La questione tridentina tra lasciti, restati ed interrogativi

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Si è soliti ritenere il Concilio di Trento tanto come la sedes materiale di un rafforzamento ed irrigidimento di posizioni romano-curiali quanto come la testimonianza (anche giuridico-canonica) di un più approfondito spirito di studio e ricerca[1] e della proclamazione di tesi dottrinali forti contro le ultime eresie, sullo sfondo neanche troppo latente d’una dicotomia irrinunciabile -e stavolta vincente- tra l’universalismo cattolico-romano e la incipiente vicenda politica degli Stati Nazionali[2]. Questi, alla Chiesa (o meglio: al Papato) che aveva conteso il primato ad un’autorità polimorfa e pugnace come quella imperiale, dovevano apparire come aggregati in fieri, culturalmente e in quel dato momento meno radicati di quanto fosse stato l’Impero, ma ben decisi a far valere il legame più preciso e penetrante che possedevano rispetto ai propri territori.
Cionondimeno, è ugualmente utile affrontare lo studio di questo periodo storico aggiungendovi alcune note di criticità, che consentano di riscattarlo, attraverso un approccio comparatistico, ad una prospettiva dinamica valida per la comprensione di taluni fenomeni dell’oggi.
Il contesto entro cui si svolge il difficile Concilio di Trento è di assoluto interesse. La parabola rinascimentale ha superato i suoi tratti migliori, per i quali può oramai dirsi conclusa[3]: la centralità della persona, oltre la dialettica (istituzione del) sacro/ (istituzione del) profano, non è riuscita ancora a produrre un durevole cambiamento sociale; il fulcro intellettuale e mercantile di inizio Secolo è in crisi; le carestie e le epidemie, che connoteranno porzioni significative del successivo Diciassettesimo, non sono tuttavia infrequenti; l’epopea coloniale è al suo punto più sanguinoso e un equo diritto missionario non era pronto a sbarrarvi la strada[4]; il conflitto tra antiche strutture nobiliari e le emerse forze professionali non è sopito. L’inquietudine si accinge a percorrere anche le Arti, anticipando persino alcune delle contraddizioni politiche, giuridiche, economiche, più compiutamente visibili nel corso del Seicento. L’interprete può iniziare a comprendere le connessioni potenzialmente radicali tra metodologia ed assiologia.
I modelli scientifici e divulgativi in gioco, nel campo della cognizione (delle fonti) e in quello della collezione (delle stesse), sono essenzialmente due, e possono essere accomunati per la omologa radice romanistica -o, rectius: tardo-romanistica-, non già per le diverse impostazioni che sottendono. Il primo, di matrice gaiana, si regge su una concezione dinamico-soggettivistica del fenomeno giuridico: res, personae, actiones. Il secondo, d’origine gregoriana, verte su una prospettiva funzional-istituzionalistica del diritto: iudex, iudicium, clerus, connubia, crimen. La necessità di una sintesi, teorica ed operativa, si era già evidenziata nel Concilio di Basilea (1437: oltre un secolo prima rispetto all’apertura di quello Tridentino[5]); tuttavia quello che era stato denominato e proclamato –sancito?- come “Corpus Iuris Canonici” non solo vedeva indiscutibilmente trionfante la seconda opzione metodologica, ma soprattutto nasceva da un insieme progressivo di compilazioni. Queste, anche rilette secondo una interpretazione oggi corrente, in “combinato disposto”, restano autonomamente individuabili, e non concepite insieme come corpus dai rispettivi “curatori”: il Decretum di Graziano, il Liber Extra di Gregorio IX, il Liber Sextus di Bonifacio VIII, la raccolta emanata da Giovanni XXII e comunemente detta “Clementinae” dal nome del suo originario ideatore, Clemente V. Si tratta evidentemente d’una ratio legis sistematizzante -e come scopo primario della norma e come intento del suo “Legislatore”- profondamente diversa dai propositi dichiaratamente innovativi, affermativi e non solo confermativi del Codex del 1917 e di quello del 1983.
