La regolamentazione dei phone center

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1. I Phone center: definizione e problematiche sottostanti.

I Phone center possono essere definiti quali esercizi pubblici nei quali viene offerto il servizio di telefonia potendovi effettuare comunicazioni telefoniche di norma internazionali a tariffe agevolate rispetto a quelle ordinarie. Si tratta dunque di esercizi aperti al pubblico gestiti prevalentemente, ma non esclusivamente, da cittadini extra comunitari e rivolti proprio ai cittadini stranieri che hanno, per ovvi motivi, esigenza di contattare telefonicamente il proprio paese di provenienza a tariffe scontate. Volendo individuare una definizione di “phone center” in diritto positivo si potrà fare riferimento all’art. 2, comma 2 lettera b) della legge Regione Lombardia 3 marzo 2006, n. 6 che, nel regolamentare nel territorio lombardo “l’insediamento e la gestione dei centri di telefonia in sede fissa” definisce tali centri quali “qualsiasi struttura ove è svolta l’attività commerciale in via esclusiva di cessione al pubblico di servizi telefonici”. Sulla legge lombarda si tornerà più avanti ma non si può non rilevare, già in sede di primo inquadramento dell’oggetto di trattazione del presente lavoro, che i centri multi-servizi non vengono disciplinati dalla legge la quale, all’art. 2, comma 3, chiarisce che “nei centri di telefonia in sede fissa sono ammesse le sole attività di cui al comma 2, lettera b)” ossia la “cessione al pubblico di servizi telefonici” individuata quale “attività commerciale che importi una connessione telefonica o telematica allo scopo di fornire servizi di telefonia vocale indipendentemente dalle tecnologie di commutazione utilizzate, da realizzarsi nei locali o nelle superfici aperti al pubblico e a tale scopo attrezzati, nonché l’attività di vendita di schede telefoniche”. Prosegue il comma 3 dell’articolo citato consentendo altresì “l’installazione di distributori automatici di bevande ed alimenti”.

Quello dei phone center, comunque li si definisca nel tentativo di dare loro una disciplina, è un fenomeno che, da qualche anno ad oggi, si sta estendendo a macchia d’olio nei centri urbani italiani e che suscita una certa preoccupazione nell’opinione pubblica. Va detto che tali centri, oltre a generare un giro d’affari di tutto rispetto, stanno anche sviluppando un significativo indotto imprenditoriale che fornisce tutte le tecnologie, i moduli ed il traffico telefonico necessari per l’installazione e l’avviamento. Il semplice "phone center", poi, è solo il primo stadio di un’evoluzione che approderebbe (il condizionale è d’obbligo viste le restrizioni di cui alla legge lombarda) ai centri multi-servizi dove accanto alle cabine telefoniche si troveranno computer per navigare su internet (internet point), fotocopiatrici, sportello per spedire a casa i propri risparmi e distributori per la somministrazione di bevande e alimenti.

Si diceva poc’anzi che tali centri di telefonia generano una certa preoccupazione nell’opinione pubblica. In realtà non è tanto l’attività in sé a destare allarme quanto piuttosto le attività collaterali (talvolta illecite) in taluni casi riscontrate e i fenomeni di assembramento di persone, specie in orari notturni, che hanno creato preoccupazione in ambito di tutela dell’ordine pubblico.

In una prima fase di nascita di tali centri servizi le amministrazioni comunali e le forze di polizia si sono trovate prive di specifici strumenti normativi per regolamentare, e quindi controllare, il fenomeno. Così le amministrazioni comunali prima, il governo poi, ed ora le regioni, hanno approvato atti finalizzati alla gestione del fenomeno in esame.

