancio costituisce il fondamento della stabilità di un Paese, intesa in tutte le sue forme, offrendo verso l’interno di una nazione e verso l’esterno la percezione di affidabilità, di credibilità, che a volte viene meno per la concausa di diversi fattori; come, ad esempio, l’instabilità politica, la scarsa competitività sul mercato, l’eccesso di ricorso al debito, il ritardo nell’innovazione tecnologica, una pressione fiscale disordinata, una burocrazia ottocentesca non attenta alle esigenze del cambiamento…ed altre cause più sottili ma non meno rilevanti.

La governance

I ragionamenti più o meno addomesticati che ruotano intorno al debito pubblico fanno emergere una generale insofferenza a questo problema, che incide in modo determinante ed insopportabile sulla crescita economica, soprattutto considerando che l’Italia è uno Stato tra i più importanti dell’UE. E si sa che una  governance troppo spregiudicata del debito, affiancata spesso dalla “sindrome della vittima”, contribuiscono alla perdita di credibilità e affidabilità di un Paese, costringendolo a vanificare l’eventuale surplus economico, destinandolo sempre al contenimento del debito. Quindi, la crescita è seriamente compromessa, come in effetti ci indicano i maggiori Istituti internazionali (Bce, Fmi, Ocse…)[4]. Del resto, le crisi del debito sono si rivelano sempre crisi di legittimazione istituzionale e richiedono una ridefinizione dei modi con i quali la sovranità viene esercitata[5].

Il fenomeno del debito pubblico, dopo la legge n. 468 del 1978 e la legge n. 335 del 1976, è esploso generando un debito che le generazioni passate hanno riversato su quelle di oggi e che si riverseranno su quelle future in modo ancora più marcato, che dovranno in qualche misura farsi carico degli impegni assunti da quelle precedenti. Il debito può essere utile alla crescita e addirittura necessario quando lo si considera e lo si riserva alle spese d’investimento, avendo una certa elasticità di bilancio e un rapporto debito/pil ideale, cioè tra il 70% e l’80%. In questo caso, quel tipo di spese producono una spinta al volano economico di un Paese, producendo lavoro, aumentando la crescita e garantendo maggiori entrate fiscali per lo Stato. Mentre, purtroppo, lo si è utilizzato per molti anni come strumento elettorale in alternativa alla leva fiscale, almeno fino all’intervento della legge n. 196 del 2009 e del Trattato per il Funzionamento dell’UE, per coprire anche spese correnti, nelle quali confluiscono gli interessi passivi maturati. Ciò è vero nella misura in cui lo Stato garantiva, in qualche modo, la liquidità necessaria per far fronte agli stipendi e alle pensioni del comparto pubblico.

Ecco una chiave di lettura fondamentale: la teoria del deficit spending è quanto mai attuale, ma funziona poco o nulla, proprio a causa dell’elevato debito, perché ogni vantaggio elargito finisce per essere pagato e in qualche misura restituito da tutti, anche da coloro che non hanno ricevuto alcun beneficio. E questo, probabilmente, è ciò che accadrà in Italia verso la fine del 2019 e inizio 2020.

Anche le regioni hanno contribuito in modo determinante alla crescita del debito. Già dalla loro nascita nel 1971, hanno influito sui saldi di bilancio della finanza pubblica, causando una forte rigidità di bilancio, come già si è detto, che toglie risorse agli investimenti, quella rigidità finanziaria che ancora oggi è causa di stagnazione e recessione, unitamente a fattori esogeni da ricercare nelle politiche dell’intera UE.

E’ stata una scelta squisitamente politica che ha influenzato le decisioni di bilancio, scegliendo di ricorrere al mercato finanziario (l’ultimo saldo differenziale del quadro generale riassuntivo del bilancio dello Stato), sostenendo per decenni politiche di spesa sul modello Keynesiano, un modello che potrebbe in qualche misura funzionare ancora, ma non in presenza di un debito così elevato e di un tasso di disoccupazione che dovrebbe essere intorno al 4-5%. Tutto ciò nella consapevolezza che il credito di cui si usufruisce vada effettivamente indirizzato verso obiettivi di spesa, che permettano alle generazioni future di godere di un certo grado di benessere, in modo da consentire la restituzione rateizzata del prestito contratto in tempi precedenti. E ci si rende conto che questo meccanismo ideale di rientro del debito appare quanto mai difficile se non addirittura utopico, se non si tengono sotto controllo i conti pubblici con una sistematica e realistica attenzione.