Simile distinzione può essere giustificata dal fatto che i due Codices summenzionati richiamavano almeno in parte le statuizioni di un Concilio precedente e non -come invece il Corpus– traevano inoppugnabile sanzione da uno successivo. Né potrebbe essere altrimenti, giacché il Concilio Vaticano II si configurava (anche) come presa d’atto degli eccessi gerarchicizzanti ed autoreferenziali del Concilio Vaticano I[6] e un Concilio Vaticano III che possa riferirsi al (riformare il) Codex non appare, talora pure auspicato[7], oggi all’orizzonte.
Ciò non bastasse, la differente terminologia (codex et corpus), sin dal livello etimologico, suggerisce la discrepanza strategica. Mentre “Codex” è (ri)organizzazione di norme, anche di quelle emanate contestualmente alla sua stesura, idoneo perciò a divenire strumento di elevata ricorrenza pratica, “Corpus” è assembramento, (ri)composizione, non più matassa, ma difficilmente “messa” (a punto), perciò fondamentalmente massa, la cui attitudine inclusiva agisce sul piano simbolico prima che su quello pratico. Né va taciuto come l’Assise Tridentina, recuperando sul punto le statuizioni di Basilea, istituisse o senza meno rinnovasse il dualismo “Corpus Iuris Civilis”/“Corpus Iuris Canonici”. Il fatto che questo non avanzasse le stesse pretese di completezza del quasi omonimo civilistico giocava a favore della Curia Romana: la quasi omonimia ribadiva l’autonomia ed elevata specializzazione scientifico-disciplinare canonistica, e al tempo stesso l’incompletezza del Corpus costituiva (costituisce) presupposto per il richiamo di elementi metanormativi, quali la ratio divina, della cui interpretazione il Soglio Petrino veniva ratione materiae apicalmente investito.
La questione tridentina, allora, dal piano storico-decisorio che inizialmente la connotava, muoveva verso l’orizzonte strategico-culturale[8], traendone nuova linfa, sia pure in itinere nuove difficoltà -ciò rimane probabilmente arguibile anche dalla significativa estensione cronologica del Concilio[9].
Il Diritto Canonico palesava progressivamente talune caratteristiche peculiari, e spesso tra loro simmetriche e reciproche, ancora oggi ragione di studio e dibattito: dinamicità, coesione, apertura, ma anche elasticità, durevolezza, intimità, federalismo, provvisorietà contingente, trascendenza dei fini…
Il Diritto Canonico manifesta pure una estetica della maieutica: una rappresentazione rituale della dialettica tirar fuori/accogliere (alla Parola). Alcuni esempi risultano probanti: si pensi al battesimo, quale sacramento iniziatico dei fedeli di Cristo, ma anche come purificazione dal peccato; si pensi ancora alla confessione auricolare, attraverso cui il fedele estrae dalla propria anima ricordo, resoconto e coscienza del peccato compiuto, ricevendone istruzioni più curative che penitenziali, modulate sulle sue colpe, ma congrue al pacifico proseguimento dell’esistenza. Si pensi ancora ai criteri che informano il processo penale canonico, ove spicca un’attitudine terapeutica che rende più facile il distaccamento dalle secche di un modello inquisitorio puro -o peggio: inquisitoriale. L’estetica della maieutica può ricavarsi anche a contrario, guardando al Cattolicesimo delle origini e alla sua fenomenologia sostanzialmente clandestina nell’Occidente Romano: la sanzione tipica dell’apostasia si traduceva nell’allontanamento fisico e spirituale dalla comunità[10]. Ciò chiarisce pure perché si è parlato di “estetica della maieutica”, restando essenzialmente, intimamente, l’etica etica della Rivelazione, saltum cognitivo e spirituale che trova nell’intangibilità del dogma il proprio connettivo esistenziale. Negazione del dogma, negazione di (Verità di) Fede, sanzionata come negazione dell’accoglienza -cattolica-. È interessante in proposito la posizione dell’eretico quale acattolico battezzato; non è negoziabile l’iniziazione, nell’apostasia, semmai l’organica appartenenza alla comunità dei Christifideles: del resto, l’eretico ha scelto.  