2. La normativa nazionale in ambito di phone center.

Un primo riscontro normativo individuabile a livello nazionale all’interno del quale si possono far ricadere i phone center (e gli internet point) è sicuramente individuabile nel cosiddetto Codice delle Comunicazioni Elettroniche di cui al d.lgs 1 agosto 2003, n. 259. Tale normativa, emanata prima del boom dei phone center, assoggetta tali esercizi ad un obbligo di comunicazione. L’articolo 25 del menzionato decreto, infatti, definisce “libera” l’attività di fornitura di reti o servizi di comunicazione elettronica fatte salve le limitazioni presenti nello stesso decreto e “le eventuali limitazioni introdotte da disposizioni legislative regolamentari e amministrative che … siano giustificate da esigenze della difesa e della sicurezza dello Stato e della sanità pubblica, compatibilmente con le esigenze della tutela dell’ambiente e della protezione civile, poste da specifiche disposizioni, ivi comprese quelle vigenti alla data di entrata in vigore del Codice”. Attività libera, dunque, ma sottoposta a possibili limitazioni come anche indicato nell’articolo 3, comma 3 dello stesso decreto legislativo. Rimaniamo all’interno del Codice delle comunicazioni elettroniche per esaminare il comma 4 dell’articolo 25 laddove si stabilisce che le imprese interessate ad esercitare l’attività di fornitura di servizi di comunicazione presentano al Ministero delle Comunicazioni una dichiarazione resa dalla persona fisica titolare ovvero dal legale rappresentante della persona giuridica (o delegati), contenente l’intenzione di iniziare la fornitura di reti o servizi di comunicazione elettronica, unitamente alle informazioni strettamente necessarie per consentire al Ministero di tenere un elenco aggiornato di tali fornitori. Tale dichiarazione, conforme ad un modello approvato in allegato al decreto stesso (allegato n. 9), costituisce dichiarazione di inizio attività. L’impresa è pertanto abilitata ad iniziare la propria attività. Il Ministero – qui il riferimento è all’art. 19 della legge n. 241/90 ante riforma – verifica entro e non oltre 60 giorni dalla denuncia la sussistenza dei requisiti e dei presupposti richiesti e dispone, se del caso, con provvedimento motivato da notificare agli interessati entro il medesimo termine, il divieto di prosecuzione di attività. Le imprese titolari dell’autorizzazione di cui sopra sono tenute all’iscrizione nel registro degli operatori di comunicazione di cui all’articolo 1 della legge 31 luglio 1997, n. 249. Tale autorizzazione, definita dal comma 3 dell’articolo 25, “generale” ha validità ventennale e può essere ceduta a terzi, anche parzialmente e sotto qualsiasi forma, previa comunicazione al Ministero da parte dell’impresa cedente. Il Ministero verificherà in capo al cessionario il possesso dei requisiti oggettivi e soggettivi richiesti (comma 8). Sorge spontaneo domandarsi quali siano i requisiti necessari per non ricevere dal Ministero un diniego alla prosecuzione dell’attività. A tal fine è necessario il certificato di iscrizione alla Camera di commercio, industria, artigianato ed agricoltura, comprensivo del nullaosta antimafia, ai sensi del decreto legislativo 8 agosto 1994, n. 490 e del decreto del Presidente della Repubblica 3 giugno 1998, n. 252; oppure il certificato equipollente per soggetti dichiaranti con sede in uno dei Paesi dell’Unione europea o in Paesi non appartenente all’Unione europea con i quali vi siano accordi di piena reciprocità. E’ poi necessario il certificato da cui risulti che gli amministratori che rappresentano legalmente la società o il titolare dell’impresa non siano stati condannati a pena detentiva per delitto non colposo superiore ai sei mesi e non sono sottoposti a misure di sicurezza e di prevenzione; oppure certificato equipollente per soggetti dichiaranti con sede in uno dei Paesi dell’Unione europea o in Paesi non appartenente all’Unione europea con i quali vi siano accordi di piena reciprocità.

Ulteriore dubbio è rappresentato dal fatto che la norma cita espressamente l’art. 19 della legge n. 241/90 sul procedimento amministrativo facendo riferimento però al testo anteriore alla riforma di cui al D.L. 14 marzo 2005, n. 35 (cd. decreto competitività) che, come noto, prevede il deposito della denuncia di inizio d’attività, uno stato di blocco di attività di almeno 30 giorni e la notifica dell’avvio effettivo dell’attività all’ente autorizzante per potere intraprendere l’esercizio. Naturalmente se si fosse fatto esclusivo riferimento all’art. 19 della legge 241/90 ci si dovrebbe assoggettare a tale novella legislativa. Il fatto di avere però descritto nel corpo dell’art. 25 del Codice delle Comunicazioni la vecchia procedura della legge n. 241/90 (D.I.A., inizio immediato dell’attività salvo notifica di divieti di prosecuzione) fa salva la D.I.A. ante riforma, sicuramente preferibile alla versione vigente. Si noti ancora che con Delibera n. 102/03/CONS del 15 aprile 2003 recante “Disposizioni regolamentari in materia di autorizzazioni generali” l’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni ha precisato che “la semplice messa a disposizione di una apparecchiatura terminale di rete, in ogni caso conforme alle vigenti disposizioni in materia di omologazione, approvazione, compatibilità elettromagnetica e sicurezza elettrica, connessa ad un punto terminale di una rete pubblica di un gestore di rete, non costituisce un servizio pubblico di telecomunicazioni offerto da chi mette a disposizione tale apparecchiatura, allorquando gli obblighi di settore relativi alla fornitura del servizio stesso e di quelli relativi alla fornitura e gestione della rete pubblica, anche eventualmente mediante accordi tra le parti, sono assolti dal detto gestore di rete, ed i clienti che utilizzano tale apparecchiatura sono chiaramente informati delle modalità e delle condizioni di erogazione del servizio stesso, fatte salve le norme vigenti specifiche in materia di esercizio del commercio e pubblica sicurezza.” Per cui – per gli effetti del d.lgs 259/03 – non si considera fornitore di un servizio pubblico di telecomunicazioni necessitante di autorizzazione generale quell’esercente l’attività commerciale, quale ad esempio gestore di bar, albergo, pizzeria, tabaccheria, che, non avendo come oggetto sociale principale l’ attività di telecomunicazioni, mette a disposizione della propria clientela le apparecchiature terminali di rete.