Si nota come i deficit pubblici interni (enti territoriali e Stato) ed esteri siano strettamente collegati e lo dimostra la situazione congiunturale delle bilance commerciali dei Paesi dell’UE. A ragion del vero, la crescita esponenziale del debito pubblico non è la sola causa del deterioramento della situazione economica di alcuni Stati europei, ma a questo si deve aggiungere lo squilibrio nei rapporti di scambio con gli altri sistemi economici. L’effetto “globalizzazione” non avrebbe creato disagi se tutti gli Stati avessero avuto bilanci senza disavanzi di parte corrente e con un debito più vicino al 60% in rapporto al pil, come già individuato nel Trattato di Maastricht nel 1992 e ribadito nelle sue revisioni successive.

Le vicende dei mercati finanziari europei confermano, inoltre, la tesi secondo la quale l’accensione di una crisi del debito sovrano dipende in maggior misura dalla perdita di fiducia soggettiva dei mercati, più che dal superamento degli indici convenzionali e standardizzati (da Maastricht in poi). La reputazione degli Stati, percepita a livello internazionale, ha un ruolo fondamentale nel determinare l’andamento della crisi finanziaria in Europa, a cui segue una crisi economica, dove l’economia “virtuale”, nel tentativo di recuperare velocemente denaro, ha spiazzato quella reale, incidendo quindi sulla fiducia reciproca. Infatti, è proprio la fiducia che gioca un ruolo fondamentale quando uno Stato si trova in fase di incertezza ed instabilità. Dunque, la responsabilità politica è forte e deve dare messaggi rassicuranti, con misure credibili e sostenibili nel lungo periodo.

In Italia, il debito è destinato ad aumentare, nonostante gli sforzi per raffreddarlo, se lo Stato non compensa l’aumento tendenziale annuo della spesa con il taglio di spesa pubblica improduttiva e con le entrate, non derivanti da accensione di prestiti, ma di natura tributaria ed extratributaria (quelle del primo saldo differenziale del quadro generale riassuntivo del bilancio dello Stato)[6]. La revisione della spesa sistematica, selettiva e progressiva è una scelta seria, sul modello Cottarelli che si è sperimentato con successo e che dovrebbe, ad avviso di chi scrive, proseguire. Infatti, le politiche espansive che un governo ha il dovere di mettere in atto sono sicuramente positive, ma vengono spesso vanificate proprio dall’eccesso di debito che corrode le risorse finanziarie acquisite[7].

L’evoluzione inefficiente della spesa pone, inoltre, l’accento sulla scarsa sensibilità di quegli Stati che insistono a finanziare in deficit il loro funzionamento. In tal modo il debito si autoalimenta, non avendo lo Stato le risorse necessarie a fronteggiare i pagamenti. Si pensi alla spirale del debito come ad una molla di un vecchio divano, ad ogni giro si scende di livello, aumentando capitale ed interessi passivi da pagare. Il guaio è che gli interessi passivi vanno a collocarsi tra le spese correnti, e ne costituiscono una parte rilevante, rendendo il bilancio rigido. La remunerazione degli interessi sul prestito già acquisito ha superato il 10% della spesa totale dello Stato; quindi, ci si trova con un debito che anziché essere “fisiologico”, quindi accettabile, è divenuto “patologico” e causa di difficoltà nel raggiungere e rispettare i vincoli di bilancio come il pareggio, vincolo di natura costituzionale (art. 81 Cost., riformato nel 2012).

La responsabilità delle regioni nella gestione del debito non è marginale. Anzi, dalla fine degli anni settanta è stata una delle ragioni di incremento del debito, godendo le regioni in quegli anni, a differenza di oggi, di sola finanza di trasferimento (cfr. l’art. 119 Cost. riformato).

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Si è anche osservato che “qualsiasi nazione, come qualsiasi individuo, prendendo un prestito ama giocare con il proprio futuro”[8]. Ma si tratta di un gioco ad alto rischio, perché se non si contiene il gioco entro certi limiti il debito danneggia la generazione che lo contrae e soprattutto quella successiva che dovrà restituirlo, compromettendo la qualità di vita delle persone. Fondare in modo azzardato e costante la copertura finanziaria con il debito significa, inoltre, compromettere la “legittimazione” democratica delle decisioni di bilancio; con legittimazione si intende una provenienza dal basso, dalla collettività, che riconosce in qualche misura la rilevanza di un comportamento giuridicamente qualificato, in base al principio di “effettività” della norma giuridica. Ben inteso, che l’impalcatura di questo ragionamento è costituita prevalentemente dal principio della buona fede, un principio di natura civilistica che da il senso al concetto di legittimazione e su cui si basa la fiducia collettiva.