Non si può, per altro verso, far del Concilio di Trento icona ecclesiale del ripensamento: il trattamento degli eretici e la natura puramente indiziaria di troppe condanne avevano causato il disagio anche di alcuni religiosi, ma le ultime stagioni inquisitoriali sono contemporanee o finanche successive all’adunanza tridentina[11], e le risultanze normative di questa (i Decreti) certo non perdono il carattere dell’assertività[12], anzi lo recuperano, contribuendo a (ri)fondare un processo canonico, ormai autonomo dalla genealogia in utroque di rito romano-canonico[13], che s’opponeva alle prassi ordaliche, specie nel sistema probatorio, ma che -a parte la divaricazione dalla centralità del duello, comunque in simpatia presso l’etica (epica) cavalleresca anche cristiana- poteva ricalcarne gli esiti cruenti.
Questo diritto in (auto ed etero) formazione emerge e si rigenera anche per mezzo dell’equità, d’una consuetudine che può applicare la norma in modo più equo di quanto appaia la sua formulazione, d’una giurisprudenza che ha attitudine a creare consuetudine giurisdizionale.
Non appare un caso, allora, che una delle più autorevoli raccolte di decisioni rotali e della S. Congregazione del Concilio venisse pubblicata, a cura di Farinacius, Rubeus e Compagnus, addirittura nel 1697: la viva ermeneutica dei decreti tridentini continuava ad avere peso nella pur ormai mutata coscienza giuridica europea.
 
 
Domenico Bilotti

[1] Alcuni rilievi di questo tipo sono in effetti fatti propri da F. BUZZI, Il Concilio di Trento (1545-1563). Breve introduzione ad alcuni temi teologici principali, Milano, 1995.
[2] La contestualizzazione geopolitica del Concilio di Trento (la scelta del luogo della sua celebrazione e lo scenario diplomatico retrostante) è diffusamente e significativamente al centro di A. PROSPERI, Il Concilio di Trento. Una introduzione storica, Torino, 2001.
[3] Al di là della forza (e dei limiti) di suggestioni e semplificazioni, la prospettiva di Bertrand Russel che fa coincidere la fine della stagione rinascimentale con il Sacco di Roma compiuto nel 1527 da truppe spagnole e tedesche è qui sostanzialmente condivisa, non già per lo specifico episodio individuato dal filosofo e logico gallese, quanto piuttosto per la sua collocazione temporale (tra il III e il IV decennio del XVI secolo). 
[4] Questo indirizzo di ricerca sull’attitudine della Chiesa Cattolico-Romana ad insediarsi in territori (anche metaforicamente) periferici rispetto ai comuni centri di potere è del resto ripreso anche in studi sulla sua condizione contemporanea. Cfr. al riguardo A. BETTETINI, Religione, diritto canonico e diritto politico in una società dopo-moderna, in (a cura di) G. B. VARNIER, Il nuovo volto del diritto ecclesiastico italiano, Soveria Mannelli, 2004.
[5] Del resto, proprio le Clementinae, la componente del Corpus cronologicamente più vicina al Concilio di Trento, risalgono al 1317. Il (significativo) divario temporale tra la progressiva collezione del Corpus e la sua sanzione a Basilea e tra il Concilio di Basilea e quello di Trento è compiutamente prospettato in C. FANTAPPIÈ, Introduzione storica al diritto canonico, Bologna, 2003. Per annotazione critiche, cfr. per tutti: S. FERRARI, Appunti di storia del diritto canonico, Milano, 1997.  
[6] Il medesimo assunto è stato del resto riproposto anche come punto di partenza per la programmazione di un nuovo appuntamento conciliare. Cfr. in argomento V. MANCUSO, Cattolici, pensiamo a un Concilio Vaticano III, su La Repubblica, 25 febbraio 2009.   “[…]La svolta positiva che il Vaticano II ha introdotto nel rapporto tra cattolici e storia deve essere estesa al rapporto con la natura. Una volta fatto ciò, avverrà che, come oggi i cattolici sono tra i più equilibrati nell’interpretare le questioni economiche e sociali, e tra i pochi ad avere una coscienza profetica di fronte alla forza militare, lo stesso equilibrio apparirà sulle questioni bioetiche. Si tratta solo di estendere alla natura il medesimo principio di laicità applicato alla storia dal Vaticano II. Il criterio è quello indicato dal Concilio nel punto 7 della dichiarazione “Dignitatis humanae”: “Nella società va rispettata la consuetudine di una completa libertà, secondo la quale all’uomo va riconosciuta la libertà più ampia possibile, e non dev’essere limitata se non quando e in quanto è  necessario […]”, ibidem.  