Diversa la filosofia, e l’urgenza, che ispira il secondo provvedimento normativo nazionale che riguarda i phone center. Il riferimento è al cosiddetto decreto legge Pisanu, ovvero il D.L. 27 luglio 2005, n. 144 convertito nella legge 31 luglio 2005, n. 155 recante “Misure urgenti per il contrasto del terrorismo internazionale” approvato dopo l’attentato terroristico di Londra 2005. L’articolo 7 del decreto, recante “Integrazione della disciplina amministrativa degli esercizi pubblici di telefonia e internet” fa rientrare nell’alveo della legislazione di pubblica sicurezza le attività di phone center e internet point demandando al Questore la competenza amministrativa in materia. Si tratta di una misura di grande rilievo in quanto consente di utilizzare nei confronti dei phone center gli strumenti repressivi di cui al Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza approvato con R.D. 18 giugno 1931, n. 773. A decorrere dal 17 agosto 2005 e sino al 31 dicembre 2007, infatti, chiunque intende aprire un pubblico esercizio o un circolo privato di qualsiasi specie, nel quale sono posti a disposizione del pubblico, dei clienti o dei soci apparecchi terminali utilizzabili per le comunicazioni anche telematiche, deve chiederne la licenza al Questore. Anche i phone center già aperti alla data di entrata in vigore della legge dovevano entro il 26 settembre 2005 chiedere la licenza. Per il rilascio della licenza di polizia in discorso opera il meccanismo del silenzio assenso per cui “la licenza si intende rilasciata trascorsi sessanta giorni dall’inoltro della domanda” (art. 7, comma 3). La circolare del Ministero dell’Interno – Dipartimento della Pubblica Sicurezza n. 557/PAS/12989D(22) del 29 agosto 2005 ha chiarito che l’articolo 7 del decreto anti – terrorismo non si applica ai servizi postali né ai servizi di telecomunicazione offerti all’utenza attraverso gli strumenti commerciali propri e, comunque, diversi dalle fattispecie indicate dallo stesso articolo così come non è applicabile alla mera installazione di telefoni pubblici a pagamento abilitati esclusivamente alla telefonia vocale. Il diniego della licenza è suscettibile di ricorso gerarchico al Prefetto oltre che, naturalmente, al ricorso giurisdizionale. Ove le controindicazioni al rilascio della licenza emergessero dopo i sessanta giorni per il silenzio assenso si potrà sempre provvedere in via di autotutela. L’articolo in esame prosegue nel disporre che si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni dei Capi III e IV del Titolo I e del Capo II del Titolo III del Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza di cui al R.D. 18 giugno 1931, n. 773 (d’ora innanzi TULPS), nonché le disposizioni vigenti in materia di sorvegliabilità dei locali adibiti a pubblici esercizi, ovvero il D.M. 17 dicembre 1992, n. 564. L’applicabilità della normativa sulla sorvegliabilità comporta che i locali da adibire a phone center o internet point devono avere caratteristiche costruttive tali da non impedire la sorvegliabilità delle vie d’accesso o d’uscita. Più precisamente sarà necessario che porte o altri ingressi consentano l’accesso diretto dalla strada, piazza o altro luogo pubblico e non siano utilizzati per l’accesso ad abitazioni private. Anche in caso di locali parzialmente interrati gli accessi dovranno essere visibili dalla strada, mentre nel caso di locali ubicati ad un livello o piano superiore a quello stradale la visibilità esterna deve essere comunque verificata e l’autorità di pubblica sicurezza può dettare prescrizioni per garantire illuminazione e segnalazione idonea degli accessi e la chiusura di ulteriori vie d’accesso o d’uscita. Le suddivisioni interne dei locali, inoltre, non possono essere chiuse da porte o grate munite di sistemi che non consentano un immediato accesso (eccetto che per i servizi igienici e i vani non aperti al pubblico).