Si è detto che “il regime democratico-rappresentativo scopre la propria debolezza di fronte ai vincoli della finanza pubblica, in particolare la produzione di elevati disavanzi di bilancio e l’aumento del debito pubblico”[9]. In questo caso si nota un’evidente discrepanza tra decisione e responsabilità. Le generazioni future che saranno destinate a pagare, e non si sa bene con quali sacrifici, il debito attuale, non potranno esprimersi con il consenso elettorale attuale; mentre chi vota oggi condividendo scelte azzardate non sarà in grado di manifestare un controllo democratico attraverso i meccanismi di dissenso e di protesta, quando gli effetti negativi delle scelte operate emergeranno con tutte le loro conseguenze e ricadute in ambito economico e sociale.

Del resto, come già detto, far leva sul debito anziché incrementare le entrate fiscali o ridurre le spese secondo la logica della spending review è premiante dal punto di vista del consenso, perché il debito è opaco, consente di vedere meno ciò che sta al di là, al contrario dell’imposta. Posticipando, inoltre, le decisioni più difficili i governi si garantiscono consenso e potere, fino a quando le condizioni esterne legate per lo più all’andamento dei mercati finanziari, le rendono inevitabili e non più rinviabili. Ecco spuntare le emergenze di risanamento dei bilanci pubblici, che sono in grado di giustificare così le decisioni impopolari, che dagli elettori vengono percepiti, in un primo momento, come l’ultimo salvagente per non affondare, innescando nella società la paura del fallimento (default) dello Stato[10]; in un secondo momento come un’imposizione europea eccessiva e pretestuosa che limita la sovranità interna dello Stato.

Le politiche macroeconomiche degli Stati che hanno aderito all’euro, con un riferimento particolare dal 2010 ad oggi, possono essere lette con differenti sfumature concettuali. Innanzitutto serpeggia la convinzione che la crisi dei debiti sovrani si possa affrontare con la ricostruzione degli equilibri di bilancio, con conseguente rallentamento del ricorso al mercato finanziario (indebitamento); in secondo luogo, la ricerca dei criteri a favore della ripresa economica va nel senso delle riforme strutturali (in tutta Europa), per rendere più flessibile il versante dell’offerta nel sistema economico complessivo[11]. Questo ragionamento, non certamente privo di una sua ratio, è criticabile, come se si fosse lasciato spazio a politiche di bilancio prigioniere della rigidità finanziaria, trascurando un’efficace programmazione degli obiettivi di crescita e di occupazione, soprattutto in Italia. La politica di bilancio, unitamente alla politica fiscale e monetaria, dovrebbe essere collocata più al centro e in una diversa prospettiva, in modo da consentirle l’esercizio della funzione che le è propria, cioè progettare e coltivare le scelte pubbliche più adeguate al soddisfacimento dei bisogni delle persone, un obiettivo che non dovrebbe mai essere messo in secondo piano.

Il rispetto dei valori fondanti dell’ordinamento giuridico implica la necessità di scelte operate da autorità democraticamente legittimate, verso il traguardo della fiscal union, cioè l’omogeneità delle politiche di bilancio in Europa. Contestualmente, occorre progettare l’armonizzazione dei sistemi di bilancio e dei conti pubblici, tentando di intraprendere con coraggio anche l’armonizzazione dei sistemi fiscali, con l’effetto di trovare una maggiore perequazione a livello europeo, anche se l’impressione è che la maturità di quest’Europa non sia ancora sufficiente a tale scopo. Questo garantirebbe con più vigore la difesa e la protezione delle moneta unica, che non ha alternativa se non pagando un prezzo molto elevato.

In ultima analisi, si potrebbero rimettere in moto quei procedimenti di trasferimento di risorse ispirati ai modelli di solidarietà, a cui fa riferimento l’intera Unione europea, attivando anche meccanismi per il recupero delle situazioni di povertà. Di certo, una maggior equità fiscale e minor concorrenza sleale da parte delle imprese per l’affannosa ricerca di bassi costi ed alti profitti, porterebbe il sistema Europa verso la prospettiva del raggiungimento di un equilibrio, che successivamente avrebbe magari il senso di chiamarsi “Stati Uniti d’Europa”.

Infine, credere maggiormente nello sviluppo di una political union, un progetto di promozione umana e sviluppo sociale a livello europeo[12].

I principi e gli ideali che hanno ispirato le Costituzioni europee potrebbero essere ripresi, confermati e garantiti da una Costituzione europea che i Paesi membri devono trovare il coraggio di approvare in tempi brevi; ciò consentirebbe di affermare la capacità delle istituzioni di governare le risorse e razionalizzare le spese centralmente, rendendo accessibili a tutti beni, servizi e opportunità, che singolarmente i Paesi membri non sono più in grado di garantire, se non a costi molto elevati (si pensi, per esempio, ai servizi sanitari e sociali).