[7] Di questo avviso, recentemente, ibidem, e in termini maggiormente polemici E. MILINGO, Un Vaticano III nella mente di molti, (anche) su La voce di Fiore, 21 luglio 2008, che fa discendere la sua tesi da una particolare esegesi dell’ecclesiologia di Hans Küng.
[8] Anche in merito all’altro Concilio ricordato, quello di Basilea, è possibile avanzare una chiave di lettura (non solo teologica ma anche) di politica ecclesiale, a partire dalla sua stessa convocazione, la quale -dal punto di vista operativo- mirava perlopiù ad applicare il decreto Frequens del Concilio di Costanza. Tuttavia, l’occasione non si rivelò semplicemente rituale, giacché vi si adottarono risoluzioni conciliative nei confronti delle Chiese Ortodosse di breve durata e della Chiesa Cattolica Armena (la cui applicazione non fu però tempestiva).
[9] È il caso di aderire alla tesi da tempo veicolata in H. JEDIN, La conclusione del Concilio di Trento (1562-1563), Roma, 1964, 41 e ss., secondo cui, in effetti, la prima “recezione” del Concilio di Trento non tanto si è verificata nella applicazione ed effettività delle disposizioni decretali bensì già nel corso del Concilio stesso, conclusosi quando lo scenario, anche teologico ed ecclesiale, risultava profondamente cambiato rispetto al tempo della sua convocazione e quando i suoi artefici e promotori avevano significativamente mutato parte dei propri indirizzi, se non quando addirittura erano scomparsi. 
[10] Cfr. sul punto J.-P. MOISSET, Storia del Cattolicesimo, Torino, 2008, 52-64, 73-118.
[11][…] Accedendo al soglio pontificio nel 1566, Pio V è il primo papa ad avere l’occasione di applicare effettivamente le misure di riforma decise dall’assemblea tridentina dopo la chiusura dei lavori. Questo religioso domenicano e pio ha fatto carriera nell’Inquisizione e ha incoraggiato nel suo vescovado di Mondovì gli sforzi che mirano a riformare la Chiesa prima del concilio, sostenendo, per esempio, i barnabiti […]”, ibidem, 316.
[12][…]Mentre il Concilio Laterano V era rimasto sostanzialmente inattuato, quello di Trento è applicato da papi energici decisi a rendere vivi i decreti, sotto il proprio stretto controllo. La Congregazione del Concilio costituita nel 1564 serve a regolare le difficoltà legate all’interpretazione dei decreti disciplinari, secondo il punto di vista pontificio. La sua istituzione segue quella della Congregazione della Santa Inquisizione (1542), e si propone di conferire maggior forza e coerenza alla repressione dell’eresia […]”, ibidem, 315.
[13] Benché inizialmente, infatti, gli studi civilistici avessero mostrato talune comprensibili riserve, “[…] è invece sulla sponda canonistica che, dopo qualche decennio d’incertezza, l’integrazione dei due ordinamenti registra rapidi progressi. A stimolarla provvedono alla fine del secolo XII due fenomeni. Da una parte la folta produzione di decretali di buona qualità, emanate da pontefici talvolta tecnicamente formati nelle scuole bolognesi: tanto che le loro norme riecheggiano persino dibattiti accademi. Se ne fanno numerose raccolte; delle Compilationes antiquae è sintomatico il successo conseguito non solo nell’uso forense, ma anche in scholis, presso i primi decretalisti che le corredano di glosse. D’altro canto, poi, ha conseguenze decisive la massiccia irruzione del diritto romano, all’epoca di Uguccio, nella didattica e nella dottrina. Entrambi i fenomeni sospingono i canonisti verso la fusione della loro scienza con quella raffinata e tecnica dei legisti […]” (in E. CORTESE, Il rinascimento giuridico medievale, Roma, 1996, 58), ciò non toglie che la progressivamente crescente specializzazione della formazione canonistica abbia radici antiche, delle quali il Diritto Canonico secentesco e settecentesco può essere ritenuto tuttavia un esito significativo e del tutto peculiare. Sin dalla fine del XIII secolo infatti “[…] dell’avanzata del diritto canonico il civilista, però, stenta a farsi consapevole […]”, ibidem, 62.

Dott. Bilotti Domenico

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