L’applicazione di tali norme potrà garantire agli organi di vigilanza idonei strumenti per controllare e, se del caso, reprimere le attività illecite che, si è ritenuto, si accompagnano talvolta agli esercizi di phone center e internet point. Infatti i citati capi del TULPS dettano norme generali in ambito di “autorizzazioni di polizia”, di “inosservanza degli ordini dell’autorità di pubblica sicurezza e delle contravvenzioni” e di “esercizi pubblici”. Da ciò si ricava che le licenze di competenza del Questore in ambito di phone center e internet point sono state fatte rientrare nell’alveo delle autorizzazioni di polizia e che tali esercizi sono considerati quali esercizi pubblici. In particolare l’applicazione del Titolo I – capo III del TULPS comporta l’applicazione dell’art. 8 (personalità delle autorizzazioni di polizia), dell’art 9 (possibilità di inserire nell’autorizzazione prescrizione a tutela del pubblico interesse), dell’art. 10 (revoca o sospensione dell’autorizzazione per abuso della persona autorizzata), art. 11 (requisiti per i quali debbono o possono essere negate le autorizzazioni). Il Capo IV, invece, reca le sanzioni pecuniarie e accessorie che seguono l’inosservanza degli ordini dell’autorità di pubblica sicurezza e delle prescrizioni delle autorizzazioni. Tale ambito sarà trattato in una parte successiva del presente lavoro. Il Capo II del Titolo III, invece, fa rientrare le attività in esame tra gli esercizi pubblici; ciò comporta l’applicazione dell’art. 93 (ammette la rappresentanza nella licenza), art. 92 (introduce ulteriori requisiti ostativi soggettivi) e soprattutto art. 100 che consente al Questore di sospendere o revocare la licenza di esercizio nel quale siano avvenuti tumulti o gravi disordini o che sia abituale ritrovo di persone pregiudicate o pericolose o che, comunque, costituisca un pericolo per l’ordine pubblico, per la moralità e il buon costume o per la sicurezza dei cittadini. Trattandosi di autorizzazione di polizia risulterà poi applicabile l’articolo 16 del TULPS in base al quale i controlli avvengono a mezzo di ufficiali e agenti di pubblica sicurezza. Saranno infine applicabili disposizioni sanzionatorie di cui agli articoli 17 e seguenti del TULPS su cui ci si sofferma nei paragrafi successivi del presente lavoro.

Ai sensi dell’art. 7, comma 4 il Ministro dell’Interno, di concerto con il Ministro delle Comunicazioni e con il Ministro per l’innovazione e le tecnologie, ha poi emanato un decreto per regolamentare le misure di preventiva acquisizione di dati anagrafici dei soggetti utilizzatori di postazioni pubbliche non vigilate per comunicazioni telematiche ovvero punti di accesso ad internet tramite tecnologia senza fili. Si tratta del Decreto Ministero Interno 16 agosto 2005 sul quale ha rilasciato un quanto mai opportuno parere il Garante per la protezione dei dati personali.

L’art. 1 impone che i titolari o gestori di un esercizio pubblico o di un circolo privato di qualsiasi specie nel quale sono poste a disposizione del pubblico, dei clienti o dei soci, apparecchi terminali utilizzabili per le comunicazioni, anche telematiche, esclusi i telefoni pubblici a pagamento abilitati esclusivamente alla telefonia vocale, sono tenuti a ad adottare le misure fisiche o tecnologiche occorrenti per impedire l’accesso agli apparecchi terminali a persone che non siano preventivamente identificate; ad identificare chi accede ai servizi telefonici e telematici offerti, prima dell’accesso stesso o dell’offerta di credenziali di accesso, acquisendo i dati anagrafici riportati su un documento di identità, nonché il tipo, il numero e la riproduzione del documento presentato dall’utente; ad adottare le misure occorrenti per il monitoraggio delle attività; ad informare, anche in lingue straniere, il pubblico delle condizioni d’uso dei terminali messi a disposizione; a rendere disponibili, a richiesta, anche per via telematica, i dati acquisiti esclusi comunque i contenuti delle comunicazioni, al Servizio polizia postale e delle comunicazioni, quale organo del Ministero dell’interno preposto ai servizi di polizia postale e delle comunicazioni, nonché, in conformità al codice di procedura penale, all’autorità giudiziaria e alla polizia giudiziaria; ad assicurare il corretto trattamento dei dati acquisiti e la loro conservazione fino al 31 dicembre 2007. Il comma 2 dell’articolo in esame dispone poi che l’accesso del servizio polizia postale e delle comunicazioni di cui al comma 1, lettera e), può comprendere i dati del traffico telematico solo se effettuato previa autorizzazione dell’autorità giudiziaria in conformità alla legge in vigore.
I dati acquisiti sono raccolti e conservati con modalità informatiche. Per gli esercizi o i circoli aventi non più di tre apparecchi terminali a disposizione del pubblico, i predetti dati possono essere registrati su di un apposito registro cartaceo con le pagine preventivamente numerate e vidimate dalla autorità locale di pubblica sicurezza ove viene registrato anche l’identificativo della apparecchiatura assegnata all’utente e l’orario di inizio e fine della fruizione dell’apparato.