Il reperimento delle risorse, la razionalizzazione delle spese, il funzionamento complessivo del Trattato dell’Unione europea e il suo adeguamento alle logiche interne dei Paesi membri, sono tre fattori che si dovranno tener presente se si vuole ancora parlare di Europa in senso costruttivo, con il contributo di tutti, nell’ottica della “responsabilità”, a cui siamo chiamati.

Note

[1] Cfr. M. Battistini, A National Blessing: debito e credito pubblico nella fondazione atlantica degli Stati Uniti d’America, in “Scienza e politica”, 48, 2013, p. 18.

[2] Cfr. S. Cassese, Governare gli Italiani. Storia dello Stato, Bologna, Il Mulino, 2013, p. 33.

[3] Cfr. P. Canziani, F. Giavazzi, P. Manasse, G. Tabellini, Riforme istituzionali e rientro da un alto debito pubblico, in V. Conti, R. Hamaui (a cura di), Il mercato dei titoli di Stato in Italia, Bologna, Il Mulino, 1993, p. 214; L. Pennacchi, L’eguaglianza e le tasse. Fisco, mercato, governo e libertà, Roma, Donzelli, 2004, pp. 79-80.

[4] Si veda la ricognizione storica di N. Ferguson, C.S. Maier, E. Manela, D.J. Sargent (a cura di), The Shock of the Global. The 1970s in Perspective, Cambidge (MA), Harvard University Press, 2010.

[5] A tal proposito si veda N. Delalande, Les batailles de l’impòt. Consentement et résistances de 1789 à nos jour, Paris, Seuil, 2011; inoltre si segnala l’interessante lavoro di Th. Piketty, Il capitale nel XXI secolo, trad. it., Milano, Bompiani, 2014, in particolare il cap. 16, pp. 861 ss; W.B. Heller, Bicameral and Budget Deficits: The Effect of Parliamentary Structure on Gouvernement Spending, in “Legislative Studies Quarterly”, XXII, 4, 1997, pp. 485-516; W. Santagata, Economia, elezioni interessi. Un’analisi dei cicli economici elettorali in Italia, Bologna, Il Mulino, 1995; L. Verzichelli, La politica di bilancio, Bologna, Il Mulino, 1999, p. 79 e pp. 199-218.

[6]In sostanza, la differenza tra le entrate tributarie più quelle extratributarie e le spese correnti determina il saldo differenziale chiamato “risparmio pubblico”; se è negativo, diviene un “consumo pubblico di risorse private”, quando per es. le spese correnti che contengono l’ammontare degli interessi passivi sul debito, superano le entrate correnti. La politica ha tentato di “addomesticare” questo saldo, depurando le spese correnti dagli interessi passivi generati dal debito pubblico (avanzo primario), in modo da far rilevare che senza questo fardello la differenza sarebbe positiva, quindi meritevole per il governo che la sta rivendicando. Ma, secondo chi scrive, è un’operazione meramente algebrica, che non cura gli squilibri di bilancio, ben sapendo che bisogna “fare i conti con l’oste”, altrimenti ci si trova in un mare di difficoltà.

[7] Si vedano gli autorevoli approfondimenti di C. Cottarelli, in I sette peccati capitali dell’economia italiana, Feltrinelli, 2018; Id., La spendine review. Un bilancio, Istituto Bruno Leoni, IBL libri, 2015; Id., Il macigno, Feltrinelli, 2016; Id., La lista della spesa, Feltrinelli, 2015. Sul debito pubblico e sulla sua incidenza nel sistema economico si veda

[8] J. Attali, Come finirà?L’ultima chance del debito pubblico, Fazi Editore, Roma, 2010, p. 182. D. Graebner, Debito. I primi 500 anni, Milano, Il Saggiatore, 2012, p. 12

[9] L. Verzichelli, La politica di bilancio, Il Mulino, Bologna, 1999, p. 11

[10] L. Bini Smaghi, Austerity European Democracies against the Wall, Centre for European Policy Studies (CEPS), Brussels, p. 1 ss.

[11]P. De Grauwe, Macroeconomic Policies in the Eurozone since the Sovereign Debt Crisis, KU Leuven Euroforum, 2014, p. 16 ss.

[12] F. Pizzolato, Integrazione giuridica e identità plurale dell’Unione europea, in Anthopologica, 2014, dove vi sono interessanti riflessioni sulle varie forme di integrazione politica e giuridica dell’ordinamento sovranazionale.

Prof. Gaboardi Franco

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