L’articolo 2 del decreto ministeriale impone anche obblighi di monitoraggio delle attività. I titolari dei phone center e internet point devono memorizzare e mantenere i dati relativi alla data e ora della comunicazione e alla tipologia del servizio utilizzato, abbinabili al terminale utilizzato dall’utente esclusi i contenuti delle comunicazioni. I dati andranno mantenuti senza possibilità di accesso a soggetti non autorizzati sino al 31 dicembre 2007.

3. La legge Regione Lombardia 3 marzo 2006, n. 6.

La prima regione italiana che ha approvato una legge in materia di phone center ed internet point è stata la Lombardia che, con legge 3 marzo 2006, n. 6 pubblicata nel BURL del 7 marzo 2006 n. 10, I S.O. ha emanato “Norme per l’insediamento e la gestione di centri di telefonia in sede fissa”. La Regione Lombardia richiama gli articoli 117 e 118 secondo comma della Costituzione inquadrando la materia nelle competenze di regioni e comuni sul commercio (art. 1). Il commercio, come noto, rientra tra le materie di competenza legislativa esclusiva regionale ai sensi dell’art. 117 Cost. mentre le funzioni amministrative in proposito appartengono ai comuni salvo laddove diversamente indicato. L’art. 2, comma 2, lettera a) definisce il centro di telefonia fissa quale “qualsiasi struttura ove è svolta l’attività commerciale in via esclusiva di cessione al pubblico di servizi telefonici”, mentre questi ultimi sono definiti alla lettera b) quali “ogni attività commerciale che importi una connessione telefonica o telematica allo scopo di fornire servizi di telefonia vocale indipendentemente dalle tecnologie di commutazione utilizzate, da realizzarsi nei locali o sulle superfici aperti al pubblico e a tale scopo attrezzati, nonché l’attività di vendita di schede telefoniche”. Come già anticipato, la legge lombarda (art. 2, comma 3) ammette nei centri di telefonia fissa solamente le attività sopra riportate di cui alla lettera b) oltre all’installazione di distributori automatici di bevande ed alimenti nel rispetto delle procedure previste dalle leggi vigenti in materia (art. 17 d.lgs n. 114/98 e art. 32 D.P.R. n. 327/80). L’articolo 3 detta invece i requisiti morali in capo ai titolari o ai gestori per l’esercizio dell’attività di cessione di servizi di telefonia in sede fissa. Tali requisiti, in caso di gestione societaria dell’attività, devono essere posseduti da tutti i soci per le società di persone e dal legale rappresentante per le società di capitali. L’articolo 4 prevede in capo al comune territorialmente competente il rilascio di specifica autorizzazione per l’attività in discorso. Con la domanda si devono indicare denominazione o ragione sociale, residenza o sede legale, nazionalità del richiedente, ubicazione dei locali. Si devono poi dichiarare il possesso dei requisiti morali richiesti, la disponibilità dei locali, il gestore se diverso dal richiedente, presentare il certificato igienico sanitario relativo a locali e superfici, dichiarare l’adempimento delle normative in materia di sicurezza sul lavoro e prevenzione incendi. L’accoglimento o il rigetto dell’istanza è comunicato all’interessato entro 90 giorni dalla presentazione della domanda. Naturalmente, il rigetto dell’istanza dovrà essere preceduto dal preavviso di diniego ex art. 10 bis della legge n. 241/90. Il comma 5, un po’ pleonasticamente, specifica che prima di iniziare l’attività il richiedente dovrà porsi in regola con le norme, prescrizioni e autorizzazioni in materia edilizia, urbanistica ed igienico – sanitaria, nonché con le disposizioni sulla destinazione d’uso dei locali e degli edifici, prevenzione incendi e sicurezza. Il comune invia poi i dati dell’autorizzazione rilasciata alla camera di commercio, industria, artigianato e agricoltura che, ai sensi del successivo art. 5, cura il registro dei centri di telefonia in sede fissa accessibile in via telematica a Regione, comuni, prefetture, questure e organi di vigilanza in genere. L’articolo 6 detta norme in materia di orari riprendendole dalla materia del commercio. I centri di telefonia fissa possono restare aperti al pubblico tutti i giorni della settimana dalle ore 7 alle 22. Gli esercenti non potranno comunque superare il limite delle tredici ore giornaliere. I comuni possono autorizzare l’apertura anticipata o la chiusura posticipata di due ore su istanza motivata. Va comunque osservata la chiusura di una giornata settimanale. L’orario deve essere pubblicizzato all’interno e all’esterno del locale. L’articolo 7 detta invece norme sulla localizzazione dei centri di telefonia fissa. Si prescrive ai comuni, attraverso gli atti di PGT (piano di governo del territorio) ovvero con variante allo strumento urbanistico vigente, di individuare gli ambiti territoriali nei quali è ammessa la localizzazione dei centri di telefonia fissa e di definirne la disciplina urbanistica. Nelle more di tali atti non è consentita l’apertura di nuovi centri di telefonia in sede fissa né la rilocalizzazione dei centri preesistenti. Di fatto la Regione Lombardia congela la situazione dei phone center e degli internet point sino alle modifiche degli strumenti urbanistici di competenza comunale. L’articolo 8 detta poi, ad integrazione dei regolamenti locali d’igiene, i requisiti igienico – sanitari dei locali e delle superfici aperte al pubblico ove si svolge l’attività di cessione di servizi di telefonia. L’articolo 9 prevede i casi di revoca dell’autorizzazione e di sospensione dell’attività (mancata attivazione dell’esercizio, perdita requisiti soggettivi, mancato adempimento obblighi edilizi, urbanistici, igienico sanitari, prevenzione incendi, sicurezza, perdita disponibilità dei locali, ecc.). L’articolo 10 detta norme in ambito di vigilanza e sanzioni. Si noti che l’articolo rimanda alle sanzioni amministrative pecuniarie di cui all’art. 17 bis, commi 1 e 3 del R.D. 18 giugno 1931, n. 773 (Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza) e alle sanzioni accessorie della cessazione dell’attività abusiva o della sospensione dell’attività sino all’uniformazione alle prescrizioni violate di cui agli articoli 17 ter e quater del medesimo testo unico. Il rimando alle norme del TULPS per l’impianto sanzionatorio scaturisce con ogni evidenza dalla già esaminata legge n. 155/05 di conversione del decreto legge Pisanu. L’articolo 11 affida poi i compiti di vigilanza sulla legge regionale in esame e sui regolamenti comunali attuativi alla polizia locale che, come noto, è stata regolamentata in Lombardia con una legge apposita (legge regionale 14 aprile 2003, n. 4). L’articolo 12, infine, dà tempo un anno dall’entrata in vigore della legge in esame per porsi in regola con le vigenti norme, prescrizioni e autorizzazioni in materia edilizia, urbanistica ed igienico – sanitaria previste dalla legge stessa. In sede di commento va innanzitutto positivamente rilevato che l’iniziativa legislativa della Regione Lombardia è la prima in Italia. Lo strumento della legge regionale, che lasci liberi i comuni di esercitare la propria autonomia, è, a parere di chi scrive, il corretto strumento per disciplinare il mondo sempre più vasto dei phone center e degli internet point. Tecnicamente la legge appare chiara e organica nei vari punti che disciplina. Dal punto di vista del merito si segnala però il congelamento di fatto operato alle apertura di nuovi centri di telefonia o alla nuova localizzazione degli esistenti. La legge regionale non pone dei termini per le modifiche urbanistiche necessarie per cui è prevedibile che molti comuni lombardi non porranno tali adempimenti in cima alle proprie priorità dovendo soprattutto rispondere ad una comunità in parte allarmata dal proliferare di tali centri.

4. Le normative comunali.

I primi soggetti istituzionali che hanno sentito la necessità di disciplinare l’attività dei phone centersono stati i comuni, spinti da un’opinione pubblica che poco ne tollerava l’incontrollato proliferare. Molti comuni sono intervenuti con ordinanze sindacali che ne limitavano l’orario di attività. Alcuni di essi hanno anche introdotto norme, talvolta molto severe, per disciplinarne i requisiti igienico – edilizi. Uno dei primo comuni che ha assunto provvedimenti in proposito è stato il Comune di Torino che ha introdotto una norma del regolamento d’igiene e una del regolamento di polizia urbana espressamente dedicate ai phone center. Con l’articolo 212 bis del regolamento d’igiene il Comune di Torino ha imposto ai phone center che avviavano l’attività in data successiva all’entrata in vigore della nuova norma il possesso di severi requisiti igienico – edilizi (allacciamento idrico – fognario, sistemi idonei di ventilazione naturale o aerazione artificiale, idonea illuminazione, duplici servizi igienici di cui uno conforme alle norme in materia di superamento di barriere architettoniche, dimensioni cabine, dimensioni area d’attesa, percorsi d’esodo, eliminazione barriere architettoniche, ecc.) da certificare con una sorta di denuncia d’inizio attività e sottoposta a controlli da parte del Dipartimento di Prevenzione dell’ASL e del Comune. Si è dato poi un termine per l’adeguamento dei phone center già esistenti ed operanti alla data di entrata in vigore della norma regolamentare. Il Comune di Torino, argomentando sulla base dell’articolo 50, comma 7 del Testo Unico delle Disposizioni Legislative sugli Enti Locali (d.lgs 267/00) che dispone che il Sindaco è competente, nell’ambito della disciplina regionale e sulla base degli indirizzi espressi dal Consiglio Comunale, a coordinare e riorganizzare gli orari degli esercizi commerciali, dei pubblici esercizi e dei servizi pubblici, al fine di armonizzare l’espletamento dei servizi con le esigenze complessive e generali degli utenti, ha poi emanato un’ordinanza che regola gli orari e le giornate di apertura dei phone center, le modalità di pubblicità dell’orario e i relativi provvedimenti sanzionatori in caso di violazione delle prescrizioni dell’ordinanza. Quasi identica nell’impianto all’ordinanza torinese è poi quella del Comune di Treviso. Anche il Comune di Firenze, sempre ai sensi dell’art. 50, comma 7 del d.lgs n. 267/00 ha emanato un’ordinanza in materia, così come il Comune di Faenza e molti altri. Il tentativo di tutte le ordinanze reperite è, ovviamente, quello di impedire l’apertura dei phone center nelle ore notturne con il conseguente assembramento di persone che ne deriva e le problematiche di ordine pubblico e di disturbo della quiete pubblica che possono sorgere.

Interessante in tema di pronunce dei TAR su provvedimenti comunali in materia di phone center è la sentenza TAR Veneto – sezione III – 9 aprile/5 maggio – 17 giugno 2004 n. 2144 che si è pronunciata sull’ordinanza del Sindaco di Vicenza con la quale si era vietato l’esercizio congiunto negli stessi locali dove vi era offerta al pubblico di servizi di telefonia di altre attività commerciali quali ristorazione, artigianato, vendita al minuto e noleggio e, contestualmente, si erano fissati orari per l’esercizio dell’attività riprendendoli dalla disciplina dell’art. 11 del d.lgs n. 114/98 in materia di commercio. Il TAR Veneto rigettava il ricorso nella parte con la quale si contestava il potere del Sindaco di fissare gli orari dei phone center. L’argomentazione del TAR Veneto si basava proprio sull’articolo 50, comma 7 del d.lgs n. 267/00 e sull’articolo 11 del d.lgs n. 114/98, norme che legittimerebbero il potere sindacale di disciplinare orari e obblighi di chiusure infrasettimanali. Sostiene il TAR Veneto che nell’esercizio di siffatti poteri i comuni sono tenuti ad ispirarsi a finalità di ordine commerciale (salvaguardia dell’interesse dei consumatori, facilitazione delle possibilità di approvvigionamento) e di tutela dei lavoratori nonché, specie nel caso di pubblici esercizi, anche di esigenze attinenti all’ordine e alla sicurezza pubblica. Il TAR rigettava anche l’argomentazione in base alla quale il Codice delle Comunicazioni Elettroniche sancirebbe il principio di libertà delle comunicazioni elettroniche, il diritto di iniziativa economica nel settore e il divieto di canoni od oneri imposti dai comuni diversi da quelli previsti dalla legge. Ciò in quanto l’articolo 25 nell’affermare che l’attività in esame è libera fa comunque salve le “eventuali limitazioni introdotte da disposizioni legislative regolamentari e amministrative… che siano giustificate da esigenze della difesa e della sicurezza dello Stato e della sanità pubblica…” . Il ricorso veniva invece accolto nella parte in cui l’ordinanza sindacale vietava l’esercizio congiunto dell’attività di phone center con altre attività ritenendo già sufficiente, ai fini del controllo del rispetto degli orari, la distinta separazione delle attività svolte nell’esercizio commerciale, dovendosi peraltro, a tali fini, individuare l’attività prevalente onde non utilizzare l’esercizio misto come comodo escamotage per giovarsi degli orari derogatori alla chiusura domenicale ai sensi dell’art. 13 del d.lgs n. 114/98.

5. Gli impianti sanzionatori.

Per quanto concerne gli impianti sanzionatori previsti, si dovrà anche qui distinguere tra le diverse normative operanti nell’ambito della materia oggetto della presente trattazione. Iniziando dalle violazioni al d.lgs n. 259/03 il primo riferimento è l’art. 98 che prevede la sanzione pecuniaria amministrativa da euro 1.500 a 250.000 per l’esercizio dell’attività di fornitore di servizi di comunicazione elettronica in assenza della D.I.A. da inoltrare al Ministero delle Comunicazioni. L’esercizio in difformità a quanto dichiarato è invece punito con la sanzione pecuniaria da euro 3.000 a 58.000. Trattandosi di sanzioni amministrative esse potranno essere estinte pagando entro 60 giorni dall’accertamento una cifra corrispondente al doppio del minimo o al terzo del massimo a seconda di quanto sia più favorevole al trasgressore. Il comma 6 dell’art. 98 prevede anche la possibilità per il Ministero di provvedere a spese del possessore a “suggellare, rimuovere o sequestrare l’impianto abusivo”. L’articolo 103 prevede poi al comma 1 che in caso di inosservanza degli obblighi previsti dal Codice, previa diffida, l’autorizzazione generale possa essere sospesa fino a trenta giorni. Si procede alla revoca allorquando, a seguito dell’applicazione del comma 1, si verifichi ulteriore inosservanza degli obblighi. La decadenza dall’autorizzazione generale è invece pronunciata quando venga meno uno dei requisiti previsti dal Codice. Per ciò che invece concerne l’art. 7 del D.L. 144/05 va detto che l’esercizio dell’attività di phone center o internet point in assenza di licenza di polizia o in violazione degli obblighi inerenti la licenza comporta l’applicazione delle sanzioni di cui al Titolo I – Capo IV del TULPS. Il Decreto del Ministero dell’Interno – Dipartimento della Pubblica Sicurezza n. 557/PAS/12982D(22) del 29 agosto 2005 richiama a tal fine espressamente l’art 17 del TULPS che prevede la sanzione penale dell’arresto fino a tre mesi o l’ammenda fino a euro 206. In realtà sembra a chi scrive che l’art. 7, comma 3 del D.L. 144/05 richiami l’intero Capo II e pertanto anche l’art. 17 bis che pone sanzioni pecuniarie amministrative (da euro 516 a 3098) in caso di violazione delle disposizioni di cui all’art. 9 (prescrizioni della licenza) e art. 86 (norma richiamata sempre dall’art. 7 del D.L. 144/05 e che fa riferimento alla necessità della licenza per avviare esercizi pubblici). Pertanto si ritiene più corretto affermare che l’esercizio dell’attività senza licenza di polizia comporti le sanzioni amministrative di cui all’art. 17 bis e l’ordinanza di cessazione dell’attività abusiva di cui all’art. 17 ter, comma 3 mentre il mancato rispetto delle prescrizioni della licenza comporta, oltre che le sanzioni amministrative di cui all’art. 17 bis, l’ordinanza di sospensione dell’attività per il tempo occorrente a conformarsi ( e comunque non superiore a 3 mesi) di cui all’art. 17 ter, comma 3. L’art. 17, di natura penale, riveste infatti natura residuale rispetto all’art. 17 bis. La violazione delle ordinanze di cui all’articolo 17 ter potrà con ogni evidenza configurare il reato di cui all’art. 650 codice penale (inosservanza dei provvedimenti dell’autorità) . Risulta inoltre applicabile l’art. 100 TULPS in base al quale il questore può sospendere la licenza dell’esercizio qualora si siano verificati tumulti o gravi disordini o che sia abituale ritrovo di persone pregiudicate o pericolose o che, comunque, costituisca un pericolo per l’ordine pubblico, per la moralità e il buon costume o per la sicurezza dei cittadini. La reiterazione dei fatti che hanno portato alla sospensione può portare alla revoca della licenza. Risulta infine applicabile l’articolo 10 del TULPS in base al quale “le autorizzazioni di polizia possono essere revocate o sospese in qualsiasi momento, nel caso di abuso della persona autorizzata. ”L’abuso può configurarsi nel caso di mancato rispetto delle condizioni e prescrizioni indicate nella licenza. Si ricorda a tal proposito che in base all’art. 9 chiunque ottenga una autorizzazione di polizia deve osservare le prescrizioni che l’autorità di pubblica sicurezza ritenga di imporgli nel pubblico interesse. A tal fine se le questure e i comuni che hanno inteso disciplinare phone center e internet point si coordinassero, si potrebbero inserire tra le prescrizioni di cui alla licenza di polizia il rispetto degli orari di apertura e chiusura dettati con le ordinanze comunali nonché il rispetto degli eventuali requisiti igienico sanitari che i locali adibiti alle attività in discorso devono osservare. La violazione di tali prescrizioni consentirebbe di agire ex art. 10 TULPS e sospendere o revocare la licenza rafforzando così la tutela delle norme in esame la cui violazione, in assenza di tale meccanismo, sarebbe semplicemente punita con sanzione pecuniaria amministrativa da euro 25 a euro 500 ai sensi dell’art. 7 bis del d.lgs n. 267/00 estinguibile in 60 giorni col pagamento di euro 50. In assenza dell’inserimento delle norme comunali nelle prescrizioni di cui alla licenza di polizia sarà comunque possibile rafforzare la tutela delle disposizioni locali ricorrendo al sequestro ed eventuale confisca amministrativa delle cose che servirono o furono destinate a commettere la violazione, ai sensi dell’art. 20, comma 3 della legge 24 novembre 1981, n. 689 recante “Modifiche al sistema penale” che, per gli effetti dell’art. 12 della medesima legge, si applica per tutte le violazioni per le quali è prevista la sanzione amministrativa del pagamento di una somma di denaro.

Torino, 15 luglio 2006

Roberto Gandiglio
dirigente della Divisione Commercio della Città di Torino

Gandiglio Roberto

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